A cosa può corrispondere, in
poesia, un romanzo di formazione? Alle peripezie, all’educazione sentimentale
di un adolescente, alle sue prove di vita, cosa può sostituire un poeta maturo
se non il carosello delle proprie letture, degli incontri che lo hanno
plasmato, e forse aiutato a misurarsi con se stesso nel tempo?
Ho tra le mani una plaquette di
Nicola Romano, poeta di Palermo, intitolata Voragini
ed appigli, apparsa recentemente per le edizioni Pungitopo. Ci sono,
dunque, quegli abissi di senso nei quali a volte la poesia ci invita a
precipitare, ma ci sono anche gli «appigli», ovvero le presenze che compongono
una privatissima costellazione di versi, con i quali tornare a confrontarsi. La
struttura del volumetto è questa: una citazione di due versi, e a seguire una
poesia che si rapporta con questi ora in forma di commento, ora di imitazione,
oppure di completa riscrittura. La dinamica intertestuale è fitta e variata, a
volte la citazione è poco più, o poco meno, di un pretesto. Altre volte si
fatica a ricomporre il rapporto tra poesia ed esergo, talmente è forte
l’intervento dell’autore rispetto alla sua fonte; ma questo è un inganno
ottico, una precisa anamorfosi rispetto a quello che sembra l’intento profondo
del libro, che è tutto nel titolo. Ci sono poeti che spingono sull’orlo di
quell’abisso, sembra suggerire Romano, e allora guardate che ne può venir
fuori. E ci sono i poeti da “appiglio”, quelli la cui funzione – ammesso che la
poesia ne abbia una - è quella di accompagnare, evidenziare, finanche siglare
certe esperienze. Non importa in quale istante della nostra vita ci siamo
imbattuti in loro: la capacità di aprire «voragini» o di offrire «appigli»
sembra mantenersi intatta, la loro azione è costante. Un poeta non smette mai
di formarsi: il suo, suggerisce Romano, è davvero un apprendistato a vita.
Toti Scialoja |
Non sorprende, allora, che nel
pieno della maturità abbia convocato i suoi “stati generali”, e li abbia come
sottoposti a un’amorosa e intensa verifica. Bisognerà riconoscere che tutti
sembrano aver tenuto, sia i poeti-voragine che i poeti-appiglio (evito
intenzionalmente gli elenchi e lascio piuttosto al gusto e alla sensibilità del
lettore il compito di ricomporre le due squadre). È un atto d’amore, ma anche,
credo, di severità con se stessi, pure se in qualche caso recepiamo una deriva
ludica (si veda, ad esempio, il testo reinventato “alla maniera di” Toti
Scialoja); un po’ come in una fotografia di gruppo, dove Romano, fuori campo,
regge l’obiettivo cogliendo dietro i sorrisi di circostanza personalità e
umori. E come in ogni foto di gruppo, c’è sempre chi gioca: ma quella
fotografia, nel suo insieme, altro non è che il mosaico attraverso cui l’autore
si autorappresenta, per interposta persona.
Alfonso Gatto |
Meditando sulla parola poetica, e
sulla sua consistenza negli anni del post-Novecento, Romano mette sulla scena
del suo personale teatro una ricca serie di attori. Ci sono figure conterranee,
come Goliarda Sapienza, Basilio Reale, Lucio Piccolo, e altre che sono ormai
ben assestate nel pantheon della lirica moderna. Qualche figura più appartata o
meno nota (Giacomo Giardina, Angelina Lanza) viene a completare questo folto
gruppo dove finalmente tornano visibili molti poeti del Sud, ingiustamente
trascurati, come Gatto, Bodini, Carrieri.
Vittorio Bodini |
Ma chi avvertisse soprattutto
un’atmosfera da «luna dei Borboni» coglierebbe solo in parte la misura di
questo libretto, che si conclude, non a caso, con 40 haiku che poco o nulla
condividono della struttura originaria di questa forma. Il paesaggio, in Voragini ed appigli, è una presenza in
secondo piano. È piuttosto il variare della luce e del clima, nel passare delle
ore e delle stagioni, a scandire gli spazi di queste poesie. E anche nella
sezione conclusiva al paesaggio si sostituisce il pensiero: sono aforismi in
forma di haiku, dense e dolorose riflessioni sul presente. Caduta la maschera,
il poeta-fotografo si pone finalmente davanti all’obiettivo nei panni di un
uomo che di quel Novecento sì è ampiamente nutrito, traendone una capacità di
visione critica che di libro in libro non lo abbandona.
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