Il prossimo 11 giugno Biancamaria
Frabotta compirà settant’anni e si congederà dall’insegnamento, almeno
formalmente, tenendo l’ultima lezione il 31 maggio presso l’Università di Roma
«La Sapienza», dove ha impartito i corsi di Letteratura italiana contemporanea
per un quarantennio. Argomento di quest’ultimo colloquio, che vedrà riuniti per
l’occasione studenti del triennio e del biennio magistrale, colleghi, amici,
ex-studenti, sarà ancora una volta Giorgio Caproni, l’autore a cui la poetessa
e studiosa ha dedicato le sue maggiori energie.
Da ex-studente poi divenuto
collega, non mancherò a questo invito speciale. In realtà, pur avendola avuta
come correlatrice della mia tesi di laurea, non ho mai sostenuto direttamente
esami con lei, ma la curiosità di allora mi spingeva a entrare anche nelle aule
altrui, e Biancamaria teneva quasi sempre corsi sulla poesia contemporanea, una
ragione in più per assistervi. Ricordo infatti la mia grande sorpresa, in una
tarda mattina della primavera del 1985, quando aprii la porta dell’aula dove
teneva lezione e mi imbattei direttamente in Giorgio Caproni, che leggeva per
noi studenti, in anteprima, alcuni versi da Il
Conte di Kevenhüller.
Quelle poesie sarebbero apparse in volume solo l’anno seguente.
Con le sua dita legnose,
affilatissime, il vecchio poeta sfogliava lentamente i foglietti che aveva
portato con sé: fogli A4 tagliati a metà, su cui aveva battuto a macchina i
suoi testi. Sembrava un cartomante che dispiegava i tarocchi sulla cattedra per
prepararci a qualche vaticinio tutt’altro che rassicurante, come sarebbe
accaduto con le poesie postume di Res
amissa; ma in quel momento la sua voce non ci faceva pensare alla “cosa
perduta”, a quanto stavamo già perdendo in quegli anni così apparentemente
rassicuranti quanto disastrosi, ma a un destino che si allontanava a ogni
sillaba, e che si allontanava in qualche spazio remoto del nostro futuro
insondabile. La Bestia prendeva forma nei nostri ragionamenti, nelle nostre
conversazioni, cominciava ad abitare le zone più intime della nostra
quotidianità. Una volta scoperta, ci avrebbe accompagnato per sempre.
Devo dunque a Biancamaria, fra le
altre cose di cui mi sento debitore con lei, la consapevolezza della Bestia e
la scoperta di un poeta come Caproni: ma il suo impegno nella letteratura del
presente si è speso in tante direzioni (qualche anno dopo, aprendo la stessa
porta, incrociai Francesca Sanvitale, con cui sarebbe nata un’ulteriore,
importante amicizia) che sarebbe difficile riassumere. Ogni volta che la poesia
ha potuto far sentire la propria voce di fronte al fango della politica, ai
mutamenti e alle urgenze sociali, Biancamaria Frabotta non si è mai sottratta e
ha pronunciato le sue parole; la sua presenza, fisica, in prima persona, ha
scandito i momenti essenziali di quasi cinquant’anni di poesia, e dunque di
storia privata e civile. Da Affeminata fino
a Da mani mortali quello che ci si
offre è un percorso di continua crescita e maturazione, di incessante
riflessione e assimilazione della realtà e dei suoi richiami; anche laddove la
sua poesia sembra ripiegarsi nella dimensione domestica degli affetti
coniugali, in realtà non cessa mai, con una sorta di sguardo strabico, a
mantenere l’attenzione sui fatti comuni.
Questa lezione di civiltà non
potrà certo esaurirsi tra gli applausi del 31 maggio. L’augurio, per lei, è di
garantire ancora la sua presenza, in questo avvenire pieno d’ipoteche, per
aiutarci a restare svegli, e sempre disponibili all’ascolto dei poeti; senza i
quali, naturalmente, la nostra coscienza risulterebbe impoverita, e anche il
nostro vissuto dileguerebbe sulla superficie di facili nostalgie, perdendo ogni
autentico spessore. Di ciò che siamo adesso, in ogni momento della nostra vita,
la poesia intuisce il segreto, sulla cui soglia il nostro dire consueto si
arrende. Al di là di quella resa sta la lingua dei poeti; sta la tensione con
cui il finito si riappropria dell’infinito. Sta, in definitiva, il dialogo col
mondo. Grazie, Biancamaria, per i tuoi settant’anni.