giovedì 31 dicembre 2015

AILANTO n. 26 - Su Edgardo Dobry





Edgardo Dobry è una delle voci più significative della poesia in lingua spagnola. Argentino di nascita, a vent’anni si stabilisce a Barcellona e lì è rimasto a insegnare. Con la sua madrepatria condivide un carattere particolare, che è quello di volgersi alle grandi tradizioni letterarie europee, sulla scia di autori come le sorelle Ocampo, Bioy Casares, Wilcock, e naturalmente Borges, solo per citarne alcuni. Lo sguardo di quella regione del mondo si fissa in modo naturale alla cultura del vecchio continente, e la vita stessa di Dobry è lì a testimoniarlo.
Il suo interesse per la letteratura italiana, ad esempio, lo ha portato a tradurre autori del calibro di Sandro Penna e Giorgio Caproni; un’attenzione speciale Dobry ha riservato anche alla migliore saggistica nella nostra lingua, da Agamben a Calasso. E la nostra lingua non ha mancato di ricambiarlo: nel 2013 è apparso il volume Cose, e ora la traduzione integrale del suo quinto libro, Contrattempo, per la cura di Francesco Tarquini, che firma anche l’introduzione. A pubblicarlo è la collana «i fili» delle Edizioni Fili d’Aquilone, legate all’omonima rivista online, attiva già da diversi anni soprattutto nella promozione della poesia sudamericana.
Contrattempo è il risultato di un progetto mancato, come spesso accade quando un’opera è pensata prima ancora di essere scritta. Le vie e i processi della scrittura, con buona pace delle neuroscienze, restano ineffabili. Ogni volta che proviamo ad agire programmaticamente, l’idea è destinata a essere sconfessata, in tutto o in parte. Ciò non la sottrae comunque alle dovute attenzioni, e il libro si è avvalso, nel suo farsi, di una prestigiosa borsa della Fondazione Guggenheim (c’è solo da augurarsi che iniziative simili, prima o poi, possano prendere piede anche in Italia), ma, come avverte lo stesso curatore, «in corso di scrittura Contratiempo ha preso a slittare fuori della cornice». Che era, sostanzialmente, quella di un racconto fondato su una sostituzione di persona. Un illustre poeta è invitato a tenere una conferenza, ma a causa del traffico non raggiunge il luogo dove avrebbe dovuto svolgersi l’evento. Così l’organizzatore si sostituisce a lui, improvvisando. Di questo canovaccio iniziale, avverte Tarquini, nulla resta nella soluzione finale del libro. Neppure la necessaria temporalità, il rispetto del susseguirsi cronologico degli accadimenti e delle attese. La struttura di Contrattempo, allora, torna a farsi profondamente argentina. Il tempo si confonde e ritorna su se stesso, al di fuori di ogni ordinaria cronologia, come in un racconto borgesiano. E alla fine l’ambizione poematica, che pone  Dobry in linea con gli esiti della migliore poesia internazionale, da Walcott a Grünbein, almeno in questa circostanza, è come recuperata in un cortocircuito che riporta l’autore verso le proprie origini. Dobry non ha scelto di essere il nuovo Odisseo né di narrare l’ultima fase della vita di Cartesio; il suo moto è sinergico, e una piccola storia che poteva avvenire in qualsiasi metropoli del mondo è invece ribaltata, come decostruita (ma non è questo che fa la poesia di fronte a ogni ipotesi di realtà?) e infine restituita come nella conduzione di una grande metafora, coi necessari disordini delle sue immagini. E allora l’ipotesi che Contrattempo sia un’ allegoria diventa più che un sospetto. Un’allegoria non semplice, che Tarquini ha reso con efficacia.

Edgardo Dobry, Contrattempo, a cura di Francesco Tarquini, Edizioni Fili d’Aquilone 2015, e. 15.00

andromaca assomiglia a un cigno sporco
e dà il nome di Simoenta
a un ruscello, modesto surrogato
del fiume asiatico dove fantasticò
la propria infanzia. Com’è triste
quella lente serpe d’acqua!

Lontano da quel rivo
la natura è sminuita,
non è altro che l’ombra
- non altro che l’ombra – di
quella che trascorse.

mercoledì 30 dicembre 2015

AILANTO n. 25 - Su Andrea Orlandi

Non sono riuscito a trovare una sola informazione, in rete, a proposito di Andrea Orlandi. Il suo libro d’esordio, L’allegria veloce, non appare ancora nel sito del suo editore, Nemapress, una piccola realtà con doppia sede tra la capitale e Alghero. Nonostante giungere a un primo libro, per un giovane poeta, sia oggi certamente più facile rispetto a un ventennio fa, è evidente che la visibilità è ancora tutta da conquistare. Eppure questo libro è l’esito, felice, di un premio letterario, il «Premio internazionale di Poesia 13» del Centro Poesia di Roma, che l’autore ha vinto nel 2014 proprio con la silloge che oggi vede la luce.
Conosco Orlandi da alcuni anni, da quando ha iniziato a frequentare la casa di Elio Pecora, ovvero di un autore che non ha mai cessato di riversare sui più giovani la sua esperienza e i suoi consigli. Di questo carattere testimonia il lavoro di direzione per la rivista «Poeti e poesia», della cui redazione Orlandi è entrato a far parte già da qualche numero. Pecora firma anche la prefazione al volumetto (e annette subito l’«obliquità dello sguardo» e la «sospensione della voce» tra gli aspetti primari della scrittura di Orlandi), siglando così autorevolmente quella che ci auguriamo essere solo la prima tappa di un più lungo percorso.
Il titolo che Orlandi ha scelto è molto intriso del Novecento migliore, e il lettore avvezzo a frequentare la poesia moderna potrà trarne le numerose e mutevoli ascendenze; ma ciò che colpisce è la sua natura così intimamente moderna. A seconda della prospettiva da cui lo osserviamo, infatti, ci appare ora come una contraddizione, ora come una fusione di percezioni diverse: un ossimoro o una sinestesia. Siamo, in ogni caso, nei territori di una modernità che non si è mai del tutto spenta o pacata, e che tende pericolosamente i suoi tentacoli (o le sue lusinghe, come una temibile sirena) ben oltre i confini cronologici che forse con troppa fretta le sono stati attribuiti. Orlandi ora sembra schivare, ora piuttosto assecondare questi pericoli: una luce settecentesca, mozartiana, pervade i suoi versi e li solleva dalle sterili secche del diarismo o del compiacimento elegiaco. Una parvenza intermittente, una certezza numinosa si affacciano da queste pagine come ospiti inquietanti e affascinanti: l’equilibrio è probabilmente un’illusione, una meta fallace piuttosto che irraggiungibile. Eppure una gioia, una gioia un po’ folle, alla Nietzsche, si lascia scorgere lungo tutto il percorso di queste poesie, traducendosi in una inesausta ricerca e affermazione di affettività. E tale è la «battaglia» che ostinatamente Orlandi conduce, fin da bambino, avendo ben presto appreso a tendere il suo arco. E sappiamo quanto questa tensione incarni un rigore assoluto, forse anacronistico, ma di cui il poeta continua a nutrirsi come a una fonte necessaria. Oggi ne leggiamo le prime frecce.

Andrea Orlandi, L’allegria veloce, prefazione di Elio Pecora, Nemapress 2015, e. 10.00

Ho due dèi:
nessuna chiesa li professa,
così ogni giorno rischio di essere solo
come non fossi nato.
Da una parte il dio del mondo,
dall’altra il dio di ciò che manca.
All’uno e all’altro devoto
ti aspetto e preparo la cena.

martedì 29 dicembre 2015

AILANTO n. 24 - Su Alessandro Ricci




Una nuova collana di poesia, a Torino, per le Edizioni Coup d’idée. Si intitola «La costellazione del Cigno», e del cigno ha tutta l’eleganza. Il marchio risponde infatti a una casa editrice d’arte, la cui ideatrice, Enrica Dorna, si è avvalsa di Giulio Paolini per il progetto di copertina. All’eleganza si aggiungono dunque il minimalismo, l’economia e la sobrietà del grande artista concettuale.
Accompagnate da un denso saggio di Stefano Agosti, la collana ha proposto quest’anno le poesie di Alessandro Ricci, in una bella scelta antologica che tiene conto della complessità e delle fasi del percorso creativo di questo autore. Quello di Ricci non è un nome sconosciuto ai cultori della poesia; legato al gruppo di poeti che animavano negli anni Ottanta la rivista romana «Arsenale», e in particolare a Francesco Dalessandro, per un certo gusto della sprezzatura che caratterizzava alcuni di quei poeti, compreso il loro animatore Gianfranco Palmery, Ricci ha pubblicato in vita solo due raccolte di versi. Dunque la confezione grafica non è accidentale, ma rispecchia pienamente un aspetto condiviso: rare e misurate apparizioni, spesso in plaquette o presso editori raffinati e appartati, ma tutt’altro che secondari. Anche le Edizioni «Il Labirinto», presso cui usciva «Arsenale», appartengono a questa specie e continuano a rappresentare ancora oggi la vitalità di quell’esperienza, sotto la guida sapiente di Nancy Watkins. Proprio presso Il Labirinto Dalessandro aveva pubblicato una terza raccolta di Ricci, nell’anno della sua prematura scomparsa, il 2004. Recava un titolo suggestivo, I cavalli del nemico, ma non da meno erano quelli delle altre due sillogi, Le segnalazioni mediante i fuochi (1985) e Indagini sul crollo (1989), prefate entrambe da Roberto Pazzi.
La scelta è stata compiuta e allestita dallo stesso Agosti e approvata ancora una volta da Francesco Dalessandro, con la cura e la coerenza che contraddistinguono il suo lavoro (il suo compito?) di tenere viva l’attenzione verso l’opera dell’amico. Comprende importanti selezioni dalle tre raccolte sopra citate, ma anche un’interessantissima anticipazione da una quarta raccolta, L’Editto finale, apparsa nel 2014. Scrive Agosti nel suo intervento che a caratterizzare la poesia di Ricci è un processo di «attualizzazione della temporalità storica». Semplifico un po’ rispetto alle dense pagine del critico e ai suoi autorevolissimi riferimenti teorici, ma è evidente quanto la presenza dell’antico, in questo poeta, sia di ordine per nulla strumentale, nel senso che egli non si serve dell’antico come tema o peggio come moda, ma se ne lascia attraversare portandolo nel nostro presente. Ogni riferimento storico non resta allo stadio di referente culturale, ma permea dall’interno questa scrittura, la modula incessantemente, ne fa, insomma, uno stile autentico e inusuale in coda al secolo delle sperimentazioni, senza alcuna volontà programmatica, ciò che avrebbe significato limitare il lavoro di Ricci a quello di un epigono o di un neo-classico fuori tempo massimo. Basterebbe a testimoniarlo, proprio sul piano dell’attualità, il ciclo dedicato a Giuliano l’Apostata, per farci accorgere quanto nel moderno batta un cuore antico, e quanto l’antico fosse già, suo malgrado, classico. Opportunamente Agosti richiama Housman e Kavafis. E Yeats (ma vedrei meglio Rilke). Aggiungerei, senza allargare troppo il campo, almeno Herbert.

Alessandro Ricci, I colloqui di Elpinti, con un saggio di Stefano Agosti, Coup d’idée 2015, e. 14.00

Giuliano

Allora Giuliano, dopo
una notte insonne ma non
inquieta, all’alba quando
ogni tenda del campo
gli parve una duna come
ben oltre le sabbie,
infinite a perdita d’occhio, lisciate
dal levante che le invadeva, le issava
in un mare di chiaro:
                                           là:
percorrendo piano il perimetro
senza il contegno del capo,
rispondendo con un sorriso
al saluto quasi commosso
delle guardie di turno,
insonnolite all’ora del cambio
- saluti e sorrisi così simili
a quel lontano silenzio vibrato
nell’aria ferma, così diversi
dall’uso, così
nuovi -, pensò alla consapevolezza
e ai sussurri, a quella morbida
e rassegnata complicità,
pensò alle navi
che s’era bruciato alle spalle
i cui fumi forse si mescolavano
al velo gentile dell’enorme
giornata che si gonfiava,
ad altri pochi momenti,
in un solo ricordo adunati,
invadente ma non spietato,
senza rimpianti.
                                  Poi,
pensando a tutti
i suoi uomini che di lì a poco la tromba
avrebbe svegliati, si disse piano
che suoi erano pure l’errore e la colpa
del destino che li attendeva, ma non
del suo, cui mancava
appena qualcosa,
un gesto,
per la piena armonia.

lunedì 28 dicembre 2015

Un pomeriggio a Frascati

Raggiungo finalmente Frascati in un pomeriggio freddo di fine novembre, dopo aver superato gli incagli del traffico, e già preoccupato di arrivare in ritardo. L’appuntamento è importante: dovrò incontrare gli studenti che hanno letto e discusso il mio libro Solstizio, e che dovranno votarlo per la finale del Premio Antonio Seccareccia. Non è tanto l’esito di quella votazione a tenermi in ansia, quanto il fatto di dover dialogare con loro, rispondere a tutte le loro domande. Le domande dei giovani non si possono eludere, e non è mai garantito che siamo in grado di rispondere a tutte, che sappiamo in fin dei conti farlo. Le loro attese superano le nostre, che hanno già conosciuto battaglie e disincanti; il loro modo di leggere il mondo è assoluto, ma in questo ancora ci somigliano. Chiederanno come ho cominciato, quando, dove; cosa significa per me fare poesia; cosa significa farlo oggi, nel nostro confuso presente. Ma dovrò ricordargli, e ricordare a me stesso, che ogni presente è confuso, e che a volte neppure la coperta del tempo è abbastanza lunga da coprire le nostre disillusioni o da proteggere le nostre speranze e le nostre verità.
Entro in una vasta sala delle Scuderie Aldobrandini, sotto un’alta capriata; in cima alle scale mi viene incontro, ironico come sempre, Aldo Nove, che mi rimprovera bonariamente il ritardo e mi annuncia ridendo l’esclusione dalla terna dei finalisti. Poco oltre Alberto Toni scoppia in una gran risata. Ci conosciamo da molti anni, seguiamo il nostro reciproco lavoro: più che una competizione mi sembra una rimpatriata tra vecchi amici. Il clima cordiale però non stempera la mia ansia e davanti a me si apre una platea piena di studenti e insegnanti. Mi accoglie Andrea Caterini, che modererà l’incontro, anche lui visibilmente in difficoltà; già, perché su quelle sedie stanno anche bambini delle elementari, e la loro presenza rende l’impresa ancora più difficile. Dovrò insistere sul massimo di sincerità, non nascondere loro proprio nulla.
E infatti, puntuale, arriva la domanda. Che senso ha la poesia, come ci difende dall’aggressione della realtà. Recito una battuta consueta, per me: se mai la poesia dovesse servire a qualcosa, serve a non diventare servi. Non è solo un gioco di parole, che comunque cattura la loro curiosità; devo infatti insistere e dimostrare che la poesia, che è esattezza, precisione, sintesi, tiene sempre alto e vigile il livello della nostra coscienza. Al termine dell’incontro, Rita Seccareccia mi viene incontro e mi dona una ristampa delle poesie del padre. Apro a caso, e trovo una risposta anche per me: «Son passati degli anni con niente, / e nessuno sapeva più nulla / d’un piccolo seme gettato / per caso, per giuoco alla terra».

Devo averli convinti. Il pomeriggio seguente Arnaldo Colasanti mi annuncia la vittoria del premio.

domenica 29 novembre 2015

Raffaele Manica su Solstizio

Posto la motivazione di Raffaele Manica in occasione del Premio Frascati-Poesia "Antonio Seccareccia", 55ma edizione.



Conoscitore di poesia e traduttore, Roberto Deidier giunge con Solstizio alla piena maturità di poeta.
Una definizione rapida per il suo libro potrebbe dire di una densità risolta in chiarezza, che scioglie i grumi delle tracce autobiografiche e dei lacerti esistenziali con una voce sostenuta da dissimulata perizia formale e da controllata varietà di timbri.
Di prima, la misura di Solstizio è classica, perfino nella scelta metrica, che pratica non di rado l'endecasillabo e, se non si è constatato male, sempre il verso dispari, che nella tradizione moderna vuol dire musica. Ma poi la voce della poesia di Deidier è soprattutto quella della conversazione, che non si sottrae nemmeno a spazi di narratività, rinunciando volutamente allo scandire esatto, con «la studiata sciatteria di chi non ha rimorsi», come si dice in Auden (con Penna, uno dei maestri di elezione di Deidier), aggiungendo: «Mi guardai nel tuo stesso sguardo / Il circolo vizioso della solitudine». Perciò, cumulando i segnali, si vede come in Solstizio tutto arrivi da una non pacificata introversione; e come tutto ciò che si attribuisce a fatti formali giunga da un mai dismesso pudore: l'io che si affaccia è incerto, residuale, necessario però a bilanciare rilevanti fatti minimi e conoscenza. Così la vicenda di un io che veglia il sogno della vita è l'altra formula che si vuole proporre per Deidier e per Solstizio.

domenica 22 novembre 2015

AILANTO n. 23 - Su Giorgio Orelli


Giorgio Orelli apparteneva a quella speciale stirpe di autori novecenteschi, per i quali la pubblicazione di un libro non coincideva con un problema d’identità, ma con l’aspirazione a produrre un’opera da affidare alla durata. La sua è stata una presenza piuttosto discreta nelle vicende della poesia italiana del secolo scorso: in parte perché Orelli era ticinese, in parte (e credo sia la parte più evidente) per un senso particolare della misura, che ha condiviso con tutti i maggiori poeti, da Montale a Ungaretti, da Sereni a Penna. Sfogliando l’Oscar mondadoriano, non corposo come altri, recentemente apparso per le cure di Pietro De Marchi, ci accorgiamo subito che la bibliografia di Orelli appare piuttosto scarna. Nel corso della sua lunga vita (era nato nel ’21, si è spento nel novembre di due anni fa) contiamo quattro raccolte principali, sempre apparse a notevole distanza tra loro: L’ora del tempo del 1962, che chiudeva in qualche modo la sua prima stagione; Sinopie, del 1977; Spiracoli, del 1989; infine, presso Garzanti, Il collo dell’anitra nel 2001.
Orelli appartiene anche a un’altra tradizione, che la nostra letteratura condivide certamente con gli altri modelli europei: siamo di fronte a un poeta colto. Le sue indagini su autori fondamentali delle nostre origini, come Dante e Petrarca, fino a quelle su Pascoli, Montale, nonché la sua attività di traduttore, in grado di misurarsi agilmente con le liriche di Goethe, hanno fatto di lui una figura di frequentatore della poesia a tutto tondo; e se è vero che i confini tra i generi, nel corso della modernità, tendono a farsi sempre più labili, si dovrà constatare come e quanto  le diverse forme della scrittura abbiano dialogato a fondo, in Orelli, lasciando tracce evidenti anche nella sua ricerca lirica. Non solo sul piano di una possibile intertestualità con quegli autori studiati, ma anche, direi, per quanto concerne toni e registri, allusioni e citazioni. Non è sempre facile imbattersi in lui, specie a partire da Sinopie, il libro in cui il dettato orelliano, pur mostrando una certa continuità, inizia a farsi più complesso, talvolta più cifrato e sintetico.
La sintesi, nel senso anche della brevità e della concisione, è un suo tratto caratteristico. Assai di rado c’imbattiamo in componimenti che travalicano la pagina per consegnarsi a quella successiva. Da questo punto di vista Orelli si pone in parallelo con altri compagni di strada, come Erba o Risi, ma sempre conservando una propria fisionomia rispetto alla cosiddetta linea lombarda. L’Oscar è arricchito da una sezione di testi sparsi e inediti, che avrebbero dovuto comporre un’ultima raccolta, dal titolo L’orlo della vita, e da una scelta delle traduzioni, a riprova che questa pratica non rappresenta mai per un autore un territorio a sé, ma appartiene di diritto alla propria ricerca in versi. Ancora una citazione dantesca occupa quello che sarebbe stato l’ultimo titolo di Orelli, se la morte non avesse interrotto l’allestimento di una raccolta che gli strumenti della filologia ci consentono di leggere, ma in una forma sempre approssimativa rispetto a quella che gli avrebbe conferito il poeta: le sue carte, i suoi quaderni, sono stati trovati sulla sua scrivania, ma la compiutezza era ancora lontana. Una situazione simile a quella di Res amissa di Caproni, dunque; e siamo grati al curatore per aver comunque condiviso questi testi, che indipendentemente dal loro ordine, contribuiscono a restituirci una più compiuta immagine di Giorgio Orelli.

Giorgio Orelli, Tutte le poesie, a cura di Pietro De Marchi, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, bibliografia di Pietro Montorfani, Mondadori 2015, e. 22.00

Nel giardino di casa, con sospetta
complicità di ortensie
è raggiante il bambino che mangia
il fiore di magnolia,
mentre un altro contempla una lucertola
che non scappa, protesa sul bordo
del marciapiede come in ascolto,
e non osa toccarla, quasi incredulo
della morte;
e in poca terra pedala pedala
un terzo, che al saluto
mi dice: «Questa qui
è la bici del mio fratello,
quand’ero grande me la regalava».

venerdì 6 novembre 2015

Andrea Caterini su "Solstizio" per il Premio Frascati

Siamo ormai in prossimità della cerimonia conclusiva (il 28 novembre) che decreterà il 55° vincitore del Premio Nazionale di Poesia Frascati Antonio Seccareccia, che ha attraversato, nella sua lunga storia, il meglio della poesia italiana: da Alfonso Gatto a Carlo Betocchi, da Attilio Bertolucci ad Andrea Zanzotto, da Valerio Magrelli a Milo De Angelis, Renzo Paris e in ultimo Umberto Fiori. Con oltre mezzo secolo di vita, il Premio (col quale sono felice di aver cominciato a collaborare, pur non essendo un giurato) quest’anno giunge a un punto di riflessione. Il Novecento italiano è stato certamente il secolo della poesia. Infatti, non c’è Paese in Europa che possa reclamare la nostra stessa ricchezza. E non si fa riferimento solo ai consolidati Montale, Ungaretti e Saba, ma pure a poeti che sono sempre stati giudicati, spesso a torto, “minori”. Perché non sono grandi, poeti come Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora, Attilio Bertolucci, Alfonso Gatto, Carlo Betocchi, Sandro Penna, Vittorio Sereni, Amelia Rosselli? E sono solo alcuni esempi.
I tre libri finalisti di quest’anno, che presenterò il 27 novembre alle ore 16 presso le Scuderie Aldobrandini di Frascati, "Solstizio" (Mondadori) di Roberto Deidier, "Vivo così" (Nomos) di Alberto Toni, "Addio Mio Novecento" (Einaudi) di Aldo Nove, raccolgono lo sguardo della tradizione, interrogandosi sulla memoria, sulla perdita del passato, sul significato del tempo nella caducità della nostra vita, suggerendoci – per sguardo, stile e dettato – una visione radicale ma anche commossa del presente.
Roberto Deidier è un poeta paziente e discreto. Più che accelerazioni, in "Solstizio" percepiamo spesso smarrimenti, dissoluzioni. È l’esistenza che fa i conti con se stessa, coi suoi pieni e suoi vuoti, con le sue tensioni verso un assoluto, e lo sgomento per l’approssimarsi, o l’accorgersi, di un vuoto. Capiamo allora che quella di Deidier è una lotta, ma senza il rumore delle armi, tra la volontà di esserci e lo spavento che tutto ciò che abbiamo visto, capito e finanche perduto nei dolori e nelle attese di un amore, possa allontanarsi spietatamente – infine obliandosi. Pure in quella sezione nella quale dà voce ad alcune “figure” bibliche, Deidier sembra volerne smascherare il carattere umano, prima che cercarne l’origine celeste, riportare quegli uomini – Adamo, Mosè, Giacobbe, Elia ecc. – alle loro primigenie fragilità. Come nei versi in cui dà voce ad Abramo: «Sapevo, sapevo bene/ Che alzando la lama dalla parte giusta/ L’angelo m’avrebbe afferrato il polso./ Per questo la puntai verso il cielo».

giovedì 22 ottobre 2015

SpiRituale/Digitale. Fotocronaca di un vernissage con poeti

Roma, Via Baccina, con lo sfondo dei Fori. Qui c'è la sede di Empirìa, dove sta per inaugurarsi la mostra di Rocco Micale, «SpiRituale/Digitale 1.1». Per questo evento 11 poeti contemporanei hanno inviato un loro testo, scritto o scelto per l'occasione.


È il tardo pomeriggio del 16 ottobre. Rocco Micale è pronto ad accogliere gli ospiti davanti alla sede della mostra…


ed ecco il pubblico che inizia ad affluire…


Nella sala piena Rocco viene presentato da me…


e cominciamo a dialogare sulle sue opere, sui loro significati e sulle tecniche:


La gente in sala ascolta attenta e si accinge a sua volta a fare domande.


Si riconosce Luigia Sorrentino che legge la sua poesia:

lo ha seguito 
nel fitto degli alberi 
già così scura la macchia

la piccola onda 
ha smarrito la strada 
nelle crepe del tempo 
la lingua del muschio 
fa tacere ogni luce

Uno degli arcani presentati è «La Morte»:


E adesso è Alberto Toni a leggere la sua poesia, dal suo libro Nomos:


Il tratto dei misteri ci dice che domani
compiremo il viaggio di conoscenza-
Dio lo sa nel silenzio che attraversiamo,
in folle corsa e minime pause stagionali.
Un raggio finale e doloroso.
E tutti gli oggetti allineati sul tavolo
per il ritorno.

Qui ci sono Giulia Napoleone e Marco Caporali. Anche lui ha portato una sua poesia, intitolata Davanti al fuoco:


Lascia che ciascuno intraveda la sua immagine
in quel rogo di scheletri ed alberi
che la preistoria invade.
Un cuneo che ci innerva nella creta
un calcolo di beni
più vasti del presente che con ansia
fuori di sé si volge
impongono una stabile dimora.
Le puoi rivoltare sul foglio
le tue riserve spente
che si susseguono in remote terre
pacificate, dai venti erose
mentre le vette altrove s’inabissano
irte, incompiute minacce. E’ un mosaico marino
che in cristalli si sfalda
e ci predice, nomadi all’origine rivolti.

Fuoco su fuoco. Questo quadro è dedicato al mito di Efesto:


Baldo Meo ci legge la sua poesia, dal titolo La cerimonia esemplare:


Acqua di vite, mercurio, vetriolo
filtro della lunga pazienza,
veglia dell'esperienza
per una inconciliata soluzione.

Per il pensiero che è consolazione
e il desiderio che è fastidio
nell'affetto vago ma accorto,
esordire e' vivificare.

Ma facile non è voce che dura
per fare e per trattare
per il vento eternale
e il ritmo rituale.

E come parlare all'estremità 
degli accidenti -assorto-
la parola fuggitiva,
la sostanza virtuale?

Ci ha raggiunto Elio Pecora. A lui dedichiamo La Temperanza:


Ed eccolo mentre legge Sogno 2:


L’aveva fatto passare,
anche stavolta
non disse niente di sé.
Discesero insieme una  strada,
pronunciò un nome,
un nome che non conosceva.
Rimasero a lungo in silenzio
prima di allontanarsi,
senza un cenno, un saluto,
ciascuno verso un suo luogo.

Questa che segue, invece, è la mia poesia. S'intitola L'arte della previsione:

Verso sera, i gomiti sulla ringhiera,
Si va incontro a un’improvvisa limpidezza.
La polvere del giorno decanta
Minuscoli grani di pensiero.
Sembra più alto, il cielo. L’ippocastano
Piega i rami sulla corona di ortensie
E le sue voci si fanno profonde
Come un fuoco di cori segreti.
I gomiti sulla ringhiera, ancora calda,
E il cielo sempre più alto.

Hanno partecipato inoltre, di presenza o con i loro versi, Daniela Attanasio, Silvia Bre, Anna Cascella Luciani, Biancamaria Frabotta, Gabriella Sica. E naturalmente la splendida padrona di casa, Marisa Di Iorio. Rocco Micale ha prodotto un piccolo catalogo della mostra, contenente gli interventi critici di Gianpaolo Trotta, Antonina Greco, Raimondo Burgio. La mostra è aperta fino al 23 ottobre.

martedì 13 ottobre 2015

AILANTO n. 22 - Su Giovanni Bracco




Di Giovanni Bracco, di cui La Vita Felice ha appena pubblicato un primo libro di versi, Le grandi mani calme, abbiamo poche, sintetiche notizie. Nato nel ’61 in un paese del Sud, nel Vallo di Diano, è giornalista presso l’agenzia «Il Sole-24 Ore Radiocor» e ha pubblicato poesie su «Nuovi Argomenti» e «Poeti e poesia». Dei suoi gusti, delle sue predilezioni letterarie, non ci viene detto nulla, anche se la limpidezza della sua scrittura fa pensare a un Novecento in positivo, e a una tradizione lirica, d’amore, che da Petrarca giunge nel cuore della modernità. Proprio da Petrarca, infatti, è tratto l’unico segnale che Bracco concede al suo lettore: tre soli versi in epigrafe, dal Canzoniere, in cui l’amante viene trovato da Amore del tutto «disarmato». Con questo viatico proviamo a entrare nel libro di questo poeta, di cui ci è dato solo sapere che ama la musica (è diplomato in pianoforte e possiede un vecchio Steinway), ha una laurea in lettere e ama coltivare la terra.
Entriamo dunque disarmati, come il soggetto che narra e si descrive “in situazione”, all’interno di una dinamica sentimentale che risponde a una precisa e ben conosciuta fenomenologia amorosa: quella di chi deve ammettere il possesso da parte dell’altro, sia in presenza che in assenza («Tremo all’idea della tua presenza. / Vertigine l’assenza», recita un distico dalla semplice verità), ovvero quella forma di assoggettamento che tracima nell’ossessione. Petrarca è davvero il modello dei modelli, in questa prospettiva. E in quell’ossessione, in quel «pensiero dominante», la donna amata agisce una sorta di fantasmagoria, allestisce e governa la «stanza segreta» dell’eros, smuove il «mistero» che parte dalla sua bocca e investe l’amante, irretendolo per sempre nella voluta del desiderio. «Bocca», «bacio», «odore»: nuovi sensi intervengono sulla scena della lirica d’amore, accanto a quelli tradizionali della vista e dell’udito, che in realtà rappresentano la base percettiva della terza e ultima sequenza del libro, «Su un’isola si aspetta». Al centro dell’opera sta una breve sequenza, un poemetto a sé che sembra derivare da una collana di pseudo-haiku, dedicati tutti al Mont Saint Michel. È una cesura perfetta, che fa da soluzione di continuità tra le due sezioni principali e più ampie: la prima, dominata dalla figura dell’amata, e l’ultima, dove un paesaggio più vasto (ci sono isole, certo, ma anche città e quartieri che sembrerebbero perfettamente assimilabili a isole anch’essi, o comunque visti e vissuti come tali) ci introduce all’assenza e all’attesa, in perfetta simmetria con la prima. Qui la marea mima il movimento amoroso, isola, mare e sabbia ne divengono i simboli. Bracco ha sapientemente costruito un piccolo canzoniere privato (ma ogni canzoniere, in quanto riflesso di un’esistenza travasata in versi, lo è), riprendendo la stessa struttura che era del suo modello esplicito.
Così, se nelle prime poesie azione e pensiero si scambiamo incessantemente le parti lasciandosi soggiogare dalla visione della donna, nelle ultime il soggetto si trova a fare i conti con se stesso.  È qui, probabilmente, che «viene incrinato il mistero» adombrato dalla presenza femminile, come scrive Elio Pecora in prefazione. A legare le due sezioni, inoltre, c’è l’andamento da diario mensile, ovvero quel senso di vulnerabilità del tempo a cui entrambi, amante e amata, sono inevitabilmente costretti, con le loro storie – anche corporali – e i loro luoghi. La scommessa è sempre quella di «arrivare ai confini della sera / col bagaglio ben fatto / e una carezza non occasionale», «impigliarsi» o «posarsi» come la piuma sintetica scesa sul balcone.

Giovanni Bracco, Le grandi mani calme, prefazione di Elio Pecora, La Vita Felice, 2015, e. 12.00.

Di notte nella stanza luci rosse
di radiosveglia tracciano
ai pensieri la pista di atterraggio.
Ma io li ricaccio in volo
nella profondità folle dei sogni.

Dovrei farlo stanotte che mi manchi
dentro la pancia, nel mio nero cuore.
Ma è un grumo nero il cuore
e tu farfalla vento verde neve.

venerdì 9 ottobre 2015

Poesia, ovvero l'arte di voltarsi indietro

Posto la relazione che ho tenuto ieri al convegno Poesia del pensiero, organizzato a Roma, presso il Maxxi, da Luca Archibugi e Giorgio Patrizi.


C’è più che un residuo di orfismo, nella poesia dei moderni. Non mi riferisco alla sua parte più evidente, quella che dai romantici, attraverso i simbolisti, tracima nel pieno del Novecento, tra Rilke e Ungaretti: quell’orfismo verticale, quel senso della discesa che sembra sfumare certi connotati psicologici per tentare di riappropriarsi, invece, dei significati profondi. La poesia al posto dell’Essere oppure, come sarebbe avvenuto di lì a breve, la fusione tra i due, sebbene in altro contesto e con altre intenzioni. Accanto a questa dominante c’è stato, meno pervasivo forse ma con uguale densità, un orfismo orizzontale. Ve ne sono già le tracce in Leopardi, accanto al pensiero-immagine del naufragio, e lo stesso può riscontrarsi in Rilke. È l’orfismo che circoscrive una precisa fenomenologia dello sguardo: quella di chi sceglie di guardare nonostante.
Accade anche a Montale. Forse un mattino andando in un’aria di vetro racconta l’esperienza di uno sguardo che è costretto a rivolgersi per potersi finalmente imbattere nel nulla, in un mondo percepito solo come «rappresentazione», come lo aveva inteso Schopenhauer. E come i poeti, secondo Marina Cvetaeva, si possono suddividere in quelli con storia, che non si voltano mai indietro, e quelli senza storia, i lirici che si voltano, così gli uomini vengono definitivamente spartiti tra quelli che si pongono il problema di voltarsi e quelli per cui la vita è solo tempo, un vettore che sfreccia in avanti. Cvetaeva non ha pensato a Montale, e neppure a Eliot. Questi hollow men che si aggirano nel deserto della contemporaneità, protesi al loro inconoscibile futuro e quindi alla morte, sono forse l’emblema più alto di una reificazione che ottunde le coscienze. Chi invece si è voltato, si è imbattuto nel «terrore», ma ha conquistato un «segreto» non condivisibile. La verità dei poeti è irresponsabile, cieca.
Lo sguardo orfico, per poter agire, si lega dunque a un impedimento. Può trattarsi di un accidente naturale, come lo schermo di una siepe; può ancora esprimersi sotto la specie di un divieto, così da provenire direttamente dalle regioni del mito; e ancora al mito, infine, l’impedimento deve quella che è probabilmente la caratteristica più suggestiva, quella della velocità. Non è una velocità fine a se stessa, ma che induce, provoca altra velocità. Nel Manuale di zoologia fantastica di Borges ne ritroviamo un esempio evidente, che è, nello stesso tempo, un formidabile vettore ermeneutico. Borges riporta quella che gli viene presentata come una leggenda dei boscaioli del Wisconsin. In quelle lande deserte, tra i boschi secolari e i tronchi smisurati, la solitudine elabora la paura, e la paura a sua volta crea una sua precisa forma simbolica. È quella di una strana creatura, denominata «Hide-behind», che sta nascosta dietro di noi, alle nostre spalle. Che ognuno abbia il proprio Hide-behind è solo un’efficacissima allegoria. Si può mostrare, questa creatura del nostro inconscio? Certamente no. Tutte le volte che proviamo a guardarla, compiendo l’atto di voltarci, lo Hide-behind si è già spostato, così che risulta impossibile focalizzarlo. Lo spazio della visione si fa estremamente mobile, al punto da annullarsi: lo sguardo resta impotente, e isolato. Non si stabilisce alcuna reciprocità.
Questo accade, aggiunge Borges, perché lo Hide-behind è sempre più veloce di noi. Qui l’allegoria sembra complicarsi e aggiungere, all’evidenza della base psicologica, un ulteriore tasso di metaforicità. È una spiegazione, quella della velocità, che però ci costringe a fare i conti, questa volta, con la nostra diversa velocità. Era accaduto anche all’Orfeo di Rilke. «Agile», lo sguardo sempre rivolto verso la soglia estrema che riconduce al mondo dei vivi, un solo arduo obiettivo da raggiungere, investendo in una fiducia assoluta. I due sensi maggiori della percettività moderna, vista e udito, non vengono in soccorso: il primo è soggetto a un divieto, il secondo si scontra con il silenzio assoluto degli inferi. Il primo «si aggirava come un cane», mentre tutto il corpo del poeta «divorava la strada a grandi morsi»: rappresentazione di una ferinità decisa, per cui la conoscenza, anche quella della morte, passa attraverso la fame e la sete, come suggerisce Tommaso d’Aquino. Il secondo senso, invece, è rivolto «indietro come resta un’ombra». La luce della conoscenza, e della verità, filtra attraverso il solo senso libero di voltarsi, e un’ombra viva si proietta sul sentiero delle ombre morte. «Essi verranno», prova a dire Orfeo, quasi tentando un’ultima formula magica, un rito privato tra desiderio e dubbio: ma la sua voce potente, laggiù, è destinata a spegnersi, come l’urlo di un incubo. «E tuttavia venivano, ma due / dal lentissimo passo».
Euridice, nel testo di Rilke, è scortata da Hermes, il dio della velocità per antonomasia. Anche lui, però, deve scontare un impedimento e contenere la forza degli attributi divini: l’ombra che sta accompagnando è ancora avvolta nel sudario, e questo rallenta il cammino, ma si tratta soltanto di un’immagine necessaria, ovvia. Quel sudario è piuttosto il simbolo, l’habitus di una condizione nuova: quella che Rilke chiama «grossen Tode», la «grande morte». La morte come esperienza irreversibile, e per contrasto, rigeneratrice. La morte come solitudine altissima, che riporta Euridice a se stessa, e non ne fa più semplice oggetto di canto. La morte è «grossen» perché la riscatta da uno stato di passività e la rende, finalmente, soggetto. Un soggetto in grado di rifiutarsi, lei che sembra non capire nulla di quanto le accade intorno, e che «mite e paziente» risale e infine ridiscende per la terza volta (caso unico nel repertorio del mito) il sentiero che passa tra i vivi e i morti. Lei che ormai appartiene solo a se stessa.
Ciò che la figura di Euridice suggerisce, nella lettura che ne dà Rilke, non è tanto l’irrimediabilità della morte e il distacco che ne consegue, quanto il raggiungimento, la conquista accidentale di uno status di libertà e di affrancamento. Nonché di potere, anche se si tratta di una facoltà paradossale, per chi la giudica dalla parte dei vivi. Rilke disegna un quadro suddiviso in due assi semantici, fa della morte una vera e propria polarità: il mondo dei vivi è ovvio, quello dei morti rovescia questa ovvietà e ripiega su se stesso, marcando la propria superiorità e indipendenza. Qui, nel fondo dell’Ade, ciò che ai vivi è dato una sola volta è dato invece per sempre: sono le parole che Claudiano dona a Plutone per consolare Proserpina del forzato distacco dalla madre, e che Euridice sembra accettare in pieno. Su questa nuova forza può finalmente imbastire una risposta, ovvero prendere parola.
La prima parola che pronuncia la “nuova” Euridice, in Rilke, serve a ribadire la sua totale estraneità al mito. Quando Hermes, con la voce mesta, le comunica che Orfeo si è voltato, lei non può che pronunciare quell’estraneità nella forma di una domanda assoluta: «Chi?». La sua assenza, per questa via, non è soltanto quella di una soglia varcata per sempre, ma un’indifferenza indotta da una consapevolezza inaudita. Se Orfeo ha ancora potuto riconoscerla, lei invece non è più in grado di farlo. «Mite e paziente» segue il percorso verso la vita, ma questo non la riguarda più. Se Orfeo fosse riuscito nell’impresa, avrebbe trascinato con sé un involucro vuoto, un fantasma del passato: qualcuno profondamente estraneo, perfino ostile. Qualcuno destinato a non appartenergli. È a questo punto che la poesia deve fare un passo indietro e riportarci al momento in cui il poeta incontra la donna e la riconosce fra tante altre ombre. O è piuttosto Euridice a riconoscere Orfeo e a scagliargli addosso le parole estreme del distacco?
È l’espediente a cui ricorre Marina Cvetaeva. Il discorso appena avviato da Rilke con l’interrogativo rivolto a Hermes prosegue, e ancora per noi si conclude, con il monologo serrato con cui Euridice investe Orfeo: «il nuovo incontro è spada». La polarità di Rilke giunge qui al pieno compimento: «in questa casa / illusoria tu, vivo, sei fantasma, e vera / io, morta». Orfeo «non deve scendere a Euridice». La verità è nella  mano di lei, che provocatoriamente, proprio mentre stanno per concludere il mito, tocca la spalla di lui e lo costringe istintivamente a voltarsi. Lei sa che quel gesto improvviso e imprevisto l’avrebbe riconsegnata per sempre alla sua nuova natura, alla ritrovata libertà in se stessa. Quello sguardo non può più essere reciproco, com’era stato, anche se per un solo istante, quello della passante di Baudelaire. La tensione è tale da renderlo un campo magnetico, dove i due poli uguali si respingono necessariamente. Ma perché sono divenuti uguali?  

Euridice viva è materia del canto, emittente e destinataria di una gioia che si fa potenza pervasiva. Euridice morta è ancora materia di poesia, ma nell’assenza e nella negazione, «così che un mondo fu lamento», traduce Pintor da Rilke. Il mito regredisce allo stato di metafora primaria e diviene, ancora una volta, allegoria della condizione della poesia per i moderni, così che Euridice stessa può essere assimilata a questa poesia che disperatamente nasce dopo la morte della poesia. Euridice è la poesia, è una perfetta ipostasi di questa poesia che canta la propria assenza. Per questo, come scriveva Marina Cvetaeva, non senza una certa aggressività, «I fratelli non devono turbare le sorelle». Tra il poeta e la donna amata e inseguita fino all’Ade la poesia scende come un tabù, la morte - come esperienza e come limite - sancisce il riconoscimento di un’uguaglianza. Per questo il mito era destinato a non chiudersi, tra l’impedimento e l’incompiutezza. Nessuno meglio di un moderno avrebbe potuto comprenderlo. La poesia, per lui, è ormai irrimediabilmente oltre. Raggiungerla è impresa impossibile, lo sguardo non è ricambiato, gli occhi della poesia respingono. Si può ricordare, desiderare, pensare la poesia, ma non è più dato di farla. Si può solo pensare Euridice. E come la poesia, questa figura porta con sé una verità «irresponsabile e senza conseguenze»; quella verità che «non bisogna neanche cercare di inseguire, giacché anche per i poeti essa è senza ritorno».

domenica 4 ottobre 2015

Per Luciano Erba



Qualche giorno fa, pensando alla scomparsa di Nelo Risi, mi sono trovato più volte a ricordare Luciano Erba. Viene quasi naturale, per molte ragioni. Intanto perché, nelle storie e nelle antologie della poesia italiana del secolo scorso, i loro nomi sono spesso apparentati nella «linea lombarda» o nel più generico ambito del post-ermetismo; insomma, uno chiama l’altro, e di entrambi è evidenziata una certa componente razionale, o raziocinante. Ma ricordi e persone si allineano per noi, in noi, in una strana catena della memoria, che coinvolge situazioni e incontri, episodi e imprevisti. L’ho dichiarato più volte, Erba è uno dei miei poeti preferiti: quel suo fondere intelligenza e tenerezza, sempre così sapiente eppure leggero, mi ha sempre dato un grande piacere di lettura.
Mi sono imbattuto nei suoi versi tramite le antologie, quand’ero ancora studente. Erano gli anni delle scoperte, certo, ma anche delle esplorazioni di libri: quando mi trovavo fuori Roma giravo per vecchie librerie o reminders sperando sempre di trovare qualche titolo interessante di Guanda, Mondadori o Garzanti. Ero all’Aquila, dove viveva mio padre e dove spesso andavo a studiare, lontano dai rumori di Roma. Nella storica libreria Colacchi trovai una prima edizione di Dopo Campoformio di Roversi; accanto, ricordo, c’era una copia de L’ippopotamo, appena apparso da Einaudi. Sarà stato il clima estivo, quel misto di luce e ombra che in certi pomeriggi di luglio ti fa improvvisamente realizzare di trovarti immerso in una dimensione tipicamente italiana, tra viuzze, tetti, palazzi e case basse, in un susseguirsi continuo di calore e frescura, quando la frescura porta con sé l’odore di qualcosa di molto antico, che lì per lì non sai riconoscere, ma che dopo pochi passi ti richiama, all’improvviso, qualche rapido scorcio della tua infanzia; saranno state le vecchie mensole della libreria, il loro aspetto da vecchio emporio; sarà stato per questo, ma leggere quelle poesie d’amore, scritte in assenza, come un trovatore, fu come riascoltare una voce interna. Qualche mese dopo, a Roma, nella libreria Rizzoli della galleria Colonna, che ora non c’è più, trovai fortunosamente Il nastro di Moebius, il libro con cui aveva vinto il premio Viareggio molti anni prima, e fu naturalmente una conferma. Poi, in una libreria antiquaria, fu il turno de Il prato più verde.
Lo avrei conosciuto di persona, e avrei parlato con lui dei poeti amati, dei miei studi, ma il primo vero incontro fu proprio con le poesie dell’Ippopotamo, che resta per me uno dei libri più felici dell’ultimo scorcio di Novecento: «Quell’azzurro di luglio senza te», «Se mai ti ricorderò come una madonna senese»… Un’Italia riconoscibile eppure sotterranea, celata in  qualche zona della memoria, riaffiorava in quell’estate dell’89. Ci fu anche l’occasione di un viaggio. Alla fine degli anni Novanta collaboravo con l’università di Roma Tre e Giulia Lanciani, che aveva la cattedra di portoghese, ebbe la possibilità di organizzare uno scambio tra poeti italiani e lusitani. Mi chiese di farle alcuni nomi, e alcuni mesi dopo ci ritrovammo a Lisbona con Silvio Ramat, Elio Pecora, Maria Luisa Spaziani e Luciano Erba. La sera del giorno successivo al nostro arrivo l’Istituto Italiano di Cultura ci avrebbe ospitato per una lunga sessione di lettura e di confronto, ma Luciano, invece di riposarsi, ci coinvolse in una gita a Sintra. Era il più curioso del gruppo, il più affamato di immagini: ricordo il suo passo velocissimo lungo le mura del castello, la mia sorpresa di scoprirlo ancora così agile e Silvio che mi confermava la sua abilità sui sentieri di montagna. Ricordo le ali che faceva il suo impermeabile, mentre avanzava osservando minuziosamente il paesaggio, fin dentro i dettagli che a me sfuggivano per la novità e l’eccesso.
Poi ci furono gli incontri in Sicilia. Il treno dei poeti, la prima grande manifestazione di poesia voluta da Antonio Presti. Andai a Catania, da lì salimmo sulla Circumetnea fino a Bronte. C’era Enzo Iachetti che ci intervistava, sembrava tutto surreale, in un marzo freddissimo. Alla stazione di Bronte io e sua moglie fummo fatti scendere, per fare spazio ad altri poeti e ad altri ascoltatori. Lì, nel piccolo bar, ci consolammo, nell’attesa che la littorina ripassasse, con una torta al pistacchio.
Quindi ci fu il premio Mondello, fortemente voluto dai poeti della giuria, per l’Oscar che raccoglieva le sue poesie. Fu una vera festa, per Luciano. A Palermo, nella hall dell’Hotel delle Palme, ci ritrovammo a parlare di autori e letture; era molto incuriosito dai miei corsi sugli sviluppi della poesia moderna, chiedeva informazioni sui tracciati che andavo disegnando di anno in anno. Nel 2003, infine, l’Unesco mi chiese di organizzare una manifestazione di poesia a Palermo, e Luciano venne di nuovo a parlarci e a leggere i suoi versi. Non lo avrei più rivisto. Negli ultimi anni gli impegni ci avevano tenuti distanti: più volte, se mai avessi deciso di salire a Milano, mi aveva offerto ospitalità, ma non accadde mai. Quelle conversazioni mancate mi lasciano un po’ di rammarico, e qualche volta mi diverto a inventarle, mettendo insieme citazioni dai suoi libri. È un modo, un po’ infantile, per far finta che Luciano sia ancora qui. Forse a lui sarebbe piaciuto.