mercoledì 26 ottobre 2016

Un saggio di Alessandro Gaudio

Posto il link di un denso intervento di Alessandro Gaudio sulla mia poesia, apparso sulla rivista «Diacritica», intitolato «Il resto di nulla». Poesia e fisica dei versi di Roberto Deidier. Ringrazio l'autore per la generosità e per i riferimenti a Lacan, che finora nessuno aveva mai tentato intorno al mio lavoro in versi.








venerdì 14 ottobre 2016

AILANTO n. 35 - Su Marco Aragno




C’è un verso, nel nuovo libro di poesie di Marco Aragno, che mi ha particolarmente colpito. Si trova nell’ultimo, lungo componimento intitolato Viaggi binari, e anche questo titolo è bello e si sarebbe prestato per l’intero volumetto, che si intitola invece Terra di mezzo. Lo ha pubblicato, sul finire dello scorso anno, l’editore Raffaelli di Rimini. Questo verso parla di generazioni, ed è abbastanza inusuale trovare questa parola declinata al plurale, perché da un decennio, ormai, la nuova poesia italiana sembra troppo spesso arroccarsi su se stessa, rompendo di fatto e con risultati prevedibili, il ponte con i padri e i fratelli maggiori. Scrive Aragno, che è ormai un poeta di trent’anni, del «movimento dei pescherecci» che intreccia «generazioni con generazioni / dentro un’illusione di continuità». Potremmo rispondere, troppo facilmente, che il tempo stesso è illusione, ma non credo sia questo il senso del verso. Per provare a spiegarlo chiedo soccorso a Foucault, che l’autore mette in epigrafe: «Vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice». Ecco, quell’«illusione di continuità» non è un semplice dato anagrafico o più latamente culturale, ma diventa per Aragno una sfida percettiva, coinvolge non solo il tempo (o la storia, quando normalmente si parla di generazioni), ma anche lo spazio empirico in qui quella storia si svolge e vorrebbe essere narrata. Anzi, essa è tutt’uno con quello spazio. Lo sguardo non può più essere solo orizzontale, ci suggerisce Aragno, ma insieme verticale. Deve scendere nel tempo, anche a costo di registrarne la frammentarietà piuttosto che la continuità: perché il paesaggio non rinchiude «la scena della storia».
Il poeta non giudica le sue scoperte. Non atteggia valori o disvalori, non esibisce prese di posizione. Così il suo potrebbe sembrare, ma è un’apparenza, un distaccato grado zero dell’osservazione, ma è la lingua, questo coacervo delle nostre identità, a sconfessarlo.  Ancora una volta ci imbattiamo in un soggetto che ha bisogno non solo di circoscrivere le proprie esperienze, ma di restituirle in una forma estetica, oggettivandole nella scrittura. È il problema di partenza di qualsiasi percorso creativo che voglia ispirarsi a una presa di coscienza, alla conquista di una consapevolezza, anche se questa dovesse risponderci in negativo, come è stato per (quasi tutti) i poeti del Novecento. Aragno prosegue, dopo il felice esordio di un libro impronunciabile (Zugunruhe, apparso nel 2010), a creare la dimensione del problema, senza avere fretta di darsi delle risposte. Da qui proviene l’impressione non di una freddezza, ma di una capacità di distacco dalle cose che appartiene ad altra maturità. Ma i suoi versi hanno, al contrario, tutta l’accensione di un espressionismo appena soffocato, e delegano spesso il loro inquieto immaginario a proiezioni animali, allestendo una sorta di cupo bestiario medievale. La natura di queste poesie non è certo il teatro dell’idillio, ma il duplice versante di una crudeltà che si mostra anche nelle forme più innocenti.
Tutto il libro è animato da questa sorta di viaggio, ora immobile e metaforico, ora concreto, che comunque approda all’osservazione. E se qualche volta il poeta lascia trapelare una velatura gnomica (versi come «La realtà incombe comunque», «Nessun gesto, nessuna memoria / potranno salvare questi luoghi») non siamo messi di fronte a un assioma, ma al recupero di quei lacerti che la frammentarietà e la finitudine tornano ancora a consegnarci dalle profondità della terra e dal serbatoio, comunque ricco, della storia. Non certezze, dunque, ma poli di tensione, che confermano quella di Aragno tra le voci più importanti della poesia recente.

Marco Aragno, Terra di mezzo, postfazione di G.M. Villalta, Raffaelli 2015, e. 12

Abbiamo difeso la nostra infanzia
in un pugno di casupole bianche
tufo aggrappato al dorso della roccia
esposto al passaggio delle stagioni.
L’abbiamo difesa in una stanza
riscaldandoci al fuoco serale
che riaccende questi volti come faceva
con le facce dei nostri padri.
Altri, invece, tentarono la sorte
attratti dalla grandezza della valle;
violarono il cuore delle foreste
che li sedusse col palpito del verde
e rubò la vita a uomini e animali.