È appena apparso da peQuod il vero libro d'esordio di Davide Gariti, poeta che seguo da anni nella sua lunga, necessaria maturazione di scrittura. Sono contento di questo evento che segna per lui una tappa importante; sul valore del libro giudicheranno i lettori. Posso solo dire che di quella necessità si fa carico ogni verso. Posto qui la mia prefazione al volume.
Ogni verso di Davide Gariti si assesta su un equilibrio precario, forse pericoloso, come può esserlo l’affacciarsi su un precipizio. Si avverte, leggendo questo autore di lunga e meditata gestazione alla poesia, l’urgenza di mettere a fuoco una diffrazione nell’ordine apparente della realtà, di riconoscere un contrasto che a sua volta implica una mutazione palpabile, un dato sensibile emerso da quel misto di percezione e pensiero che fin dagli esordi con Due minuti all’ombra rappresenta il tracciato di questa scrittura. È il segno negativo, credo, ad attrarre l’osservatore, o comunque il segno che comporta una metamorfosi, forse attesa o altrettanto imprevedibile. Anche il titolo di questo nuovo libro – in effetti il primo a presentarsi più organico, più costruito – parla di questo. L’ala virata è l’immagine di una rotta frastagliata, o di una necessaria, impellente correzione, anche se il paesaggio non cambia nella sua sostanza di scenario dialettico, di rete complessa che il ritmo della poesia tenta di ricondurre a una forma di semplicità.
La lingua di questi componimenti è lì a testimoniarlo, come la loro forma, essenzialmente breve come l’istante di una sinapsi. «Mi sono trovato il mondo a parlarmi del mondo», recita l’epigrafe che fa da viatico a questa raccolta, e quel mondo si lascia cogliere nei suoi movimenti essenziali, nel variare delle ore, del clima, ma senza agire quella meditatio temporis presente ad altri autori. Tutto (e per tutto si intenda il fenomeno e la reazione del soggetto) si concretizza nell’attimo epifanico in cui la natura o la città si mostrano in un’improvvisa, finanche insolita nudità; ed è allora che ciò che può sembrare pacifico, o assodato, assume una più intima contraddittorietà. In questo senso Gariti si inserisce in un filone primario del nostro Novecento più speculativo, da Sbarbaro a Zanzotto a Fiori, solo per citare alcuni precedenti, ma non sorprende, ampliando l’orizzonte delle letture e degli autori con cui dialoga, trovare quasi in apertura un testo dichiaratamente ispirato a Seamus Heaney. Si tratta in ogni caso di poeti per i quali la visione del panorama naturale o urbano provoca spesso l’insorgere di una spinta metaforica, che sposta su un altro piano di significato la sostanza dell’immagine. Così ciò che viene offerto agli occhi del lettore si rende vivo, mobile e soprattutto dialettico, rispetto a quell’insieme di valori, di nozioni, di riflessioni e investigazioni sui quali il soggetto fonda le proprie consuete coordinate conoscitive; nel giro di pochi versi, se non in un unico verso, si rischia una piccola, ma quanto pregnante e definitiva vertigine esistenziale. La virata ha raggiunto il suo effetto.
Come l’immagine giunge a significare altro, così la metafora può insorgere dal tessuto stesso dei versi, attraverso un processo elementare di personificazione del dato naturale, oppure può lasciarsi agire da una similitudine. Gariti non si risparmia, in questo atteggiamento espressivo, al punto che il processo di traslazione del reale osservato può tranquillamente variare anche all’interno di una stessa poesia e con riferimento a uno stesso soggetto. Si prenda, ad esempio, Stanotte il vento inizia il suo percorso, uno dei testi più densi e riusciti, per accorgerci nell’immediato di quanto il poeta riesca a condensare un’urgenza immaginifica nello spazio di tre brevi strofe. Il protratto apprendistato ha dato i suoi frutti, se consideriamo che questa è, di fatto, la vera, compiuta opera d’esordio di un autore più che quarantenne. E se si paragona questa scelta (forse questo destino) al furore editoriale delle generazioni più giovani, si avverte come Gariti abbia coltivato nel profondo non solo la lezione dei maestri (penso anzitutto a Pasolini e Fortini, a lungo letti e assimilati), ma abbia anche affinato un proprio strumentario, all’insegna di quel sano artigianato che risponde in definitiva all’acquisizione di uno stile, e di una tecnica. Se la poesia, nel suo farsi, è anche necessariamente attesa, ci troviamo di fronte a un autore che proprio dell’attesa ha fatto la sua arma migliore.
Questo poeta si presenta oggi ai lettori che gli auguriamo in un abito espressivo ormai maturo. Il suo è lo sguardo del nostro presente. È da qui che Gariti osserva, indaga, si lascia penetrare dalle sue piccole visioni per restituircele nel fuoco delle sue, delle nostre attenzioni. Il suo andamento così convincente, assertivo, è il risultato di uno scavo (per questa via riconosciamo l’impronta dell’irlandese) nel cuore vivo dell’esperienza, per trarne ogni possibile grumo di significazione e passarlo, a sua volta, al filtro di quello stile duramente conquistato. Come per lo sviluppo di una lastra fotografica prima dell’avvento del digitale, Gariti sa di dover dosare con sapienza ogni liquido, ogni acido affinché l’immagine possa passare dal negativo della sua nascita interiore al positivo della pagina, e che tale passaggio si sia svolto lavorando sul nitore, sulla limpidezza dei contorni, si evince proprio dal grande lavoro di sottrazione a cui ogni singolo verso è stato sottoposto. È un lavoro che si compie nella camera oscura dello scavo. Poeta di necessità e della necessità, Gariti lascia al suo interprete la dimensione breve di una diffrazione discreta tra il come scrive e il cosa scrive. Vale a dire che i suoi temi sono perfettamente inseriti nella lingua che li conduce, dando così più che l’impressione di una certa coerenza e compattezza del dettato.
È proprio quella diffrazione lo spazio concreto, vitale, di questo libro. Il poeta vi introduce il suo lettore, lo rende partecipe dei minimi movimenti tellurici, invitandolo a seguirlo nello sterro che ricongiunge l’esperienza del concreto con quella dell’onirico: «Tutto intorno le ombre / parlano alle pietre / il ramo secco si nasconde, / dirupi di pensieri / ristagnano nel sonno». Dove siamo, in questa poesia, a quale punto della sua descensus ad inferos ci ha portato Gariti, e chi sono le «ombre» che parlano, e perché si sottrae alla vista «il ramo secco»? Il poeta vuole suggerirci che in realtà quelle due esperienze si sono coagulate, fuse in quella stessa della creazione linguistica, nel centro stesso dell’atto poietico. Così l’ala ha compiuto la sua virata; così la lingua ha portato allo scoperto, per converso, il nascondimento di un segno negativo, che resta invece come un indiscusso polo di tensione nell’economia della percezione e degli stati d’animo.
C’è poi, come punto nodale che non poteva rimanere inespresso, il tema amoroso. Anche qui la tradizione offre a Gariti un punto di sostegno, il reagente a pulsioni che non possono essere sedate. Nel fluire di un’espressività trascinante, naturalmente vocativa (c’è il tu dell’altro con cui sostenere il dialogo e le richieste) si riversano infatti tutte le dinamiche del gioco passionale e ogni agonismo implicito nel retaggio sentimentale pare placarsi, ma è, per l’appunto, un effetto della lingua, che induce piuttosto a uno stato di sospensione, di straniato kairòs, prima che tutto esploda in un «frangente»: quello che riporta il soggetto verso le sue consuete osservazioni, verso i suoi prediletti scenari urbani. Così si disegna una fenomenologia dello sguardo e gli stessi elementi del reale congiurano con il poeta nell’allestimento di quello spesso strato di figure, dietro le quali, alla fine, è Gariti stesso a inscenare le sue apparizioni e il suo sottrarsi.