Michalis Pieris è un poeta cipriota di lingua greca, conosciuto a livello internazionale e pubblicato in più paesi. Da noi si ricordano almeno il volume edito da Donzelli, nel 2008, per la cura di Paola Maria Minucci, Metamorfosi di città; e per quella di Gaia Zaccagni le due opere per teatro La casa e Per un po' di luce (Bulzoni 2013). Reader e performer instancabile, Pieris si è più volte esibito in Italia, e in una di queste occasioni ho potuto conoscerlo e mi è stato chiesto di presentarlo. Condivido con i lettori del blog quello che ho pensato sulla sua poesia, e in particolare sulle immagini della città.
Ci sono poeti che sono indissolubilmente
legati a un luogo preciso, e che soffrono quando gli eventi gli impongono di
lasciarlo; altri, invece, hanno un’anima apolide e se soffrono, quando
soffrono, la loro sofferenza poetica sembra d’altra specie che non la
malinconia. Da un estremo all’altro della nostra tradizione: Ovidio e Roma, il
nomadismo di Ungaretti. E poi ci sono poeti che hanno con il loro luogo un
rapporto tutto simbolico: non perché quel rapporto sia astratto o fondato su
altro che non siano le emozioni e i sentimenti che fanno tutt’uno con la storia
di quel luogo e con la nostra, ma perché, come poeti, sanno di vivere dentro
una grande metafora. Per non allontanarmi troppo dalla lingua in cui si esprime
il poeta che ospitiamo stasera, penso a Kavafis, che si accusa di portarsi
dietro la città come una triste ossessione, che lo costringe all’immobilità,
all’inerzia. E dunque, inutile spostarsi, nel tempo come nello spazio: la
città, la nostra cupa ossessione, ci verrà sempre dietro e in qualsiasi angolo
di qualsiasi strada altro non avremo fatto che sciupare la nostra vita. E c’è
Ritsos, che dietro o sotto la città apparente, la città percepita dai sensi,
intuisce “l’altra città”, quel luogo dove s’intersecano le solitudini, dimora
dei poeti. È una waste land senza insegne, senza colori. Una strana luce, di
caligine, lascia intravedere quei segnali sconosciuti, che sono le stesse
parole della poesia. Tra di loro, Seferis, che percorre luoghi di rovine, città
del passato e della memoria, luoghi del mito, con il passo cauto di chi ancora
si dispone ad ascoltarne gli ultimi echi, ed è ancora e sempre la poesia a
parlare: la poesia che è ovunque, nelle immagini che mutano eppure rimangono le
stesse, poiché Ade e Dioniso sono la stessa cosa. Dioniso, il dio della
metamorfosi, sembra il nume tutelare delle città di Pieris, di quest’ultimo
apolide della nostra poesia, diviso – ma direi piuttosto proteso – tra la
matrice ellenica, la sua isola, Cipro, che già tende verso un indefinito quanto
traumatizzato oriente, e infine gli antipodi: l’Australia, un’isola-continente,
addirittura, un’efficacissima metafora della lontananza e della vastità, pur
essendo la vastità di un ennesimo deserto. Così non sorprende che come in un
gioco di scatole cinesi, all’improvviso e per la sola forza dell’analogia, la
città che Pieris ci sta raccontando e che ci invita ad attraversare con lui
divenga un’altra città, magari remota, magari lontana e indecifrabile, magari
soltanto evocata o accennata con minimi ma riconoscibilissimi indizi. E se ogni
città ne contiene un’altra, e un’altra ancora, non è difficile comprendere che
siamo coinvolti all’interno di un viaggio della mente, dove il ricordo si piega
all’immaginazione, alla sua volontà di condurci verso quella città estrema,
assoluta, infinita a cui Omero, e poi Kavafis, danno un unico, ma quanto
suggestivo nome: Itaca, la terra dell’approdo desiderato, il miraggio finale,
la velocissima, fulminante apparizione di una verità possibile prima che si
aprano le porte dell’approdo più concreto, ovvero l’abisso dove abita Ade. E
comprendiamo, infine, che tutte le immagini che come in un caleidoscopio
compongono queste città altro non sono che la proiezione di quell’unica,
autentica città fatta di carne e di emozioni, piuttosto che di calce e mattoni:
il poeta stesso. E se la poesia, come vuole Seferis, è davvero ovunque, è
piuttosto normale ritrovarla in ogni tragitto del poeta, come un luogo
continuo, pervasivo: come una dimensione dove i significati che incessantemente
inseguiamo, almeno per un attimo ci danno l’illusione di lasciarsi decifrare,
di farci da guida verso un oltre che sembra spingersi – e spingere anche noi –
sempre più avanti, e che invece spaventosamente arretra senza che ce ne rendiamo
conto. L’inseguitore diventa l’inseguito, la città non è più il contenitore ma
il contenuto, l’uomo non è più un semplice oggetto in movimento, colto in un
momento imprecisato sul radar degli dèi, ma è un soggetto che sa di cercarsi e
ha imparato sulla propria pelle, di viaggio in viaggio, di città in città, di
casa in casa, ché altro non gli è dato di sapere.
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