Roberto Deidier, Solstizio, Mondadori, Milano 2014, pp. 170
È una poesia che non conosce le mezze stagioni quella di Roberto Deidier, scandita
dalle polarità opposte del “solstizio”, non conosce la malinconia autunnale e la speranza
della primavera, ma sa soltanto il caldo dell’averno estivo e il gelo graffiante dell’inverno.
Alla luce abbagliante dei pomeriggi estivi fa da controcanto il bianco accecante dei paesaggi
invernali innevati («per questo silenzio bianco, di neve / Sarebbe bastato chiuderli,
gli occhi, / Rifiutarsi a quest’aria invernale»).
E il pensiero corre al meriggiare pallido e assorto di Montale, dove il rovente muro d’orto
di un pomeriggio estivo diventa la metafora della solitudine della condizione umana, una
muraglia invalicabile con cocci aguzzi di bottiglia, o alla terrificante bianchezza della
balena di Melville con l’assenza di colore che racchiude tutti i colori e con il mistero
impenetrabile che si cela dietro il velo di apparenza della realtà, oppure al “silenzio bianco”
del “Linguaggio” che si nasconde dietro il brusio delle parole, dei nomi. «C’è un
oltre nelle cose», affermava Vera Nestorov nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, il
romanzo con cui Pirandello sancisce la morte del realismo e del naturalismo, ed è questo
oltre, questo al di là, che la poesia si sforza di raccontare.
Il tema principale della raccolta, la cui complessità e ricchezza tematica si alternano a
una riflessione sulla poesia stessa, è quello del viaggio, nella declinazione dell’esilio, della
partenza, della ricerca, dell’impossibilità di abitare in “un posto che non è nostro”. Ma
non esiste nostos in Solstizio, non c’è spazio per la nostalgia, e la ricerca è una ricerca tortuosa,
dove la fine coincide con l’inizio, l’arrivo con la partenza («Comprenderai le due
malinconie, / Ognuna come l’altra, saprai bene / Quanto l’arrivo sia nella partenza / E
l’ombra nella luce del tuo viaggio»), l’ombra è contenuta nella luce del viaggio.
È un libro sincero Solstizio, come «l’acciaio martellato dal dolore» (così Melville amava
definire l’Ecclesiaste, «il più sincero di tutti i libri»), dove non c’è spazio per la redenzione
e la colpa non conosce l’espiazione, perché non esiste la colpa. La poesia, infatti, sconfigge
la legge e, allo stesso modo della carità, la trasforma in desiderio (quello metafisico
di Mosè o quello carnale di Agar, poco importa), libertà e ribellione, come in Abramo o
nella moglie di Lot, padri e madri di un occidente biblico in cui Deidier va alla ricerca di
una “tradizione”. E poco importa se la ricerca trasforma Adamo in un confuso Amleto
incapace di nominare le cose («le mie parole non chiamavano / nulla, / I nomi che tentavo
mi tornavano / Addosso come torna un’eco / chiusa»), Abramo in un ribelle capace
di rivolgere la sua lama verso Dio, Agar, la concubina, in compagna fedele («Non t’avrei
mai voltato le spalle»), Mosè, il patriarca, la guida certa, «in un figlio vessato che abbandona
la casa di un padre severo e vaga inesperto senza ancora sapere dove andrà»,
seguendo un istinto, il desiderio che gli farà scambiare «una musica per legge», mentre
rincorre la voce di un padre vero che si nasconde in un roveto ardente, rivelando la
verità del viaggio, la sua natura paradossale e tortuosa che è la stessa natura del
Linguaggio (Ego sum qui sum) e trasforma, ancora, la discendenza di Abramo nella «distesa
infinita della sua stessa solitudine», il mitico Golia in un gigante innamorato del suo
nemico Davide, in una scena, dalla tensione shakespeareana, che fa pensare all’amore
“redentore” di Ismaele per Queequeg in Moby Dick, nella celebre interpretazione di
Leslie Fiedler. Infatti «avere una tradizione è meno che nulla, è soltanto cercandola che si
può viverla» (Pavese). E in Solstizio la tradizione è l’orizzonte della possibilità del
Linguaggio, con Heidegger e Gadamer in filigrana, un orizzonte tragico che diventa
umoristico nel volto cangiante di un Giano bifronte, il poeta, abile nel sovvertire l’ordine
delle cose, nello scardinare le convenzioni.
Il viaggio di Solstizio ha inizio, «in un’alba di sale», dopo la distruzione di Sodoma e
Gomorra, in uno scenario da terra desolata dove non c’è posto per la primavera, perché
«aprile è il più crudele dei mesi e non genera che lillà dalla morte terra», nell’istantanea
“senza redenzione” della moglie di Lot, scampata ad un linciaggio e trasformata in statua
di sale per avere disobbedito ad un comandamento, più misericordiosa del suo Dio misericordioso,
incapace di non voltarsi per vedere, ancora per l’ultima volta, lo scenario di
morte e distruzione provocato dalla collera di Dio nei riguardi dei suoi empi carnefici:
un viaggio attraverso il deserto e gli oceani di solitudine delle metropoli contemporanee
descritte attraverso una lingua scabra, asciutta e minimalista, ma ricca di impennate
metafisiche, continuamente spezzata dagli enjambment che generano un andamento zoppiccante,
singhiozzante; un ritmo sincopato.
La condizione del viaggiatore protagonista di queste poesie sarà, allora, quella
dell’“orfano” (al “padre assente” è dedicata una delle poesie più intense della raccolta). E
come non pensare all’Ismaele melvilliano, il quale, portando «il nome del padre della
tribù dei selvaggi abitatori del deserto, è l’errante composito e definitivo[?] La sua
immortalità è quella di Assuero, lo stanco sopravvissuto, ma anche quella di Elia: testimone,
profeta e intercessore di salvezza» (H. Fisch, Un futuro ricordato, Il Mulino, Bologna
1988, p. 106). Il suo destino è il destino di Edipo, del vecchio marinaio di Coleridge,
dell’Ismaele di Moby Dick, il destino dei poeti e degli artisti che vivono di morte e “da
vivi salutano la vita”.
È rischiosa la condizione del poeta, come quella del trapezista descritto in un racconto
di Kafka – figura centrale in Solstizio –, sospeso nella vertigine del vuoto, a combattere
contro la forza di gravità che lo vuole a terra, Dio incarnato. Ma il trapezista di Deidier, a
differenza dell’albatro di Baudelaire metafora del poeta, non scende mai a terra, neppure
per mangiare («Giorno e notte restava sul trapezio: / Quel poco che chiedeva come cibo
/ O quant’altro gli occorreva, / All’istante / Gli salivano pronti gli inservienti»), vivendo
«a parte sul suo trapezio per mantenere esercizio e perfezione». A terra le sue enormi ali
di gabbiano gli impedirebbero di camminare. Il poeta vive in una condizione di drammatica
diversità: negandosi alla vita vive di morte, come il vecchio marinaio di Coleridge,
l’ebreo errante, l’olandese volante o il barone rampante di Calvino che, strappata la tovaglia
del potere paterno, “preferisce” dire no alla maniera di Bartleby, il misterioso scrivano
di Melville. Preferisce vivere una vita sugli alberi, senza scendere mai a terra, piuttosto
che trangugiare un piatto di lumache.
Il poeta vive il dramma di Adamo, che singhiozzando pronuncia le prime parole al
mondo, ma preferisce il silenzio e non ha colpa eccetto quella di non conoscere ancora
la “verità del deserto oltre il giardino”, ignaro com’è di iniziare, suo malgrado, l’avventura
“ermeneutica” dell’uomo sulla Terra, dove l’Essere cerca il soggetto (l’ente) e il soggetto
cerca l’Essere, le parole cercano la Parola, in un incessante “doppio vincolo” di
“identità e differenza” che innesca il tempo, la storia, la cultura e interrompe il silenzio
senza tempo dello stato di natura. Lo stesso dramma del fanciullo Proust che al risveglio,
«dopo una notte alla ricerca di una città desiderata», «avrà voglia al primo sole / di sapere
nuovamente dov’è, / guarderà intorno a sé cercando nomi».
Ma tutto è ambivalente in Solstizio e il mondo ha un senso perché ne ha due: la vita e la
morte, l’estate e l’inverno, il sonno e la veglia, la coscienza e l’inconscio, l’amore e la
morte. L’alba non è che “un sogno della notte” e il male, come nell’oscuro Kafka degli
aforismi di Zurau, «è il cielo stellato del bene».
La solitudine esistenziale dei protagonisti di Solstizio, che conoscono il disamore e
dell’amore, “esperienza di un’arte proibita”, sanno l’abbandono, somiglia tanto a quella
dipinta da Edward Hopper (e non è forse un caso se una poesia è dedicata a una nota
opera di Hopper) attraverso giochi di luce e intense note di colore, e sembra rimandare
anche alle solitudini di quegli outsiders del sogno americano descritti, senza orpelli e verbosità,
da Raymond Carver.
La luce intensa di un mattino di sole e il buio della notte che si confondono sembrano
rimandare, inoltre, alle inquietudini e alle atmosfere del cinema di David Lynch. E il pensiero
corre a Mulholland Drive, al mistero irrisolto di un noir dove “le cose dritte mentono”,
confuse nella logica maculare e paradossale dell’inconscio, e il detective viene sconfitto
perché la verità è l’invenzione di un bugiardo. Questo è il punto. E se la incroci, la
verità, «lungo la strada, allora fatti da parte, voltati altrove e prosegui come un bambino
ostinato o l’uccello che a sera inoltrata non sa tacere».
Nino Arrigo