mercoledì 26 dicembre 2018

Per Milo De Angelis

Il 28 novembre scorso Milo De Angelis è stato invitato dall'università di Palermo, in occasione di un importante scambio culturale tra Italia e Cina, a partecipare a un pomeriggio di studi sulla sua poesia. Posto il testo del mio intervento, con un augurio speciale a Milo.



Il nome di Milo De Angelis è entrato nelle vicende della poesia italiana di fine Novecento attraverso un titolo che ha, insieme, qualcosa di apodittico e qualcosa di invitante, comunicativo: Somiglianze. Non riesco a trovare altri titoli che possano somigliargli, negli immediati dintorni di quegli anni, quando uscivano libri come Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa di Nelo Risi (che poi ci avrebbe dato, però, Le risonanze) o Le mie poesie non cambieranno il mondo. Gli anni Settanta sono stati anni, si sa, combattivi, competitivi, linguisticamente ridondanti. Più indietro mi viene da pensare a Pasque di Zanzotto, e naturalmente a Satura. Insomma, in quel titolo vedevo un sapore novecentesco, classicamente novecentesco e insieme mobile, accattivante: a cosa rinviavano, infatti, quelle somiglianze? Di quali analogie ci invitavano a prendere coscienza? Anche il secondo titolo si dispone come il primo, un semplice plurale lasciato come sospeso sul vuoto del frontespizio: Millimetri. Apparve da Einaudi, e si sa che quella collana propone sempre una poesia in copertina. Al di sotto di millimetri, quindi, ci imbattiamo in questo verso: «Ora c’è la disadorna».  Per raccontare un tempo spoglio e ostile, in cui «gli anni si compiono a manciate», in un antagonismo tra soggetto e realtà che vorrebbe al contrario ottundere ogni consapevolezza, il poeta ricorre a un aggettivo sostantivato: la «disadorna». Ma potrei anche leggerlo, pensando a quanto della cultura degli antichi ha intriso la formazione di De Angelis, come una sorta di plurale neutro: le disadorna, di cui quel libro è, appunto, il millimetrico regesto. Talmente millimetrico da far implodere ogni possibile discorsività, ancora più che in Somiglianze.
A quali analogie, per l’appunto, poteva riferirsi un titolo come quello d’esordio? Una poetica dell’analogia prima o poi finisce per declinare una poetica del simbolo, apre un percorso simbolico (che non vuol dire necessariamente simbolista). In De Angelis l’equivoco veniva forse suggerito da alcuni dei suoi autori di riferimento, più volte citati, nei quali, per la verità, simbolismo, orfismo, perfino un certo ermetismo (se applichiamo la categoria in senso estensivo, fuori dai nostri confini) agiscono per via diretta o anche tangenzialmente. Ma non ho rievocato a caso la cultura classica di questo poeta, che credo abbia rappresentato un potente antidoto a derive modernistiche, che avrebbero fatto di lui, come hanno fatto di molti, un semplice epigono. Nella sua percezione del reale – e il reale, non il simbolico, è il vero, costante polo di tensione di De Angelis – un lettore accorto non avrebbe tardato ad avvertire qualcosa di epico, quell’epica quotidiana che ha segnato diverse esperienze lombarde. In questo De Angelis ha facile gioco nel rivendicare la propria milanesità. Non si tratta e non può trattarsi, ovviamente, di un’epica distesa in una narrazione fluida, in un racconto strutturato. Qui, piuttosto, regna il felice disordine della poesia moderna, la sua capacità di sintetizzare in immagini e non quella di scandire episodi; ma saremmo ancora a un livello di superficie, di fronte a questi versi, se semplicemente li leggessimo come quelli di un moderno che si è nutrito della lezione degli antichi. C’è invece, come De Angelis stesso ammette, una necessità di racconto che si scontra con la sua impossibilità, con una sostanziale incapacità. Se qualcosa è stato preso dai maestri più prossimi, credo sia riferibile a una visione epifanica, ciò che potrebbe apparire un paradosso: perché l’epifania non è soltanto qualcosa che si rivela, già in Somiglianze, ma qualcosa che viene cercato, ostinatamente cercato in una costante mitografia. Perché di questo, si tratta, ora che il percorso di questo poeta si dispiega per intero sotto i nostri occhi nel recente volume riepilogativo.
Non è certo semplice racchiudere in poche note il racconto di oltre quattrocento pagine che contengono una vita intera di poesia, e ancor meno lo è quando il poeta in questione è uno dei più frequentati, dai lettori e dalla critica, ma anche uno dei più complessi del panorama lirico tra i due secoli. Ad aiutarci nell’attraversamento concorrono senz’altro le osservazioni della postfazione, e ancor più la densa nota d’autore che chiude la lunga sequenza delle poesie. La vera novità del libro, rispetto alla confezione editoriale degli «Oscar» di poesia, ormai dismessi, è proprio questa: affidare alla diretta voce del poeta quella che non vuole soltanto risuonare come una dichiarazione di poetica, ma anche come una descrizione di lavoro, come un inesausto work-in-progress aperto al lettore. Un’autentica narrazione non solo dell’insorgere di una vocazione, ma anche di come questa energia irrinunciabile e soverchiante sia stata poi tradotta nei versi qui riuniti, a cui si aggiungono (altra importante novità) alcune poesie “giovanili”, conservate negli anni da un antico maestro e sodale come Angelo Lumelli. La parte delle poesie, così, dialoga in modo più fitto e concreto con il racconto della propria scrittura, a partire dalla sua scoperta e dalle prime prove compiute. Da quelle pagine fondamentali ci vengono incontro alcune categorie, alcune immagini: la «permanenza», lo «svelamento», il «ritorno», il «silenzio», il «tempo». Sono i grandi concetti, ovvero le linee-guida, che possiamo ritrovare in alcuni antecedenti novecenteschi che De Angelis ha eletto tra i suoi interlocutori privilegiati (penso, sopra tutti, a Celan, a Rilke, a Marina Cvetaeva), ma che in realtà attraversano tutta l’ossatura della tradizione poetica occidentale, dai classici greci e latini, verso i quali questo autore non ha mai cessato di dimostrare un’attenzione e forse una predilezione che in altri poeti appare più fievole.
Nel cercare di riprodurre i propri fantasmi e le proprie ossessioni sulla carta, De Angelis ammette fin da subito una sorta non di reticenza ma di impotenza. Parlare della poesia è qualcosa che «mi atterrisce e mi atterra», dichiara, per poi spostare il paradosso sulla natura stessa dell’atto poietico: ambire alla «permanenza» con gli strumenti più esili e indifesi che il presente possa metterci a disposizione. Ma il linguaggio dei poeti si sostanzia di questa contraddizione e dunque di questo miracolo: il suo effetto più pregnante è quello del ri-conoscimento, sulla linea ideale che congiunge Leopardi a Pavese, di un «mondo precedente», verso cui attua, nella spinta mitografica della parola, un possibile «ritorno». Il «porto sepolto» di Ungaretti ne diventa il simbolo più vicino ed efficace. Prima che tutto ciò possa compiersi, il poeta De Angelis ingaggia una lotta con il «silenzio», per sottrarvi quei «brandelli» di un racconto possibile su cui allestire le sue ardue impalcature liriche. È con questa energia implosiva che la sua scrittura da sempre si misura affinché attraverso la porta della Poesia possa infine mostrarsi «la vita autentica».
Dietro la sinopia dei versi appare dunque l’affresco completo: in De Angelis assistiamo alla sintesi di una poetica della parola e di una poetica del racconto, di una ricerca del senso sempre attiva e di una prassi descrittiva implosa. Solo l’affinità tematica può legare tra loro i testi di un libro in una contiguità possibile, ma si tratta ancora una volta di brandelli di discorso. Come accade in Tema dell’addio.
Sosteneva Saba, poeta stilisticamente lontano da De Angelis, che l’esperienza della poesia  si lega necessariamente a quella di un grande amore o di un grande dolore. E certamente, in quanto profondamente lirica, la scrittura di De Angelis si nutre di entrambi, ma compiendo un ulteriore passo in avanti. Fin dal suo libro d’esordio, infatti, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una tappa, a una collana di episodi folgoranti che dovranno rinviare ad altro, come a costruire, di libro in libro, una sorta di canzoniere, o, per riprendere un titolo recente di questo autore, una «biografia sommaria»; e allora la citazione sabiana parrà ancora più calzante, in questa prospettiva, specie se amore e dolore divengono due poli di tensione, due estremi di vita incessantemente dialettizzati tra loro. 
Tema dell’addio rappresenta come un cortocircuito espressivo, in questo grande percorso, poiché riporta De Angelis a certe pulsioni e costruzioni del dettato poetico tipiche dei suoi esordi con Somiglianze Millimetri, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Certamente, ciò accade dopo una lunga maturazione, che consente a questo autore di distendere comunque quelle improvvise inarcature, quelle accensioni che contraddistinguono la sua prima scrittura. Eppure ogni testo vive qui al tempo stesso di autonomia propria e si lega agli altri, attraverso una narratività franta, spezzata: così accade tra le diverse sezioni del libro, a rimarcarne la coerenza e la compattezza, ma anche all’interno di ciascun testo il lettore torna talvolta ad assistere a quelle improvvise deviazioni d’immagine, a quegli accostamenti improbabili, a quei depistamenti cui la sintassi del primo De Angelis ci aveva abituato, consegnandoci uno stile sempre riconoscibile nella sua densità. E lo stile, per l’appunto, non è mai innocente, ma rimanda inevitabilmente alla complessità dei rapporti non solo con il mondo fenomenico, ma anzitutto con quello dei propri sentimenti. 
Amore e dolore sono i due grandi ingredienti di questo piccolo canzoniere estremo, tutto centrato sulla figura della moglie Giovanna Sicari, una delle voci poetiche più vere e originali dell’ultimo scorcio di Novecento, una voce che ancora attende la sua giusta ricollocazione nelle vicende letterarie più recenti. La forza, direi la forza disperata di questo libro sta proprio nel porsi in uno stadio intermedio, sospeso, di assoluta e totale tensione, tra vita e morte. Queste poesie cantano nell’amore e nella vitalità l’imminenza di una morte e quindi vanno a collocarsi su un versante tutto particolare, quello di un’attesa ineludibile. Il tempo diventa l’antagonista, la coordinata che continua a sottrarsi e la cui conta segna inevitabilmente un tracciato a rovescio. E nonostante la vicinanza, la contiguità con l’esperienza tragica di una scomparsa annunciata (Giovanna Sicari si è spenta alla fine del 2003 dopo una malattia a lungo combattuta), c’è in queste poesie come la sublimazione del dolore, la sua traduzione in una esatta esperienza estetica.
Si prenda, ad esempio, il testo d’avvio, una poesia dell’attesa in vita, che diventa emblema di tutte le altre attese che via via diventeranno sempre più drammatiche. È una poesia che nei suoi vuoti e nei suoi pieni contiene già l’andamento dell’intero libro, un lungo affresco in bianco e nero, dove la memoria traccia sul tessuto stesso del presente i suoi segni prevaricatori, deviando ogni vissuto verso una scrittura che è già intrisa, filtrata di sentimento. Dove è più la verità, se vita e poesia sono così vicine? Se l’una contiene l’altra, e viceversa? Lo stile di De Angelis nasce da questa reciprocità, che lo tiene equidistante da tentazioni orfiche e manieristiche, cui spesso a torto è stato accostato, sia dagli sperimentalismi fini a se stessi. E nella sua pregnanza, nel suo non sottrarsi alla nudità della vita, che qui è rievocata attraverso le altre figure femminili già presenti in altre stagioni, Tema dell’addio è anche un libro del coraggio e qui sta la sua necessità.
L’ultimo libro di Milo De Angelis è apparso nel 2015, a cinque anni da Quell’andarsene nel buio dei cortili. Vi si agita uno spazio della memoria molto vasto, mentre l’esperienza si riduce sempre a un istante e a un luogo, che appartengono a Milano, onirica città madre e origine di ogni impulso vitale e creativo. La memoria di De Angelis è implosiva, con una mira assoluta tende a concentrarsi proprio all’incrocio delle coordinate dello spazio e del tempo, per fissare in poesia quella serie di piccoli, ma fondamentali big bang che hanno dato anima ai sussulti, ai terremoti, perfino agli «agguati» che la morte mette continuamente in atto e che ritroviamo già nel titolo, Incontri e agguati. La scenografia del racconto sembra essere composta di strade, architetture, scuole, campi di calcio, ma in realtà questo poeta smuove una ben più ampia fisica dell’esperienza, scava nel nucleo dei propri spazi e tempi, affronta con estremo rigore le pulsioni ancora vive e talvolta dolenti come in una vera e propria «guerra di trincea». Con questo titolo si apre la prima delle tre sezioni del libro, quella in cui la presenza antagonistica della morte è talmente pressante da mettere in scena non una tragedia con le sue inevitabili catarsi, ma una tensione incessante che dà invece vita e movimento al pensiero stesso, come all’esperienza indiretta di ciò che non è dato raccontare. E i limiti di questo raccontare la morte sono proprio, da un lato, la stasi, l’immobilità che ogni fine porta con sé, e il lavorìo continuo, l’«officina» della narrazione, come la chiama De Angelis: «Questa morte è un’officina / ci lavoro da anni e anni / conosco i pezzi buoni e quelli deboli, / i giorni propizi, la virtù / di applicarsi minuto per minuto e quella / di sostare, sostare e attendere / una soluzione nuova per il guasto. / Vieni, amico mio, ti faccio vedere, / ti racconto». È il primo testo del libro, e ne contiene in nuce il moto più intimo, l’altalena tra stasi e lavoro, tra morte e vita della parola, a cui la memoria costringe il soggetto. La parola si offre ancora come un estremo esorcismo nei confronti della finitudine, specie quando la vita per qualche ragione si interrompe e non riesce a completarsi come dovrebbe: le ombre che visitano il poeta, infatti, giungono come memoria felice di incontri che nell’atto stesso della rievocazione, ormai dalla parte della morte, sono avvertiti come agguati, come sobbalzi rispetto a un senso globale che non si riesce a ricomporre. 
La poesia non dà giudizio, è costretta a fermarsi e a registrare, a far emergere quel sostrato di ineffabilità che è il suo limite e anche il limite di ogni ricerca del senso. Un «buio primitivo», uno spazio oscuro della coscienza, un vuoto filogenetico inquina la pienezza dell’alba, con un «canto di puro gelo», con la freddezza che è della paura e anche del non poter conoscere. E se pure l’idea stessa della morte si è più volte incarnata in quella di una fanciulla sorridente e gentile, nel suo tepore apparente, dietro il suo sorriso siamo sempre stati invitati a formare «a poco a poco la parola niente»: tautologica e drammatica sovrapposizione del gramma all’effetto stesso della morte, rilievo di un alfabeto crudele che improvvisamente visita la mente del soggetto e vi s’imprime con tutta la sua inquietudine, lasciando per sempre l’amara ipoteca di un’interruzione, di un compimento mancato, di un’occasione importante e irrimediabilmente perduta. Lì, «nel fischio micidiale del minuto», in quell’istante assoluto e sospeso la morte si manifesta in tutta la freddezza del suo distacco, nell’indifferenza con cui colpisce e sottrae il poeta al colloquio amicale, agli affetti, ai pensieri di cui avrebbe potuto continuare a nutrirsi: «Vicino alla morte tutto è presente / non c’è infanzia né paradiso / tu cadi in un urlo segreto / e non parli». Questa lontananza coatta dall’infanzia e dal paradiso stabilisce anche una tragica cesura della memoria, che si annulla in un infinito presente senza senso, senza più tempo; così che guardando avanti si può soltanto percepire il senso della caduta, ovvero della perdita, dell’allontanamento da un’origine felice, e l’immagine stessa del poeta non può risultare che quella di «un povero fiore di fiume / che si è aggrappato alla poesia».
La seconda sezione, che dà il titolo al volume, è una sorta di Spoon River visionaria, dove le ombre dei morti si mescolano talvolta con quelle dei vivi, al punto che la morte finisce per presentarsi non più come una cesura biologica, ma come un espediente stesso della memoria. In quella cornice trascendente essa può parimenti collocare perdite avvenute e minacce eventuali, ponendo sullo stesso piano la rievocazione degli affetti e il monito di un «sentiero», di un «tragitto» ancora percorribili, «come una poesia / che rinasce precipitando nel suo bianco». È la visione a garantire questa imperturbabilità e ancora una volta la poesia si fa presenza necessaria e tautologica, la sola in grado di tentare una voce possibile per tutte le voci che ormai appartengono alla morte. Morte che permea di sé, nella specie del  delitto, la terza e ultima sezione, Alta sorveglianza. Qui l’omicidio passionale, il femminicidio si fa ancora una volta «minuto esteso», attimo dilatato in un eterno ritorno del tragico; poiché, se pure l’atto è stato compiuto e se ne scontano le conseguenze, la poesia lo ricarica di verso in verso, fino a farne, immancabilmente, «cieca evasione», «notte sterminata». È in questo estremo sostrato metaforico che De Angelis si conferma tra le voci più alte e autentiche a cavallo del millennio.

sabato 3 novembre 2018

AILANTO n. 55 - su Michele de Virgilio





La poesia è «una rossa signora / scorta per caso / nella fretta di un’ora» e viene a dirci cose ovvie. Le cose, cioè, da cui siamo talmente circondati, e a cui siamo talmente abituati, da non riuscire a scorgerle più, e a non dirne.  Il vero mistero della poesia è in questo, lo ripeteva da ultimo un lettore d’eccezione come Luciano Anceschi in un saggio importante e non facile, Gli specchi della poesia. Traggo questi versi dal libro di Michele de Virgilio, Tutte le luci accese, che con una prefazione di Paolo Di Paolo raccoglie le poesie scritte tra il 2011 e il 2017. De Virgilio è un poeta del Sud, lo ribadisce più volte: per quanto stereotipo, il suo territorio, ancora una volta causa di delusioni e desolazioni, di fughe e partenze coatte, si offre come una metafora potente, al di qua però di quanto è accaduto dall’altra parte del regno borbonico, ovvero oltre il faro di Messina, dove la metaforicità, come ci insegna una lunga e felice tradizione, è davvero spinta al massimo. De Virgilio invece si trattiene all’interno di un territorio tutto personale, compreso tra gli affetti familiari, gli amori, le esperienze di lavoro (è tecnico della riabilitazione psichiatrica e dunque frequenta e conosce a fondo i percorsi della mente) e i viaggi. In questo quadrato perfetto, dove nessun lato sembra predominare sull’altro, si sostanzia la sua scrittura, prende corpo (è proprio il caso) la sua poesia, nella forma di quella «rossa signora». Allegoria o allucinazione? Non importa, il risultato non cambia: la fisicità è una componente essenziale in questo libro, dove il corpo è paesaggio esattamente come il paesaggio si fa corpo. Il Sud «è una sala da parto immensa».
Si disegna, come giustamente suggerisce il prefatore, una sorta di mappa geografica, composta di luoghi e città, di acque che percorrono inesorabilmente gli ambienti carsici di una mente fertile, disposta ogni volta ad assorbire l’osservato, a reinventarlo e dunque a farlo esistere. Per questo la memoria ha un ruolo primario in questa scrittura: ne è l’autentico motore, ma non nel senso proustiano, conservativo, di recupero di un «tempo perduto», quanto di un costante riplasmare il paesaggio. La poesia, ricordava Paz, non è l’esperienza, ma la metafora di un’esperienza. E ogni metafora è un ricordo. È questo, direi, il vero tratto “meridionale” di de Virgilio, ciò che lo accomuna, per esempio, alle scritture di un Gatto o di un Bodini. Dunque anche le allegorie o le allucinazioni fanno parte di questo percorso: la «vita», termine chiave per questo poeta, si fa «limpida» quando la bellezza esclude il mondo, ovvero quando comincia il lavoro della scrittura. Quando la poesia agisce, quando l’autore preme «il pulsante dello scrivere» per illuminare «i sottoscala del cuore».
Tutte le luci accese potrebbe allora tradursi con “tutti i motori della poesia accesi”, come con la visione di un paesaggio composito e felice. Certo, c’è anche lo «scontento» che si registra nell’ultima sezione, ma sappiamo che fa parte del gioco. Sostanzialmente de Virgilio è un poeta felice. E consapevole: «Io viaggio per non diventare cieco», recita l’epigrafe iniziale da Josef Koudelka. E allora questa fisiologia della visione, che sa farsi insieme introspezione e invenzione, ci riporta, con tutta la freschezza di questi versi, al moto originario della poesia, al suo guardare il mondo con uno sguardo ancora fanciullesco, mentre ci si interroga se il futuro sarà «un tuono / o un faro spento».
Michele de Virgilio, Tutte le luci accese, pref. di Paolo Di Paolo, Ladolfi 2018, e. 10.

Ultima preghiera
                                       ad A.M.
Tu che mi guardi,
che mi raccomandi di non fare tardi,
provocami la fede, cospargi
di baci nobili i miei giorni di luce
elettrica,  dimmi chi sono,
da dove vengo.
Se il mio futuro è un tuono
o un faro spento.

giovedì 1 novembre 2018

AILANTO n. 54 - su Anthony Hecht




Per le cure di Moira Egan e Damiano Abeni, con un’introduzione del suo maggior esegeta, Joseph Harrison, l’editore Donzelli pubblica una corposa antologia di uno dei più importanti poeti statunitensi del secolo scorso, Anthony Hecht.  Nato a New York nel 1923, scomparso a Washington nel 2004, Hecht è stato certamente tra i testimoni più attendibili dei rapporti storici all’interno delle culture occidentali, essendo vissuto, tra l’altro, in Italia grazie a un lontano Prix de Rome. Ciò nonostante, il suo nome non è certo tra i più riconosciuti, nel nostro panorama editoriale  della poesia angloamericana, forse dominato da un’eccessiva attenzione per le origini (Whitman e Dickinson), per i modernisti (Pound, Williams, Stevens, Marianne Moore), gli autori Beat. Sporadiche, in passato, le apparizioni di poeti ormai classici come Berryman o Cummings, e di altri come Creeley, Olson, Crowe Ransom, Penn Warren, Ashbery. Perfino di Lowell. Le più recenti e autorevoli antologie risalgono già a più di un decennio e ancora molti nomi importanti, affermatisi nell’ultimo scorcio del Novecento, mancano all’appello, soprattutto tra le donne, ancora confinate alla triade Plath-Sexton-Bishop: meritoria, quindi, l’attenzione che la collana di poesia di Donzelli riserva ai poeti d’oltre Atlantico, a partire da Mark Strand fino a Philip Schultz.
Non so se una certa resistenza sia dovuta alla nostra maggiore affiliazione, nella prima metà del secolo breve, alla poesia soprattutto francese e spagnola, che tanto accese gli entusiasmi degli ermetici; mentre quella di lingua inglese restava più in disparte. La costruzione come architettura del testo e una certa dose di fantasioso intellettualismo nella realizzazione delle immagini ci hanno reso a lungo più figli di Valéry e di Lorca che di Frost. Così la tradizione narrativa e fluente della ballata americana ha dovuto attendere proprio la sua decostruzione in ambito beat per potersi paradossalmente far riconoscere e apprezzare, pur isolandosi a una certa distanza dalle soluzioni cercate dai nostri poeti; non a caso anche nell’ambito dei traduttori, tra i quali mi piace ricordare la felice eccezione di Roberto Sanesi.
Le ore dure è il titolo di quella che con ogni probabilità resta l’opera maggiore di Hecht, e che i curatori hanno scelto per questo florilegio italiano. Non era impresa da poco quella di rappresentare la complessità di un autore come Hecht nello spazio di un unico volume, ma lo sforzo degli editori è stato ampiamente ripagato. L’immagine che ne viene è quella di un poeta che padroneggia al massimo livello le strutture sintattiche della sua lingua, riplasmandole a suo piacimento; di un vero virtuoso della metrica (ciò che rende ancora più arduo il compito del traduttore), che esercita sapientemente il proprio orecchio così come tende il proprio sguardo alle altre modalità della rappresentazione, come la pittura. Questa capacità di sondare a tutto campo le potenzialità della lingua fa di Hecht un abilissimo inventore di metafore, di analogie, di suggestioni per cui il mondo empirico si mostra come un unico, potente serbatoio di immagini. Perfettamente consapevole della responsabilità dell’espressione, di ogni espressione, Hecht atteggia la sua scrittura secondo il rigore che gli viene dalla vita, anzitutto, come dalla frequentazione di autori profondamente ispirati da un proprio codice morale, come Tate o, più lontano, George Herbert. In questo modo ci viene mostrata, con lucido aplomb, la fenomenologia del dolore, portata sul piano di un’epifania in negativo, che nulla può rivelare oltre se stessa; ovvero oltre le immagini che la memoria sa recuperare, senza aggiungere un grammo di senso che non sia già nel cuore stesso dell’immagine, nel suo farsi portare allo scoperto, in una mis à nu spesso straziante.
Anthony Hecht, Le ore dure, a cura di M. Egan, D. Abeni, introduzione di J. Harrison, Donzelli 2018, e. 17.

Da L’uva
E tutte quelle piccole borse di vitrea trasparenza,
quei grappoli di pianeti, porgevano la guancia orientale
alla luce del sole, ciascuna con un morbido
gonfiore meridiano dove la luce più sottile
misteriosamente scemava nell’ombra,
ai freschi recessi, ai tranquilli e tristi azzurri
che facevano da cuscino al Beau Rivage.
E mentre guardavo riuscivo quasi a vedere la luce
spostarsi lentissima su quelle semplici superfici,
e a sentire il sole che si muoveva sulla mia pelle
come un ghiacciaio caldo. E mi è sembrato di capire
nel mio sangue il significato del tempo siderale
e ho capito che la mia piccola vita era giunta all’apice.

mercoledì 3 ottobre 2018

Stefano Modeo, La terra del rimorso

Appena apparso da italic/peQuod, con la mia prefazione che posto.






Sempre più, nell’osservare quanto ci accade intorno, ci rendiamo conto di quanto la poesia abbia rappresentato, e continui a rappresentare, un esercizio di libertà. Felicemente estranea alle leggi di mercato, alle imposizioni della tecnologia, e ingenuamente – nel pregiudizio dei più – svincolata dalla realtà materiale, la poesia vive e si fa, com’è nel suo etimo, nell’assoluto della libertà. Per questo, anzitutto, non sopporta etichette o aggettivi di complemento, sia che riguardino le modalità stesse della scrittura sia i suoi referenti. Non importa che il suo sguardo abbracci orizzonti vastissimi o ripieghi nell’interiorità, nell’io e nei suoi immediati dintorni: ogni ipotesi di lavoro è legittima, e legittimata dall’invito costante a riappropriarsi di quei significati che la tarda modernità, o la post-modernità, cerca di ottundere nell’inseguimento del nuovo e dell’effimero. Viviamo in una pseudo-civiltà del transeunte, che si riflette in linguaggi plasticamente docili e ammaestrabili, comunque finalizzati a uno scopo retorico: la pratica del convincimento e dell’indispensabilità.
La lingua dei poeti, invece, ambisce a fermarsi nel tempo, proprio mentre lo trascende: è classicamente inattuale, anche quando si spinge nei territori del gioco, della sperimentazione, della fondazione di linguaggi altri. Lo è anche quella di Stefano Modeo e di questo libro, La terra del rimorso, che prende il titolo da una splendida intuizione di Ernesto De Martino riportata in epigrafe, come un vero e proprio viatico. Modeo è un giovane autore pugliese, e quella terra così prepotentemente ravvicinata, in anni recenti, dai flussi turistici, dal cinema e dalla pubblicità, resta invece misteriosamente remota nelle sue identità, nei suoi miti e riti, se torniamo a rileggerla attraverso le pagine dell’etnologo. Come se gli anni non fossero trascorsi, come se progressi e commerci più o meno levantini non l’avessero turbata più di tanto nella sua sostanza profonda. Eppure il «rimorso» a cui Modeo, attraverso De Martino, allude, non è soltanto il sentimento che segue a una «scelta mal fatta», ma è anche e soprattutto ri-morso, ovvero il dolore acuto che viene da una compravendita d’identità. Cerchiamo di capire in che senso. 
Modeo non scrive dai territori di un Salento fantastico e idealizzato, ipnotizzato dai ritmi della taranta, ma dalla città che nel suo stesso nome porta le radici di quella storia arcana, pur avendo vissuto, sul proprio tessuto dilaniato, le ferite inferte da un’industrializzazione senza scrupolo e senza controllo. Il luogo da cui ci parla è Taranto, e nelle sue case il ri-morso lambisce ogni parete. Catapultata in un presente dominato da ben altre norme che quelle dei miti lontani, Taranto si è trovata a voltare le spalle, in un brevissimo arco di tempo, a quel passato indefinito con cui non ha potuto fare i conti fino in fondo. Così quel passato riaffiora, nello stridore delle macchine e dei nuovi costumi, travestito da «nevrosi», scontrandosi con temi inediti e annodando problemi, sui quali ancora siamo chiamati a discutere e a prendere parte. In questa prospettiva anche i fumi delle acciaierie sembrano la superficie della questione, l’effetto di una causa ben più radicale e importante. Dunque Modeo, con queste poesie così distanti dalla colloquialità malinconica, dalla tenerezza spossata e inquieta di tanto minimalismo fin-de-siècle, imposta un’anti-epica, dirotta i languori di una visione ancora elegiaca o lirica, come poteva essere nella sua tradizione (quella, per intenderci, di Bodini o di Carrieri), verso esiti più rigorosi e serrati. Il suo occhio è attento e severo, e con tale attenzione e severità allestisce le sue disarmanti allegorie, riesuma e rivitalizza una «lingua morta» per farne, ancora una volta, lo spazio di una significazione comune, condivisibile. Lo spazio del «noi»: «cominciamo a parlare al futuro / non sappiamo bene cosa dirgli / ma siamo tanti tutti insieme». 
Un’allegoria è una metafora che si fa racconto. Un travestimento che vuole parlare più apertamente e profondamente di una dissimulazione, di un mostrarsi a nudo. Nel suo spostarsi anche in altre terre – e da lì tornare a osservare la propria – Modeo adotta spesso immagini della navigazione. Non è certo il primo a farlo, e il pensiero torna subito a Dante, a un’Italia allora, come oggi, inesistente, ridotta a una nave senza nocchiero, presa nelle tempeste della Storia. Ricordava un autore come Auden che ogni qualvolta in poesia tornano ad agitarsi gli «irati flutti», vuol dire che la società, non solo il singolo, è scossa da pesanti perturbazioni. Il mare è la scenografia prediletta dalle allegorie sociali, dai grandi quadri; come quello che di testo in testo il giovane poeta della Terra del rimorsoha cercato di mettere insieme, mostrando una padronanza espressiva che lo colloca su ben altro piano di maturità da quello della sua anagrafe. Così la «terra del rimorso» si attesta anche come la terra del disagio, del rifiuto, dell’inadempienza; il disagio che mette a confronto, in una guerra tristissima, i poveri coi poveri; il rifiuto di una tradizione non ancora portata a compimento ma cristallizzata in una vetrina ludica altrettanto triste; l’inadempienza verso quanto si sarebbe potuto fare e ancora è ben lungi dall’essere fatto. Non è solo la Sicilia, come voleva Sciascia, una grande metafora, lo è l’intero Meridione. E, a guardar bene, spostandoci verso altri confini (ciò che i poeti invitano sempre a fare) lo è diventata l’Italia tutta. «Serva Italia», scriveva Dante, consegnandoci una poesia, e una letteratura, che ci aiuta a non essere servi. È in questa dimensione di affrancamento dalla pesantezza del presente che mi piace pensare a Stefano Modeo.

lunedì 10 settembre 2018

Un'intervista sul Meridiano Penna

Posto un'intervista rilasciata a Saverio Bafaro e appena uscita sull'ultimo numero della bella rivista «Capoverso». Grazie ai redattori per l'ospitalità!




Intervista a Roberto Deidier
in occasione dell'uscita del Meridiano Mondadori dedicato a Sandro Penna

di
Saverio Bafaro


S.B. Carissimo Roberto, iniziamo dalle tue impressioni su come è stato accolto fino ad ora il libro monografico su Sandro Penna edito da Mondadori...

Direi che c’era molta attesa, è stato molto recensito e siamo già alla terza ristampa. Qualche anno fa un sondaggio del «Sole-24 Ore» rivelava che il Meridiano Penna era il più desiderato dai lettori. Tra l’altro, nel passaggio da Garzanti a Mondadori si è creato un vuoto nelle librerie, che in parte il Meridiano ha colmato. Ora si dovrà pensare a edizioni tascabili.

S.B. Come è avvenuto il tuo primo incontro con la poesia di Sandro Penna? 

Negli anni universitari. Penna non era certo tra le letture per la scuola. Mi imbattei in lui nell’antologia di Mengaldo, quindi andai a procurarmi un tascabile di Tutte le poesie. Lo trovai in un reminder di Lucca, figurarsi. Era la primavera del 1988.


S.B. Come ha preso poi corpo la tua intenzione di studiarlo sistematicamente?

Collaborando con Elio Pecora all’allestimento della prima mostra dell’archivio del poeta a Perugia, nel settembre del 1990. Non ero ancora laureato, per me fu un privilegio potermi accostare direttamente all’officina di un poeta così grande. Le carte suscitarono tutto il mio interesse e la voglia di occuparmi di lui.


S.B. So che hai adoperato una scelta forte nella sistematizzazione e presentazione delle poesie nel Meridiano Mondadori. Ce ne vuoi parlare?

Per molto tempo alcuni lettori forti di Penna hanno avanzato dei dubbi sulla datazione delle poesie. Allestendo le edizioni critiche del primo e dell’ultimo libro mi sono accorto, negli anni, che in effetti c’erano diverse cose che non tornavano, ma che non potevano essere addebitate a Penna. In realtà dalle mie ricerche è emerso che Penna non è stato direttamente autore dei suoi libri, non li ha ordinati e strutturati lui, ma diversi amici hanno assolto la funzione di editor, da Solmi a Bazlen, da Pasolini a Garboli, a volte con qualche inevitabile sovrapposizione. Con il Meridiano ho cercato di fotografare l’archivio di Penna, di restituire una fisionomia e un’identità più penniane.


S.B. Nella presentazione del libro a Perugia sono stato molto colpito dalla poca “decisionalità” che agiva Penna in termini di selezione dei testi delle raccolte o conferimento di titoli alle stesse. Come lo spiegheresti?

Non poteva essere interessato al libro in quanto opera compiuta e strutturata. Non era nella natura né dell’uomo né della sua poesia, affidata al ricordo di un istante epifanico. Solo nel 1973, su invito di Garzanti, Penna ha allestito una personale antologia, concedendosi qualche libertà rispetto ai libri precedenti. È quanto ho messo a testo, almeno per la prima parte.


S.B. Di recente mi è capitato di leggere alcune lettere private del Montale che rivelano una sua certa “rivalità” con Penna, su cosa credi fosse basata? 

In Montale agisce, novecentescamente, un’ontologia in negativo. Penna parla, al contrario, in positivo, esibisce la propria felicità, senza mai nascondere a quale prezzo ha potuto conquistarla. C’era dunque, dietro un primo interesse di Montale, una diversa visione della vita: libera e spregiudicata in Penna, mentre Montale ha sempre asserito di vivere al 5 %. Le divergenze erano destinate a crescere, al punto che Montale è salito, alla morte di Penna, sulle barricate, dichiarandolo un «Kavafis in sedicesimo». Era il peggior torto che gli si potesse fare. Penna non amava Kavafis.

S.B. Dallo studio dei carteggi privati propri di Penna quale ritieni sia l'aspetto di maggiore curiosità della sua vita? E quello umanamente più degno di nota?

Più che i carteggi, direi che nel Meridiano parlano i diari. Ci ritroviamo le sue letture e i suoi giudizi, spesso fulminanti nella loro caustica esattezza, ma anche colmi delle sue idiosincrasie. L’aspetto più evidente, dietro la straordinaria intelligenza del mondo, è la capacità di autoanalisi, asciutta e impietosa, per nulla compiaciuta o commiserevole. Questo lo ha portato alla rinuncia all’amore, inteso come relazione duratura, per potersi conservare libero nella poesia. In questo senso Penna è il maggior esteta del Novecento.


S.B. Pregevoli sono anche i racconti di Penna. Quale su tutti hai amato di più e a cosa ti rimanda nei tuoi ricordi?

Li ho amati tutti ma in particolare il primo di Un po’ di febbre, quello che si intitolaQuintilio. Si trattava di un suo cuginetto un po’ selvatico, in cui lui si proiettava. Quintilio ha rappresentato per lui ciò che non poteva più essere: la naturalezza e l’innocenza della gioventù senza pensieri. Nei miei ricordi, però, si affollano le immagini della Roma notturna di tanti altri racconti, le sue passeggiate fino all’alba. Lì ritrovo la mia città, come l’ho scoperta da ragazzo.


S.B. Qual è il tratto di “modernità” della poetica penniana? E, se c'è, a quale altro autore/autrice si può assimilare?

Penna chiude una modernità che non canta, ma contro-canta se stessa, nel senso che guarda a una forma simbolica ben differente da quelle celebrate dai vari movimenti e avanguardie: il fanciullo, che ha una radice mitica. Da Leopardi a Keats, da Baudelaire a Mallarmé, fino a Pascoli e Saba e oltre, Penna attraverso il fanciullo ci parla di una «vita anteriore». La sua rivelazione è una felicità che può tradursi solo in poesia. Dopo di lui è come se il testimone fosse passato alla narrativa: i personaggi più vicini al fanciullo penniano sono le creature misteriose dei libri di Anna Maria Ortese, dei fanciulli-animali. Ma qualcosa di selvatico è anche nei personaggi giovani di Elsa Morante. Entrambe, non a caso, amavano molto la poesia di Penna.


S. B. Quale poesia di Penna hai più a cuore e se c'è un motivo particolare 

Penna è un poeta pericoloso per chi a sua volta scrive, perché penetra nell’orecchio con la sua straordinaria musica e non ci abbandona più. Ci costringe a memorizzarlo. Tutti i suoi versi mi scorrono di continuo nella mente, ma se c’è una poesia che amo in particolare, al di là di quelle più conosciute, è questa: «Era fermo per me. Ma senza stile /
forse baciai quelle sue labbra rosse. / Improvviso e leggero egli si mosse / come si muove il vento entro l’aprile».



S. B. Qual è per te, invece, il verso più bello della sua produzione lirica? E perché?

È il finale della poesia intitolata Interno:  «Uscì dalle sue braccia /annuvolate, esitando, un gattino». Quelle «braccia annuvolate» sono la metafora più bella del Novecento.

martedì 7 agosto 2018

Angoli interni

È uscito il nuovo libro di Roberto Maggiani, Angoli interni, per la collana di Passigli. Posto qui la prefazione che l'autore mi ha chiesto. Prosit!





Cosa sono gli «angoli interni» che intitolano il nuovo lavoro in versi di Roberto Maggiani? Pieghe improvvise del pensiero, capriole visive e concettuali, immagini che provengono dagli ambiti remoti delle più antiche cosmogonie e historiaenaturales, fino a ricondurci al nostro instabile, incauto presente, in un cortocircuito di tenerezza e di ironia: «il delirio della modernità / ha i tuoi geni». Viene da pensare alla Metafisica tascabiledi Valentino Zeichen, al suo ridurre a un’ipotesi essenziale e demistificante i massimi sistemi. Sfogliando queste poesie trovo conferma della sua presenza nella dedica di un testo come La mela. Abbiamo conosciuto finora un poeta di sintesi fulminee, di idee tradotte in poche, icastiche rappresentazioni; entrando nel pieno della sua maturità, Maggiani ci pone di fronte a nuove e più ampie misure, non tanto nella struttura del singolo componimento, quanto nell’orchestrazione complessiva di questo libro. Qui si assiste a una lunga rincorsa, prima di compiere il salto definitivo. 
L’autore ci invita a sondare e a ripercorrere, insieme a lui, una strada che si perde a ritroso oltre l’origine della specie, e che dall’altro versante giunge fino a noi. È un viaggio lungo e difficile, che si snoda attraverso ben quattordici tappe - le sezioni in cui si raccolgono queste poesie - ma senza rispettare la nostra abituale concezione di un tempo lineare. Ogni testo affonda con i suoi interrogativi nell’insondabile territorio di un “prima” cosmico e geologico e con un potente balzo in avanti si chiude sull’oggi, dove ancora sussistono le stesse tensioni, gli stessi desideri, ultime proiezioni di una necessità arcaica. È curioso: mentre ci avverte che i nostri sentimenti primari, come le nostre funzioni, hanno un’implicita storicità, che affonda addirittura nelle ere geologiche, nella lunga durata di una preistoria ineffabile, Maggiani lascia che il tempo imploda su sé stesso, «in una piccola scatola» (L’Esistenza), proprio quando una nuova vita va formandosi («mentre la vita cresce nel tuo seno»). 
Esiste, insomma, un sedimento, una traccia possibile (forse imprigionata nelle stromatoliti) di questo lunghissimo percorso evolutivo, ma quando si tratta di portarla allo scoperto è l’oggi a imporsi vorticosamente, a riportarci ex abruptoalla nostra condizione attuale. Più che legittimo chiedersi, in questa prospettiva, «Che cosa facevo / prima di essere vivificato?», sfiorando pericolosamente quella terra di nessuno dove l’ontogenesi incontra la filogenesi, la ripete, la mima, potremmo dire infine con l’artificio stesso della poesia. Perché la vita, per Maggiani, è anzitutto un serbatoio di metafore, un immenso contenitore sempre pieno delle sue curiosità di scienziato e viaggiatore. Riconoscerla come una metamorfosi incessante, come un’infinita trasposizione molecolare, un succedersi inesausto e inesauribile di combinazioni, è per lui qualcosa di automatico, forse di tautologico. Ma tant’è: nulla appare poi così scontato e anche l’ovvio diventa una categoria antropologica da sondare, da attraversare in cerca di nuove scoperte, ma anche di conferme. 
Il problema di fondo è la vita, i modi del suo affermarsi all’interno di ogni relazione possibile. Dunque l’amore, movimento necessario che platonicamente spinge le realtà a fondersi, e così gli uomini, nel superamento del loro egoismo. Un’eco da Agostino, piuttosto che da Schopenhauer, per il quale l’amore è una mera questione di Natura, una semplice pulsione erotica. Ma Eros qui si tramuta presto, da una pagina all’altra, in funzione creatrice, e lo fa attraverso il solo strumento che la Storia – e la Poesia – possono mettergli a disposizione: il linguaggio. La Parola s’incarna, come il Logosgiovanneo, che riprende e rielabora in chiave cristiana il mito adamitico della nominazione del mondo. È solo allora che la realtà comincia a esistere, come riflesso, proiezione, creazione dell’homo sapiens attraverso la lingua.
Maggiani sa bene, da cultore delle scienze esatte, che si tratta di un mito, ma da lettore sa che ogni mito contiene una cellula di verità; da poeta ci insegna che il mito è la sostanza di cui ancora oggi s’impregna ogni nostra costruzione del mondo. Di un mondo che ancora vorrebbe sorprenderci. Con questi nuovi versi si ricompone idealmente un’antica scissione, quella tra Scienza e Poesia, due metà di una sola mela (ancora un residuo di mito platonico) e di fronte alla variabile (all’incognita?) Dio, l’homo sapiens non può che riaffermare la propria libertà creativa, il pieno arbitrio poietico, rivelandosi in definitiva come il vero faber, come il demiurgo di sé stesso. Come il regista dei propri stimoli.
Verso dove, verso chi dirige ancora una volta Eros, nel «gelo cosmico», la materia stellare di cui siamo composti? Maggiani ha il dono – e vuole condividerlo coi suoi lettori – di avvicinare l’infinito degli spazi celesti e delle ere geologiche al finito apparente dei nostri istanti: consapevole, però, che in essi, dietro di essi, si apre una voragine proustiana di durate altrettanto infinite. Sono questi gli «angoli interni» che ci invita a circoscrivere, col passo felice di chi, ogni volta, si perde e si ritrova.







domenica 5 agosto 2018

La poesia è morta? Viva la poesia

Ogni espressione estetica ha bisogno di un lungo sedimentarsi. C’è un sedimento interno, ovvero la ricerca di una forma, di un’immagine che si traduca in lingua, e un sedimento esterno, ovvero l’attesa che quella lingua sia condivisa, sentita, assimilata. Lavorare sul presente è come vivere in trincea: si rischia di non vedere, di non essere visti, ci si arrocca nelle proprie verità presunte; si è colpiti dal proiettile dell’avversario prima di averlo individuato, si è uccisi da un fuoco amico. Il presente è davvero una trincea infida per ogni lettore. Specie quando il lettore in questione vuole emettere giudizi. 
Non mi sono mai sentito un sacerdote o un ministro di qualche culto letterario: sono piuttosto figlio di una tradizione di dubbi e scetticismi, ed è un patrimonio che non mi sento di dover rinnegare. Lo scetticismo, inteso come l’arte del distacco, è una bussola irrinunciabile, per me. Quindi non erigo altari, e tanto meno elevo incensi agli altari costruiti dagli altri. Non ho mai avuto un culto, per esempio, per Renato Serra. E credo che il suo Esame di coscienza di un letterato, pur nelle terribili circostanze in cui fu scritto, sia un libro che riecheggia tutti i possibili tormenti di una generazione, senza venirne a capo. Con ogni probabilità, non si poteva o non si doveva venirne a capo. Ma il suo «saper leggere» ha tratti ambigui; il suo guardare al presente come se fosse scevro di autentica poesia, mentre tutta la grande poesia del Novecento si affacciava proprio in quegli anni, ci rivela che l’Esame, in realtà, nella realtà distante da cui possiamo osservare oggi quel testo e tutta la letteratura che gli fermentava intorno, fu un libro cieco.
Non si trattò solo di questo, ma della nascita di un vero e proprio culto, e di un vero alone di autorità legato alla vicenda del personaggio. Talmente autorevole che ancora oggi lo si cita come modello per impropri confronti tra i primi anni di questo millennio e i primi dell’ultimo secolo; talmente autorevole che ancora oggi si leva la voce, altrettanto impropria, di qualche renatoserra fuori tempo massimo, che vestendo i panni di Catone, e presumendo che il suo «saper leggere» sia un sapere superiore a tutti gli altri, viene prima a insufflarci il sospetto, o addirittura la certezza, che la poesia italiana sia morta e sepolta, quindi che anche la critica di poesia sia stata indotta – per contiguità fisiologica, per assenza di materia su cui operare, per consunzione di strumenti – a seguire la stessa triste strada.
Gli argomenti di questi censori, che al povero, ignaro Serra, sovrappongono altre autorità, come quella di Adorno, o direttamente la propria, senza alcun pudore di essere smentiti, sono invero generici. Si cita un possibile, quanto discutibile panorama, come se si provasse a fotografare un paesaggio assente. Mai o quasi mai si fanno i nomi dei responsabili di questa ineffabile débacledella poesia e dei critici conniventi.  Oppure, come dal cilindro del prestigiatore, si fanno apparire gli illustri sconosciuti, si accende un riflettore su di loro per spegnerlo subito dopo: non si sa mai, potrebbero diventare dei poeti con la maiuscola. Si richiamano quindi ricette inverosimili, come se i linguaggi dell’arte fossero privi di un loro sviluppo nel tempo, si elencano gli ingredienti mancanti o quelli da resuscitare: qui ci vuole una certa forma, l’artigianato del verso, perfino la rima. Si riecheggiano le scritture dell’impegno. La poetica, o ancor peggio la teoria, vuole la sua supremazia sull’operato dei poeti, sul farsi intrinseco e naturale delle loro officine. E con quale impeto, con quale gusto della dissacrazione generale, bruciando il grano insieme alle erbacce, queste voci gridano perfino con un certo compiacimento la loro estetica funebre… Perché è proprio il lato funerario a garantire loro l’esercizio di un’autorità, ridotta ahinoi (ahiloro?) all’ultimo residuo. 
Preferisco la vergogna di scrivere poesie a quella di non scriverne, sosteneva Wislawa Szymborska. Preferisco una confusa vitalità (ma quale vitalità non è di necessità confusa?), testimoniata da fermenti e da ben altre attenzioni, più disinteressate nel senso più nobile, alle partigianerie da trincea. Lascio ad altri le guerre, questi triti scenari da polemica estiva, da rotocalco da riempire, e torno al mio lavoro.

giovedì 5 luglio 2018

AILANTO n. 53 - su Maria Clelia Cardona



Il nuovo libro di Maria Clelia Cardona s’intitola I giorni della merla. Lo pubblica Moretti & Vitali, nella collana a cura di Paolo Lagazzi, Stefano Lecchini, Giancarlo Pontiggia. Proprio quest’ultimo, nel risvolto, scrive che la raccolta «coglie il lettore sulla soglia, ambigua e incerta, in cui l’inverno sembra toccare il culmine del gelo e della desolazione, e insieme annunciare l’avvento di una nuova primavera». Quelli della merla, nella tradizione popolare, sono i giorni del freddo più intenso, ma anche del giro di boa verso la nuova stagione. Sono uno spazio anfibio, una terra di nessuno; sono un perfetto correlativo oggettivo (Montale si affaccia più di una volta da questi versi, in certi avvii, in alcuni fraseggi) di quello stato di sospensione, se si vuole di epoché (ancora Montale) in cui le cose sembrano manifestarsi in una loro improvvisa e imprevista autenticità e i significati a lungo inseguiti finalmente si decantano.
Ha ragione quel lettore acuto che è Pontiggia, queste nuove poesie sono scritte come sulla soglia di un limbo e l’immagine del titolo ben rappresenta la tensione, la spinta che le tiene tutte insieme in una loro speciale compattezza. «Incerti così sono i confini / fra noi e gli astri», scrive l’autrice a proposito del tempo, quello ordinario, quello delle nostre liturgie quotidiane, fatto di «abbagli», segnato dall’inganno. Cardona ha scelto una precisa prospettiva da cui osservare e da cui esprimersi, consapevole della propria dislocazione di fronte a una realtà cangiante (ci sono riferimenti al mondo virtuale della rete, alle sue strane dinamiche sociali) e altrettanto dislocata. La poesia che riflette su se stessa, come nei versi dedicati ai poeti (memorabili quelli per Dante e per Pasolini), assorbe su di sé e fa propria quell’arte dello stare altrove, quel cercare incessantemente il punto in cui la realtà trova nel verso il suo calibro musicale, la restituzione di un ritmo che cela in sé un senso possibile: «I passi allora / ti portarono altrove», è detto a proposito di Dante. Quanto a Pasolini, ci si chiede come avrebbe reagito, oggi, davanti ai «moderni Accattoni», come se, a ben vedere, ci fosse tra il passato e il presente un’indubbia continuità, un’intima staffetta di dolenti invarianti, ma anche di punti di fuga, di veloci felicità.
C’è sempre, nella scrittura di Maria Clelia Cardona, quel filo di malinconica sapienza, di distillata saggezza che la frequentazione dei classici concede a chi impara l’arte del distacco. Non a caso il primo libro era intitolato Il vino del congedo. I «poeti elefanti» hanno il passo pesante di Saturno, si misurano con l’imperfezione e la finitudine, come osserva Marco Vitale nella densa postfazione. Non sorprende quindi che il libro si apra con un epicedio, con un ricordo della figura materna colta nella sua ultima vecchiaia e quindi nel momento del saluto estremo; e ancora non sorprende come, in perfetta simmetria, verso la fine del libro ci venga incontro un’altra figura femminile, amicale, in cui possiamo riconoscere la poetessa e americanista Angela Giannitrapani. Potrebbero essere icone protettive e invece, nel loro interno dibattersi, incarnano nella loro stessa esistenza quel luogo ambiguo, «grigio», in cui il canto della merla denuncia il massimo rigore invernale, e intanto annuncia la certezza di un’altra primavera.
Maria Clelia Cardona, I giorni della merla, postfazione di Marco Vitale, Moretti & Vitali 2018, e. 13.00.

Dopo i giorni del canto la merla scompare
come a nascondere il grigio, lo stranito amore
del buio nell’età dei colori –
altri amanti inglorieranno primavera,
dietro le quinte c’è attesa
che la festa cominci.

martedì 22 maggio 2018

Al festival «Sicilia dunque penso»

Ci vediamo il 2 giugno al festival «Sicilia dunque penso» a Caltanissetta, edizione dedicata ai sogni.
Alle ore 21 leggerò poesie da Solstizio, legate al tema di quest'anno e alla Sicilia.





venerdì 27 aprile 2018

Il viaggiatore insonne

Esce per le edizioni Empirìa Il viaggiatore insonne, il primo di una serie di «Quaderni internazionali di studi su Sandro Penna», a cura mia e di Raffaele Manica.
Qui sotto la copertina con l'indice: ci troverete un mio contributo sul Meridiano Mondadori apparso lo scorso anno e un saggio di Dario Russo; l'Autobiografia al magnetofono interamente ristampata, da lungo tempo introvabile; un divertissement di Elio Pecora e una conversazione di Paolo Di Paolo con Antonio Debenedetti. Jacob Blakesley ed Edgardo Dobry traducono alcune poesie di Penna in inglese e in spagnolo; Francesca Ippoliti chiude il quaderno con una rassegna degli studi recenti.
La copertina, che richiama la locandina di un film in stile anni Trenta, è di Rocco Micale.
Buona lettura!



sabato 21 aprile 2018

AILANTO n. 52 - su Marco Vitale





Ci sono versi che ritornano spesso alla mente e che non sappiamo più ricollocare nei libri che ci hanno accompagnato. Così mi è accaduto per una poesia di Marco Vitale, che non sapevo più ricondurre al suo legittimo autore. Quei versi dicevano: «Sentivo come mie di chi tornava / là in fondo lungo il ponte / sui binari / domeniche d’autunno già consunte / già rapite agli abbracci». Il titolo non lo ricordavo. L’ho ritrovato aprendo il bel volume che raccoglie tutto il lavoro poetico di Vitale, Gli anni, appena apparso da Nino Aragno con un partecipe saggio introduttivo di un lettore raffinato come Giancarlo Pontiggia.
Lambrate, così si intitolano quei versi. Non potevo sapere, quando li lessi per la prima volta in quello scarno libretto,Monte Cavo, pubblicato in una collana a cura di Dario Bellezza, che anche Sandro Penna, nelle lunghe passeggiate durante i suoi soggiorni milanesi, si era recato fino a quel ponte sulla ferrovia. Aveva lasciato diversi segnali e toponimi, il poeta in cerca di lavoro e senza alcuna voglia di lavoro che non fosse la scrittura; eppure a Lambrate non avevo pensato. Strane analogie della mente? Mi piace partire così, da un luogo e da un titolo rimossi, da un autore a lungo studiato, per tornare ad affacciarmi sulle poesie di questo libro corposo, a dispetto della parsimonia e della discrezione con cui Vitale si è presentato ai lettori.
Era il 1993, quando uscì Monte Cavo, che Pontiggia, nel suo scritto, definisce «sfortunato», per il poco seguito che ebbe e per la volontà di occultamento del suo stesso autore; con la raccolta complessiva Vitale festeggia dunque i suoi venticinque anni di presenza, importante quanto pudica, nelle vicende della poesia italiana a cavallo del millennio. La sua voce, rara e preziosa, ha saputo scandire i momenti di una lunga, inesausta Bildung che poggia su un vasto sapere letterario, fatto anzitutto di una disinteressata, fertile curiosità di umanista. Attraverso questa lente, che è prima di ogni cosa quella della poesia, Vitale ferma gli istanti di un’esistenza globale, in cui sentimenti, incontri, affetti e paesaggi attraversati si offrono in tutta la loro sconcertante nudità, generando, come nel poeta perugino, una gioia quieta, che non sa urlare se stessa, ma che pure è lo stemma di una vitalità sicura di sé. Anche nel dolore, anche nei vuoti improvvisi, quando il tragico incombe nelle forme dell’assenza e sembra voler trascinare, nel vortice del nulla, ogni residuo di tenerezza. È proprio allora che il poeta Vitale tiene fede al proprio nome, e come un pittore ingaggiato ad affrescare una parete bianca, riempie le proprie pagine di immagini vive nell’affettività della memoria. 
Ha ragione, Pontiggia, a identificare al termine di questo percorso il raggiungimento di un «piacere estetico», ma Vitale non insegue un ideale astratto di bellezza; si contenta di rovesciare sul mondo che osserva, sulle esperienze di cui partecipa la luce crepuscolare, calma, di una lucidità che sa farsi ancora incanto, sorpresa. Proprio per questo i suoi parametri espressivi si nutrono di tutto ciò che appare secondario, minimo, quasi nascosto. È in quei recessi di una storia ben più vasta della sua che questo poeta ha lungamente rincorso le figure di un’alterità che gli si è rivelata, infine, assai più prossima e familiare. Con il suo Tratto fermo e lieve (titolo della sezione di inediti che chiudono il volume) Vitale sa cogliere quella vita «che accade mentre ci occupiamo d’altro».
Marco Vitale, Gli anni, con un saggio introduttivo di Giancarlo Pontiggia, Aragno 2018, e. 25.00.

Una ferita, sarà poi questo
a convogliare il vero e il falso?
Corre inesausto il nostro sangue
gela l’Europa, un anno
si rivela, una caducità
di fondo tenta il cuore. Noi
mentre lontano imbianca
sul profilo dei monti, per quest’ora
che brucia calma e ferma
che intrema

sabato 24 febbraio 2018

Il nuovo libro di Nicola Romano

È appena apparso da Passigli, nella collana a cura di Fabrizio Dall'Aglio, il nuovo libro di Nicola Romano, D'un continuo trambusto. Posto qui la prefazione che ho scritto per l'occasione. Auguri!




Il trambusto è continuo, recita il titolo di questa nuova raccolta di Nicola Romano. È un aggettivo che condividiamo, ma non si tratta di una semplice consonanza. Non ci sono prospettive a convergere, nella galassia globale dove tutto, ormai, sembra davvero essere «continuo», sia che giunga ai sensi attraverso la vista, o l’orecchio, o la visione, come in un celebre libro di Italo Calvino, che faceva della continuità una categoria dell’invisibile. Romano, invece, è un poeta del concreto: con la sua scrittura, di volume in volume, ha tracciato, disegnato i contorni di un paesaggio cittadino e famigliare, e li ha riempiti di immagini nette, precise come i suoi affetti; ne ha scandagliato la sostanza più intima, le più remote lacerazioni, spartendosi tra toni che solo con approssimazione potremmo definire civili e momenti di più evidente lirismo, proprio in anni di reiterati attacchi a qualsivoglia pretesa di soggettività. Da questo punto di vista Romano è il soldato che difende la roccaforte, aspettando i tartari; l’ultimo che possa ancora padroneggiare, senza tema di incoerenza, gli strumenti dell’io.
Anche in queste poesie l’altalena si ripropone, e forse in modi ancora più ricchi e complessi che in passato. Il poeta tocca corde varie e vari sono i registri a cui ricorre, pur dentro un’insolita compattezza di dettato. Si trascorre dal bozzetto urbano all’autoritratto psicologico, passando per un certo impressionismo intimistico o per improvvisi squarci paesaggistici che ambiscono al più ampio affresco. Eppure, dietro questo vortice espressivo, e sotto il brulichìo del presente, si avverte l’azione di un unico, inesausto motore: una sola dolente matrice che chiede di riscattarsi in gioia, mimando una denuncia, manifestando il disinganno. È il motore della contraddizione. Non nel senso dell’antinomia, ma in quello della critica e del contrasto. Un’opposizione assoluta, determinata. Con le armi della poesia Romano difende il territorio che caparbiamente ha costruito negli anni e in cui ama riconoscersi. Non è un territorio vasto e non rimanda ad alcuna eroicità. Anche per lui, come per altri autori della sua generazione, si potrebbe ricorrere alla scontata formula di un’antiepica del quotidiano, se non gli accadesse, nello sforzo e nella ricerca della poesia stessa, di circoscrivere un’ontologia, che si palesa anzitutto nella scelta del genere e nell’impostazione della voce. Per lui, ultimo tra i lirici, quella difesa non è un atteggiamento, né una battaglia di cui fare materia per facili versi. È piuttosto la spinta, continua, verso quella regione dove la parola recupera tutta la propria forza e la lingua, ovvero l’identità, rinviene il punto esatto della decantazione, della liberazione dalle scorie del vissuto.
Viene da chiedersi, a questo punto, quale sia il vero vissuto di un poeta come Romano. Perché in realtà c’è come una patina sensoriale attraverso la quale i fenomeni giungono al soggetto, per essere filtrati e trasferiti sulla pagina. In questo, Romano è coerente con l’asse percettivo della modernità, a cui però sembra guardare con un certo riservo, cercando (o mirando a cercare) il colloquio con una tradizione più vasta e antica. Insomma, ancora una volta poesia e vita giocano a scambiarsi i ruoli, di qua e di là di uno stesso palcoscenico. Ora Romano è in scena, ora osserva dietro le quinte, ora siede sornione tra il pubblico. Il suo vissuto trapassa, come in un processo di osmosi, tra ciò che gli è più prossimo e saldo e ciò che inevitabilmente crea disturbo e lontananza. Così, allo stesso modo, mutano i suoi toni. E se la prossimità delimita la sicurezza, evidenzia un milieu affettivo (intendendo anche l’affettività come una forma di conoscenza o addirittura di trascendenza, come ha ben intuito quel maestro di modernità che è Leopardi) e lascia aprirsi una finestra sugli interni di una vita domestica, come in quadro di Vermeer, la lontananza non rinvia ad alcuna nostalgia, perché è priva di spessore temporale. Ogni verso di Romano ci lega al suo e al nostro presente, e proprio per questo ci invita a frequentare il versante di un’inattualità tutta da costruire, tenacemente, nel resistere della poesia.