Una nuova collana di poesia, a
Torino, per le Edizioni Coup d’idée. Si intitola «La costellazione del Cigno»,
e del cigno ha tutta l’eleganza. Il marchio risponde infatti a una casa
editrice d’arte, la cui ideatrice, Enrica Dorna, si è avvalsa di Giulio Paolini
per il progetto di copertina. All’eleganza si aggiungono dunque il minimalismo,
l’economia e la sobrietà del grande artista concettuale.
Accompagnate da un denso saggio
di Stefano Agosti, la collana ha proposto quest’anno le poesie di Alessandro
Ricci, in una bella scelta antologica che tiene conto della complessità e delle
fasi del percorso creativo di questo autore. Quello di Ricci non è un nome
sconosciuto ai cultori della poesia; legato al gruppo di poeti che animavano
negli anni Ottanta la rivista romana «Arsenale», e in particolare a Francesco
Dalessandro, per un certo gusto della sprezzatura che caratterizzava alcuni di
quei poeti, compreso il loro animatore Gianfranco Palmery, Ricci ha pubblicato
in vita solo due raccolte di versi. Dunque la confezione grafica non è
accidentale, ma rispecchia pienamente un aspetto condiviso: rare e misurate
apparizioni, spesso in plaquette o
presso editori raffinati e appartati, ma tutt’altro che secondari. Anche le
Edizioni «Il Labirinto», presso cui usciva «Arsenale», appartengono a questa
specie e continuano a rappresentare ancora oggi la vitalità di
quell’esperienza, sotto la guida sapiente di Nancy Watkins. Proprio presso Il
Labirinto Dalessandro aveva
pubblicato una terza raccolta di Ricci, nell’anno della sua prematura
scomparsa, il 2004. Recava un titolo suggestivo, I cavalli del nemico, ma non da meno erano quelli delle altre due
sillogi, Le segnalazioni mediante i
fuochi (1985) e Indagini sul crollo
(1989), prefate entrambe da Roberto Pazzi.
La scelta è stata compiuta e
allestita dallo stesso Agosti e approvata ancora una volta da Francesco Dalessandro, con la cura e la coerenza
che contraddistinguono il suo lavoro (il suo compito?) di tenere viva
l’attenzione verso l’opera dell’amico. Comprende importanti selezioni dalle tre
raccolte sopra citate, ma anche un’interessantissima anticipazione da una
quarta raccolta, L’Editto
finale, apparsa nel 2014. Scrive Agosti nel suo intervento che a caratterizzare la poesia di
Ricci è un processo di «attualizzazione della temporalità storica». Semplifico
un po’ rispetto alle dense pagine del critico e ai suoi autorevolissimi
riferimenti teorici, ma è evidente quanto la presenza dell’antico, in questo
poeta, sia di ordine per nulla strumentale, nel senso che egli non si serve
dell’antico come tema o peggio come moda, ma se ne lascia attraversare
portandolo nel nostro presente. Ogni riferimento storico non resta allo stadio
di referente culturale, ma permea dall’interno questa scrittura, la modula
incessantemente, ne fa, insomma, uno stile autentico e inusuale in coda al
secolo delle sperimentazioni, senza alcuna volontà programmatica, ciò che
avrebbe significato limitare il lavoro di Ricci a quello di un epigono o di un
neo-classico fuori tempo massimo. Basterebbe a testimoniarlo, proprio sul piano
dell’attualità, il ciclo dedicato a Giuliano l’Apostata, per farci accorgere
quanto nel moderno batta un cuore antico, e quanto l’antico fosse già, suo
malgrado, classico. Opportunamente Agosti richiama Housman e Kavafis. E Yeats
(ma vedrei meglio Rilke). Aggiungerei, senza allargare troppo il campo, almeno
Herbert.
Alessandro Ricci, I colloqui di
Elpinti, con un saggio di Stefano Agosti, Coup d’idée 2015, e. 14.00
Giuliano
Allora Giuliano, dopo
una notte insonne ma non
inquieta, all’alba quando
ogni tenda del campo
gli parve una duna come
ben oltre le sabbie,
infinite a perdita d’occhio,
lisciate
dal levante che le invadeva, le
issava
in un mare di chiaro:
là:
percorrendo piano il perimetro
senza il contegno del capo,
rispondendo con un sorriso
al saluto quasi commosso
delle guardie di turno,
insonnolite all’ora del cambio
- saluti e sorrisi così simili
a quel lontano silenzio vibrato
nell’aria ferma, così diversi
dall’uso, così
nuovi -, pensò alla
consapevolezza
e ai sussurri, a quella morbida
e rassegnata complicità,
pensò alle navi
che s’era bruciato alle spalle
i cui fumi forse si mescolavano
al velo gentile dell’enorme
giornata che si gonfiava,
ad altri pochi momenti,
in un solo ricordo adunati,
invadente ma non spietato,
senza rimpianti.
Poi,
pensando a tutti
i suoi uomini che di lì a poco la
tromba
avrebbe svegliati, si disse piano
che suoi erano pure l’errore e la
colpa
del destino che li attendeva, ma
non
del suo, cui mancava
appena qualcosa,
un gesto,
per la piena armonia.
Nessun commento:
Posta un commento