È in uscita da peQuod il nuovo libro di Luca Pizzolitto, Getsemani, con una mia prefazione che qui posto.
Fin dal titolo Getsemani, ultima impresa di Luca Pizzolitto, introduce il lettore nel vivo, nel cuore dolente della passione. Quello che accade nel giardino evangelico non è il momento che precede, non è la sospensione, né l’attimo salvifico; nella vicenda che ci è giunta non c’è spazio per il kairòs, per la quiete prima della tempesta, prima che tutto precipiti. Quella sosta, che intima alla preghiera e alla riflessione, segna in modo evidente e decisivo l’avvio di un processo irreversibile, di una catastrofe già scritta nelle parole dei profeti, di un dramma altissimo che segna l’avvicendarsi delle storie umane e le accatasta in un prima e in un dopo, fino a quel momento impensabili. Non c’è grazia alcuna in quanto sta per accadere, ma solo uno scempio gratuito, sproporzionato.
Nell’orto del Getsemani accade qualcosa di inaudito, ma in realtà accade per la seconda volta. Il deus absconditus si manifesta nella consapevolezza della prova imminente, ed è l’istante in cui la preghiera si fa supplica impossibile, tentativo di sottrarsi; è, in sostanza, il momento in cui quel dio ineffabile viene negato e la scena è interamente occupata dalla sua incarnazione, dal suo simulacro, che sembrerebbe ambire a una propria, improvvisa autonomia. Si è già verificato davanti al sepolcro di Lazzaro, a fianco del dolore dei parenti che prevale, con la sua forza affettiva ma anche con un inedito attaccamento terreno, sugli ideali di una vita celeste, sulla prospettiva di eternità. Perché richiamare tra i viventi chi ha già conquistato il dono più grande?
Sono i due momenti del racconto evangelico in cui la sofferenza, portata agli estremi, diventa il luogo limitrofo, la terra contigua tra vita e morte; e dei rispettivi ruoli si fa, senza necessità di investitura alcuna, regista. Perché, in definitiva, quella sofferenza è già parte di una necessità, anch’essa ineffabile; è la prima tappa di un itinerario che prevede la discesa catartica, infine la liberazione; nella terribile esperienza lì narrata, ma anche nella vita di ciascuno. Nessuna catastrofe è mai definitiva, suggerisce il Getsemani, anche nell’ora della prova più dura; ciò che dapprima si mostra in tutta la sua potenza distruttiva è in realtà il volto feroce di un evento rigenerativo.
Vale ricordarlo, anche di fronte a questo nuovo libro, che non a caso è introdotto da una dedica, una breve epigrafe a qualcuno che ha passato il limite della vita per resistere solo come memoria, ma che ha saputo accompagnare la parabola di una tempesta culminata infine in un approdo. E proprio alle figurazioni dell’acqua rimanda il titolo della prima sezione, presenti qui per metonimia. Geografia della sete è il periplo di una mappa soggettiva, che si costruisce paradossalmente intorno a qualcosa di cui si avverte l’assenza e a qualcuno che sta per lasciarci. Ma questo è il miracolo della poesia: dare nuova forma a una forma che si consuma, portare questa volta non la realtà sul piano della metafora, ma al contrario la metafora dentro la realtà: «vuota memoria dell’acqua / dimenticanza di piccole, / trascurabili cose». Il fluido divenire dell’elemento che per antonomasia identifica lo scorrere del tempo, la sua inesorabilità e per converso il suo ultimo effetto, la finitudine; con questi pochi, ma fondanti tratti, Pizzolitto tesse la sua elegia del vuoto, fa della malattia un confine, un discrimine tra due dimensioni, quella del dicibile e quella del silenzio, indotto e necessario, di fronte alla contemplazione della morte. Non è, del resto, quanto esperisce il dio incarnato in quel remoto orto? Alla terribile richiesta del Getsemani, che avrebbe annullato ogni palingenesi, fa eco l’urlo finale sulla croce. Il padre tace di fronte al suo stesso sacrificarsi, ma adesso, nel culmine del nulla, «non esiste parola». Che equivale a dire: non solo non c’è parola che possa essere pronunciata nel pieno della sua significazione, ma ogni parola che non sia passata al filtro rigenerativo della poesia rischia di suonare blasfema. In altri termini, la parola qui si ferma con inedito pudore sulla soglia del distacco; la vita s’incarica di proseguire. Il testo mima la richiesta di allontanare il male incombente, l’inverno simbolico in cui perfino il vuoto trama la sua «accorta / casualità».
La sequenza sovrappone quindi il male fisico alla passione evangelica, ma al contrario di quanto è predestinato al di là del tempo, qui dell’amore restano vaghe tracce. L’amato è costretto a svanire. Come l’uomo di Pascal caduto nella Storia e imprigionato nei suoi meandri, anche l’idea del divino precipita nella realtà del corpo come un «dio inatteso», ma solo per registrare, nell’impotenza di fronte alla necessità che tutto governa, che l’oggetto, la res extensa scompare nel vortice stesso del linguaggio, che è a sua volta materia. E il motore stesso della creazione poetica, proprio l’amore, rischia di rimanere privo di ogni referenzialità. Anche la «vita involontaria», in fondo, è un progetto del logos.
Nella loro densa concentrazione, i componimenti diGetsemani sono grumi di pensieri e di immagini che afferrano il lettore nella loro temibile consequenzialità. Sembra che un ferreo determinismo sovrintenda quest’ampia dinamica di oblio dello sguardo (la cosa che si sottrae per sempre) e di memoria della parola, al punto da lasciar cadere persino tutta la rete simbolica dell’acqua come elemento lustrale. Tutte le sue declinazioni, che si tratti di «neve» o di «pioggia», non soddisfano né l’anelito a una rigenerazione, né, tanto meno, il desiderio della durata; al contrario indicano una fine, il nulla dove non resta alcun segno. Quelle di Pizzolitto sono impressioni che si consumano nell’istante del loro rivelarsi: «La vita che attraversiamo / a mezz’ora dall’autogrill. / Fibra minuta, fragile. // Il nostro umano non restare, cadere, / farsi pioggia in aprile. // Lasciare». Ecco come una lontana eco ungarettiana può riverberarsi in un minimalismo quotidiano, abbandonando la divisa dell’originale: «fibra» che si riconosce, in uno stesso afflato unanimistico, come metafora vegetale di una fragilità condivisa.
Sulla scia di questa condivisione il poeta esplicita le fonti con cui dialoga: Lorand Gaspar, Philippe Jaccottet, tra gli altri, soprattutto i Salmi. E sono infatti questi ultimi i segni tangibili di una teleologia del male che percorre la vecchia e la nuova storia, come se l’episodio del Getsemani non ne rappresentasse il preludio al culmine, ma una forma di ripiegamento dell’io dentro sé stesso, che trascende il recente patto con la divinità e ne fa occasione di discesa tra le proprie ombre. La seconda delle quattro sezioni che compongono il libro, Nelle stanze senza fuoco, ribadisce nel titolo l’assenza dell’elemento a cui si riferisce ed è introdotta, ancora con una metonimia che passa attraverso la citazione, da uno degli effetti del ripiegamento, il pianto. Odisseas Elitis lo riecheggia proprio da una dimensione famigliare, affettiva. Il pianto ottunde la vista, prelude a una dimensione di oscurità. Infatti sono «Le strade sporche della / notte» a rappresentare un «passato / vile come un’ombra», che insegue il soggetto con l’inaudita e perseverante fedeltà di un cane. Nella povertà di questa luce appena accennata, nell’«indistinto pudore» che lascia scorgere i segni dell’abbandono, una vita intera è dismessa e insieme con essa il suo doppio filiale; il pianto invita al compianto.
«Ora il tempo / è un nome senza colpa». Come la passione spezza in due la Storia, così la morte spezza il legame fisico e la memoria delle azioni, la frantuma in mille rivoli, in un caleidoscopio impossibile da ricomporre in una sola figura. L’avverbio di tempo scandisce la terribilità di un presente che segue un passato sempre più indicibile, se non per le prismatiche rifrazioni della lingua della poesia. Getsemani è dunque il libro del dolore e del lutto, dell’espiazione definitiva, e soprattutto della proiezione tra le due rappresentazioni, padre e figlio, di uno stesso soggetto. E come nelle Scritture è solo il secondo che può dare voce al primo, qui si ripete la stessa dinamica, per cui l’identità è data dalla comunanza del logos che solo può oggettivare, sul piano dei significati, la responsabilità da una parte e il compito dall’altra. Il dio esiste e si rivela nella debolezza del figlio, infine nella sua accettazione del male («eterna resa»); lì una condanna a morte efferata, qui il lungo consumarsi del corpo, che lascia a chi resta una sete insoddisfatta.