sabato 23 gennaio 2016

Dalessandro vs. Shakespeare (e Rosselli)

Presentazione del volume Ladro gentile, edito da Il Labirinto, presso L'Aleph, nel cuore di Trastevere. Francesco Dalessandro si misura, questa volta, con quaranta sonetti del Bardo. Le sue esplorazioni nella grande poesia di lingua inglese proseguono, facendosi sempre più arrischiate. Shakespeare è un grande mistero, ancora per molti. Pensavo questo, ascoltando gli interventi di Domenico Adriano, di Silvia Bre e dello stesso Dalessandro: i due maggiori poeti dell'età moderna (per tacere di Omero in età antica) condividono un doppio mistero. Di Dante non abbiamo il testo, il manoscritto della Commedia, e su Shakespeare permangono molti dubbi circa la sua vera identità. Inoltre non sappiamo bene chi fossero i veri destinatari dei loro sentimenti: Beatrice, il giovane dei sonetti, infine la «dark lady» (forse una versione mascherata dello stesso giovane). Gli esperti ne dibattono ancora, e forse questo li tiene in vita (gli esperti, non le opere che vivono di vita autonoma, per fortuna). Adriano si chiede perché i sonetti hanno avuto tanto successo, da risultare l'opera di poesia più tradotta al mondo (potremmo accostare solo le poesie di Emily Dickinson, suggerisce Silvia). Nessuno si azzarda a rispondere, ovviamente, ma a questo punto il ronzìo si è imposto e più di un interrogativo mi gira in testa.
Forse proprio il confronto con Dante, e con Petrarca, maestro della tradizione sonettistica, mi fornisce qualche possibile chiave. Con quella invidiabile sicurezza e hybris che lo porta a farsi direttamente personaggio e a scendere vivo tra i morti, Dante porta  a compimento il percorso avviato da Omero e Virgilio per interposta persona: Ulisse ed Enea. E proprio Ulisse, la cui eccezionalità sta nel fatto di essere collocato da vivo nel più profondo inferno, senza passare attraverso la morte, è l'alter-ego più plausibile di Dante, con cui condivide il suo autentico peccato: non l'essere fraudolento, non l'aver ordito con l'inganno del cavallo la distruzione di Troia, ma proprio la hybris. Nel teatro di Shakespeare manca un personaggio e non potrebbe essere altrimenti, perché quel personaggio ne è l'attore: Shakespeare stesso. Dove può farsi personaggio, se non nei sonetti, scritti in prima persona o in seconda quando si rivolge all'amato? Insomma, l'osservazione dell'esperienza globale si tramuta in gran teatro di poesia, da una parte; dall'altra la poesia, la sua sinteticità, costringe il teatro a misurarsi con l'esperienza personale. I sonetti sono la prova del nove, la cartina di tornasole delle tragedie e delle commedie. Il loro successo sta nell'aver corroso dall'interno e in parte soppiantato il modello di Petrarca. Accade dal punto di vista formale, perché Shakespeare introduce due grandi formule: i grandi interrogativi iniziali, spesso retorici; la struttura causa-effetto (When… When… When… Then), ovvero quando si verifica un evento o si accende un pensiero, allora ne consegue necessariamente qualcosa. E poi Shakespeare riesce a dialettizzare, da gran moderno, ciò che in Petrarca resta sul piano delle opposizioni assolute e spesso inconciliabili («Pace non trovo e non ho da far guerra»). In questa resa dialettica, Dalessandro ha facile gioco.
Amelia Rosselli, ricordava Adriano, considerava «affaticate» alcune traduzioni dei sonetti. Di certo lo erano quelle di Ungaretti, che non ne esce bene, con il suo lavorìo forzoso e con una lingua che gli resta estranea, che non gli somiglia affatto. «Sgridai così la primaticcia viola», ricorda Dalessandro, perché tutto sommato resta nella memoria. Ma questa non era la lingua di Shakespeare e neppure quella di Ungaretti. Da un poeta che traduce un altro poeta ci sia attenderebbe una sorta di transfert linguistico, perché nella traduzione c'è sempre qualcosa di medianico. Il poeta che traduce "presta" la sua lingua.
Però la lingua dei sonetti ha lasciato più di un'impronta in Amelia Rosselli. Quando nel 1989 cominciai a stampare un piccolo quaderno di poeti, lei impose un titolo decisamente shakespeariano («Trame») e ci tenne a essere la prima autrice presentata. Ci inviò qualcosa di prezioso, una poesia da Sleep, tradotta non da Antonio Porta né da Emmanuela Tandello, ma da lei stessa. E ditemi voi se il sapore non è shakespeariano. È un testo datato 1965 e mi è, per questo, ancora più caro (sono nato quell'anno e mi piace con questo ricordare Amelia, ora che ci manca da vent'anni).

Must I tire my mind out
with absurd tyrannies, when
obviously the seaside roars
to tell far better stories
in a crash of lovingness?
Must I walk the plain or
the sea shore, with such
uncanny unreasoning, as
is yet mine? Must I wait,
stand, pray, and not answer
any of the bells tolling
pleasantly out to sea? When
the foremost bell rang sharp
out again or thrice she
drove the elephant by its
white tail to the sea shore
and had it grasp the single
utter meaning of the spell
the sea could cast.

Devo proprio sfinire la mia mente
con assurde tirannie, quando
ovviamente il mare ruggisce
nel dire assai più belle storie
in un fragore d'amore?
Devo proprio camminare per la pianura o
il bordo del mare, con tal
irreale sragionare, come
tal è ancora il mio? Devo proprio aspettare,
sopportare, pregare, e non rispondere
a nessuna delle campane risuonanti
piacevolmente al largo del mare? Quando
la più vicina aspra campana risuonò
due o tre volte essa
trascinò l'elefante per la sua
bianca coda al bordo del mare
e l'ebbe a comprendere l'unico
assoluto significato dell'incanto
il mare potesse proiettare.

(da «Trame», 1, settembre 1989).



martedì 19 gennaio 2016

Annalisa Manstretta, Gli ospiti delle stagioni

È appena apparso il nuovo libro di poesie di Annalisa Manstretta, per l'editore ATì. Si intitola Gli ospiti delle stagioni. Posto il mio scritto che lo accompagna come postfazione e auguro successo a questa nuova impresa.




Provo a riassumere il vasto bestiario alato che popola queste nuove poesie di Annalisa Manstretta: civette, gufi, aquile, falchi, poiane, gazze, cuculi, passeri, merli, cince, cardellini, fringuelli, rondini, corvi, codirossi. E i più domestici galli, galline, pappagalli. Se pure rinunciassimo a scovare, o solo a intuire la presenza delle creature di terra, basterebbero già gli uccelli a farci spostare continuamente lo sguardo tra l’alto e il basso, e infine verso gli orizzonti di questi paesaggi stagionali.
Una delle poesie si intitola Due e direi che questo è il numero che domina: siamo di fronte a un’opera decisamente binaria, agita da un doppio movimento interno. Così è dei nostri occhi, invitati spesso a frequentare dimensioni opposte, lontane, che la scrittura di questo libro rende invece complementari: dalla terra verso il cielo, dal cielo di nuovo verso la terra, come accade al merlo in Fuori di casa. Da una parte c’è il confronto, la dialettica tra l’immobilità e il divenire, che è nel grande apparato allegorico delle stagioni; dall’altra ci sono gli «ospiti», le figure ora rassicuranti, ma perlopiù inquietanti, che si muovono in una geografia prossima, riconoscibile, finanche abituale. Questi personaggi, reali o immaginari, animali di bosco, montagna e pianura, paesi, oppure costruzioni della mente, abitatori dei sogni, sembrano perfettamente a loro agio in questi versi: ne sono gli autentici inquilini. L’elemento umano, pure presente, occupa uno spazio, e un’attenzione, decisamente inferiori. Alla fine, nell’immensa sfera del cielo, non resta che la luna, o il sole: gli astri, per tradizione, testimoni e indifferenti.
Lo sguardo e le stagioni, dunque: ovvero lo spazio e il tempo. Con queste categorie, modulate attraverso le rappresentazioni della natura, Annalisa Manstretta disegna quadri mobili, ne cattura le inquietudini più interne, lascia affiorare da sotto l’apparenza del bozzetto, della sua pennellata ora diretta, ora impressionistica, il piccolo, ma significativo affresco delle tensioni che rendono vivo ed essenziale il suo rapporto con il mondo dell’esperienza. Un mondo che «ha dentro gli occhi della gente e non ci vede». La descrizione non resta mai, in ogni poesia di questo libro, un tentativo fine a se stesso. Il cambio delle stagioni, l’apparizione di un animale o di una nuvola, l’accendersi di un tramonto, le fasi della luna compongono nel loro insieme una vera e propria fenomenologia della percezione visiva, dominata però dall’impossibilità, dalla chiusura, dalla mancata reciprocità tra l’osservante e l’osservato: una «solitudine corale». Lo sguardo, proprio laddove sembra abbracciare una porzione ampia di realtà, è già imploso nei territori ambigui delle metafore e dei simboli, guarda al proprio interno, retroflesso tra i fantasmi. Questi paesaggi non hanno forma, simili alle nuvole cangianti che l’immaginazione legge come draghi; o meglio, la loro forma è il movimento, la metamorfosi, il superamento della forma stessa.
Anche il tempo è invertito, non è quello convenzionale che procede dalla primavera: la rinascita, la rigenerazione non sono qui il punto di partenza, ma una tappa nel percorso alterno tra luce e ombra, tra giorno  e notte. È il buio, infatti, a inaugurare questo libro: l’oscurità progressiva dell’autunno, la prima stagione evocata, che «ti accoglie già prima di cena» e allunga lo spazio delle notti. Uno spazio contrastivo: la vita animale riempie la scena, emerge in primo piano, ma il poeta registra tutta la propria inadeguatezza alla tenebra, al suo ritorno dopo i fasti dell’estate. «Non sono fatta per la notte», «Inadatta alla notte»: ammissioni che spostano anche il nostro consueto recinto simbolico verso un’inusitata zona d’accoglienza, verso regioni generose da cui penetrano altre ombre, altre rappresentazioni.
La sensazione è che la pluralità degli ospiti si condensi all’interno di un unico, vero ospite che qui, se la lettura è corretta, assume svariate identità, ora umane, ora animali, ora aeree e fantastiche. C’è il vento e il suo analogo femminile, la «venta»: ci sono, in perfetto parallelo, lupi e lupesse; e ancora i draghi, o la chimera che prende tutto il campo finora riservato alle specie del cielo, per poi scomparire lontano; e c’è anche un cacciatore, anzi il cacciatore, che penetra queste poesie come affacciato da una finestra kafkiana e ci immette fumi neri negli occhi, impedendoci ancora una volta di guardare e di essere guardati. A cosa rimandano tutte queste proiezioni di una sola, inquietante estraneità?
Mi rifaccio a un esempio distante, ma credo coerente con la spinta emotiva che regge la relazione tra soggetto e mondo in queste nuove poesie di Annalisa Manstretta. Nel bestiario assolutamente fantastico di Borges ci s’imbatte in una creatura particolare, il cui aspetto primario coincide proprio con l’invisibilità, con il sottrarsi allo sguardo. Il suo nome è inglese, perché Borges s’inventa di aver tratto questo strano animale da una leggenda dei boscaioli del Wiscounsin: si tratta dello Hide-behind. Nella solitudine di quelle foreste, gli uomini avvertono la sua presenza, sempre alle loro spalle, ma non riescono a scorgerlo, perché quando provano a voltarsi, anche con il più veloce degli scatti, lo Hide-behind è sempre più veloce di loro e resta per l’appunto invisibile. Percettibile ma non visibile: ciò che resta nascosto-dietro, come dice il suo nome. È una chiara allegoria di quel grumo inespresso di ossessioni, di ansie, di paure che domina ogni interiorità. Ma l’inadeguatezza alla notte che apre questo libro, quel buio che non lascia funzionare gli occhi, ancora pieni della luminosità estiva, non smuove forse altrettante ansie e paure?
Ogni stagione muove uno spavento. Voci di uccelli accompagnano la mutazione, «La paura non vuole concetti / va per variopinte figure aggressive / pesca nel medioevale, saccheggia i bestiari», scrive Manstretta. Ma sotto la superficie degli incubi, delle anamorfosi, il soggetto è chiamato a resistere, a dominarsi. C’è una carica gnomica che traspare a tratti e che riecheggia altre mostruosità, altri «giganti senza faccia»: no che non devi temere Lestrìgoni e Ciclopi, scriveva Kavafis, che con l’autrice condivide la riflessione sulla densità del tempo, e la tensione tra circolarità del mito e linearità della storia, della vita umana. Proprio questa tensione è il territorio dove le poesie di questo libro insorgono, poiché qui si interrompe il parallelismo fisiologico tra la sequenza delle stagioni e la crescita degli individui, il loro divenire. Anzi, quella linearità viene per sempre inscritta dietro il puntuale avvicendarsi di autunno e inverno, primavera e estate. Il paesaggio che si ripresenta non è mai lo stesso, ma tutt’al più un suo analogo, dal quale il soggetto è estraniato: la luna può tornare a brillare, ogni sera, mentre noi «spariamo di notte nelle nostre camere» e sono soltanto i nostri «panni leggeri» a dar conto che l’aria, tutt’intorno, si è fatta «più mite» (Panni leggeri).
Poco importa se aprile, come di fatto è, resta il più crudele dei mesi. Ogni stagione è un punto di svolta e vale per sé, di per sé. Sospeso tra flussi e immobilità, come tra Scilla e Cariddi, il soggetto può perfino immaginarsi di farsi lui stesso stagione, la quinta, quella fuori norma, extra-ordinaria: la stagione inattesa, senza occhi, non vista, e che non vede. Quella dove perfino la chiarità del sole risulta un inganno, un’apparenza e così lo spazio e il tempo, come già suggeriva Novalis in uno dei suoi inni. La stagione implicita, quella che ci riporta alla verità della notte.


giovedì 7 gennaio 2016

Per Michalis Pieris, una presentazione

Michalis Pieris è un poeta cipriota di lingua greca, conosciuto a livello internazionale e pubblicato in più paesi. Da noi si ricordano almeno il volume edito da Donzelli, nel 2008, per la cura di Paola Maria Minucci, Metamorfosi di città; e per quella di Gaia Zaccagni le due opere per teatro La casa e Per un po' di luce (Bulzoni 2013). Reader e performer instancabile, Pieris si è più volte esibito in Italia, e in una di queste occasioni ho potuto conoscerlo e mi è stato chiesto di presentarlo. Condivido con i lettori del blog quello che ho pensato sulla sua poesia, e in particolare sulle immagini della città.





Ci sono poeti che sono indissolubilmente legati a un luogo preciso, e che soffrono quando gli eventi gli impongono di lasciarlo; altri, invece, hanno un’anima apolide e se soffrono, quando soffrono, la loro sofferenza poetica sembra d’altra specie che non la malinconia. Da un estremo all’altro della nostra tradizione: Ovidio e Roma, il nomadismo di Ungaretti. E poi ci sono poeti che hanno con il loro luogo un rapporto tutto simbolico: non perché quel rapporto sia astratto o fondato su altro che non siano le emozioni e i sentimenti che fanno tutt’uno con la storia di quel luogo e con la nostra, ma perché, come poeti, sanno di vivere dentro una grande metafora. Per non allontanarmi troppo dalla lingua in cui si esprime il poeta che ospitiamo stasera, penso a Kavafis, che si accusa di portarsi dietro la città come una triste ossessione, che lo costringe all’immobilità, all’inerzia. E dunque, inutile spostarsi, nel tempo come nello spazio: la città, la nostra cupa ossessione, ci verrà sempre dietro e in qualsiasi angolo di qualsiasi strada altro non avremo fatto che sciupare la nostra vita. E c’è Ritsos, che dietro o sotto la città apparente, la città percepita dai sensi, intuisce “l’altra città”, quel luogo dove s’intersecano le solitudini, dimora dei poeti. È una waste land senza insegne, senza colori. Una strana luce, di caligine, lascia intravedere quei segnali sconosciuti, che sono le stesse parole della poesia. Tra di loro, Seferis, che percorre luoghi di rovine, città del passato e della memoria, luoghi del mito, con il passo cauto di chi ancora si dispone ad ascoltarne gli ultimi echi, ed è ancora e sempre la poesia a parlare: la poesia che è ovunque, nelle immagini che mutano eppure rimangono le stesse, poiché Ade e Dioniso sono la stessa cosa. Dioniso, il dio della metamorfosi, sembra il nume tutelare delle città di Pieris, di quest’ultimo apolide della nostra poesia, diviso – ma direi piuttosto proteso – tra la matrice ellenica, la sua isola, Cipro, che già tende verso un indefinito quanto traumatizzato oriente, e infine gli antipodi: l’Australia, un’isola-continente, addirittura, un’efficacissima metafora della lontananza e della vastità, pur essendo la vastità di un ennesimo deserto. Così non sorprende che come in un gioco di scatole cinesi, all’improvviso e per la sola forza dell’analogia, la città che Pieris ci sta raccontando e che ci invita ad attraversare con lui divenga un’altra città, magari remota, magari lontana e indecifrabile, magari soltanto evocata o accennata con minimi ma riconoscibilissimi indizi. E se ogni città ne contiene un’altra, e un’altra ancora, non è difficile comprendere che siamo coinvolti all’interno di un viaggio della mente, dove il ricordo si piega all’immaginazione, alla sua volontà di condurci verso quella città estrema, assoluta, infinita a cui Omero, e poi Kavafis, danno un unico, ma quanto suggestivo nome: Itaca, la terra dell’approdo desiderato, il miraggio finale, la velocissima, fulminante apparizione di una verità possibile prima che si aprano le porte dell’approdo più concreto, ovvero l’abisso dove abita Ade. E comprendiamo, infine, che tutte le immagini che come in un caleidoscopio compongono queste città altro non sono che la proiezione di quell’unica, autentica città fatta di carne e di emozioni, piuttosto che di calce e mattoni: il poeta stesso. E se la poesia, come vuole Seferis, è davvero ovunque, è piuttosto normale ritrovarla in ogni tragitto del poeta, come un luogo continuo, pervasivo: come una dimensione dove i significati che incessantemente inseguiamo, almeno per un attimo ci danno l’illusione di lasciarsi decifrare, di farci da guida verso un oltre che sembra spingersi – e spingere anche noi – sempre più avanti, e che invece spaventosamente arretra senza che ce ne rendiamo conto. L’inseguitore diventa l’inseguito, la città non è più il contenitore ma il contenuto, l’uomo non è più un semplice oggetto in movimento, colto in un momento imprecisato sul radar degli dèi, ma è un soggetto che sa di cercarsi e ha imparato sulla propria pelle, di viaggio in viaggio, di città in città, di casa in casa, ché altro non gli è dato di sapere.

venerdì 1 gennaio 2016

AILANTO n. 27 - Su Marcia Theophilo




L’XI edizione del Premio Città di Vercelli per la poesia civile è stata vinta da Marcia Theophilo. Non si può non condividere la scelta del comitato: quella della poetessa dell’Amazzonia è una voce ben presente nella cultura poetica europea da almeno un quarantennio, ormai, ed è una voce che si è sempre levata alta non solo per denunciare lo scempio ecologico, ma anche, e soprattutto, per conservare. Nella sua lingua particolare, mista di portoghese e idiomi della grande foresta, Theophilo compie da sempre una fondamentale operazione di memoria e di custodia di quelle microtradizioni e di quelle esperienze, fatte di rituali e di rapporto diretto col mondo della natura, che le civiltà indie perpetuano da sempre, e che oggi sono profondamente minacciate insieme all’ecosistema di cui fanno parte.
La poesia di Marcia Theophilo narra, in tutte le sue forme, proprio di questa straordinaria continuità, e contiguità, tra uomo e foresta. L’Amazzonia, nel suoi recessi più fitti e impenetrabili, è impensabile senza la presenza delle comunità che la abitano e che si relazionano con lei, dando luogo a miti e leggende che il poeta a sua volta incarna e riproduce per lettori lontani, forse troppo, ma che ugualmente chiedono di essere informati e sensibilizzati. Quella di Theophilo è una poesia che sconfina spesso nell’antropologia, ma sbaglierebbe chi si aspettasse di leggere una versione lirica di Tristi Tropici; perché solo la poesia ha il dono di dare conto della storicità di ciò che racconta e descrive, e così lo spaziotempo degli eventi rievocati si dilata sempre oltremisura, diviene riscrittura del mito stesso, attualizzazione che lo rende più prossimo, aprendo scenari impensabili per l’immaginario occidentale.
Promossa dal Festival di Poesia Civile legato al Premio, appare oggi una nuova edizione delle poesie di Marcia Theophilo per le Edizioni Interlinea. Nel nido dell’Amazzonia rimanda, già dal titolo, al cuore del problema ma anche alla visione metaforica della foresta come grande casa, come dimora di tutti, come luogo nel quale una diversa declinazione dell’umano si è offerta e può ancora offrirsi. Si tratta di un’antologia significativa del lavoro poetico dell’autrice, attraverso ventiquattro poesie tratte dalle sue varie raccolte edite, arricchita da un’appendice di inediti, da una nota introduttiva di Walter Pedullà e, per la prima volta, dal Messaggio che Theophilo ha indirizzato all’Unesco circa il dovere della salvaguardia che coinvolge tutti, scrittori, intellettuali, politici, affinché il «polmone verde» del pianeta non cessi di erogare ossigeno per l’intero genere umano. Un ossigeno che non è solo facoltà del respiro, ma spirito nel senso più puro, cultura che nasce e si propaga a fianco della natura stessa e che non smette mai di dialogare con il mondo vegetale e animale di cui si sostanzia. Per questo non possiamo non ringraziare Marcia Theophilo: questo ennesimo riconoscimento alla sua poesia e al suo impegno non è che piccola cosa rispetto a ciò che ci aspetta.

Marcia Theophilo, Nel nido dell’Amazzonia, nota di Walter Pedullà, Interlinea 2015, e. 12.00.

Noi alberi

Noi alberi viviamo di piogge
di rugiade eterne e delle brume
dei fiumi e degli oceani
di mattutini vapori
e delicate nebbie.
Durante il giorno il calore
dei raggi del sole
dilata i nostri corpi sublunari
che assorbono così, nel profondo,
la soavissima rugiada notturna.