Era il 1994, a Roma. Un pomeriggio di prima estate al Teatro delle Arti, per un grande spettacolo di arte, danza, poesia, musica. Eravamo seduti vicini: accanto a me, a destra, c'era Giovanni Giudici, che ogni tanto guardava Attilio di sottecchi; dall'altra parte, alla sinistra di Attilio, c'era Maria Luisa Spaziani. Eravamo tutti in prima fila.
Attilio era letteralmente apparso in platea in un vistoso completo bianco di lino, i capelli color arancione. Splendido, provocatorio, coerente con sé stesso fino in fondo. Con la sua corporatura alta e un po' dinoccolata, mi ricordava Auden negli anni di Ischia. Il suo sguardo e la sua andatura, un tutt'uno di scanzonata libertà. E di ironico, sapiente, sornione distacco dalle cose. Come nella sua poesia, che però tradiva un fondo di disperato sconcerto, di meraviglia dolente.
Non a tutti piaceva, Attilio. Tra i poeti blasonati era ingiustamente considerato un outsider irriverente. Lui stesso amava definirsi un "vice-poeta". A me i suoi versi erano sempre piaciuti e qualche anno dopo, vincendo le resistenze di alcuni giurati, riuscii a fargli avere il premio Mondello per la poesia. Mi piaceva la sua leggerezza pensosa, mi prendevano le sue rime amare e giocose.
Quel pomeriggio di troppi anni fa, tra un'occhiata e l'altra di Giudici, Maria Luisa non si lasciò scappare la provocazione. Lo guardava con una certa aria di sorpresa, come se lo trovasse, in quel vestito così vistoso, elegante, improvvisamente imborghesito. «Ma tu non facevi il poeta maledetto?» gli chiede all'improvviso; e lui, informato che lei aveva passato l'inverno calcando le scene con Francesca Benedetti, recitando nella propria pièce La vedova Goldoni, rispose: «E tu non hai fatto la puttana?»
Non fu tanto questo a costringermi ad allontanarmi, non potendo trattenere le risate, ma la faccia sconvolta di Giudici, ignaro del precedente. Maria Luisa sapeva intendere - e accettare - battute e motti di spirito che lei stessa sapeva accendere. Quello che mi attraeva, e che a fatica ritrovo se non in questo e in altri episodi lontani, è la velocità dell'ironia, in un mondo sempre più veloce e sempre meno disposto all'attenzione. Anche se si tratta solo di ridere. In questo mondo Attilio era uno straniero venuto da territori dove nessuno ha ancora voglia di avventurarsi. Territori della leggerezza, una leggerezza che lui poteva condividere con Palazzeschi, da un capo all'altro del Novecento. quella che ci fa volare e sorvolare sulla pesantezza delle cose e ce ne dà, dall'alto, la giusta misura. La verità, diceva Savinio, è spesso in superficie, quella superficie a cui Attilio ha dato la forma delle sue poesie.
sabato 24 giugno 2017
sabato 17 giugno 2017
venerdì 16 giugno 2017
Intervista a Tp24
Posto il testo di un'intervista di Marco Marino apparsa oggi sul sito Tp24:
http://www.tp24.it/2017/06/16/cultura/senza-lettura-poesia-siamo-solo-analfabeti-ritorno-parla-roberto-deidie/110397
http://www.tp24.it/2017/06/16/cultura/senza-lettura-poesia-siamo-solo-analfabeti-ritorno-parla-roberto-deidie/110397
1. Nel 1989 debutta come poeta sulla
rivista «Tempo presente»: alla sua attività in versi ha sempre affiancato il
rumore sottile della prosa ovvero l’opera di critico e accademico. Quanto
il fare poetico ha influenzato il suo modo di scrivere e intendere la critica
letteraria? E viceversa, il mestiere di critico ha avuto ripercussioni sulle
sue sillogi?
MI hanno rivolto spesso questa domanda, e
mi accorgo che nel tempo le mie risposte sono cambiate. Da ragazzo sostenevo di
coltivare una sorta di schizofrenia, tenendo le due attività ben separate,
considerando l’una una vocazione e l’altra un mestiere. Quando cominciai a
insegnare, intorno ai trent’anni, ripetevo a tutti di sentirmi un poeta
prestato all’università, e in fondo continuo a pensarla così: non ho mai voluto
prendere dimestichezza con certe dinamiche accademiche, con la burocrazia, con
l’esercizio del potere. Semplicemente non m’interessano. Mi piace ancora
leggere, studiare, aggiornarmi, piuttosto, e mantenere un rapporto vivo con gli
studenti. Oggi mi accorgo che la mia scrittura critica si è fatta sempre meno
tecnica e più discorsiva, senza perdere in rigore, ma non saprei dire se questo
sia un effetto della vicinanza della poesia. Quello che posso dire è che i
critici che ho amato di più sono stati tutti poeti: da Auden a Brodskij, a
Walcott, e per restare in casa nostra, Giudici, Fortini, Raboni. Le parole che
mi erano necessarie le ho trovate nelle loro pagine in prosa, non negli
esercizi dell’accademia. Rileggo sempre con profitto le pagine di Brodskij su
Rilke e su Frost, per esempio: per me rappresentano un vertice
dell’interpretazione. Al contrario, la mia attività critica non ha riguardato
solo la poesia: gli affondi più significativi sono dedicati ad autori in prosa
come Calvino. Eppure una lezione di stile e di rigore penso mi sia venuta,
anche da questi prosatori: la poesia non deve nutrirsi soltanto di poesia. Per
il resto è evidente che certe venature di pensiero che percorrono i miei libri
in versi collimano spesso con le mie riflessioni sul lavoro altrui: un poeta
che fa critica non può fare a meno di esprimere una poetica.
2. Qualche mese fa, a seguito di un
articolo di Franco Manzoni su la Lettura n. 270, è scoppiato
un animato dibattito sul verificarsi o meno di un Rinascimento della
poesia nel contemporaneo panorama letterario ed editoriale italiano.
La questione sembra ormai essere stata superata senza, però, alcun tipo di
risoluzione. Lei cosa ne pensa a riguardo? È davvero in atto un Rinascimento
della poesia?
Come vede resto ben lontano da certi
dibattiti. A me sembra piuttosto che da una ventina d’anni si sia alzato un
gran polverone. Da una generazione di pochi e parsimoniosi poeti, come la mia,
si è passati a un ritorno prepotente alla scrittura in versi, col proliferare
di piccoli editori e riviste online. E i giovani corrono a farsi pubblicare il
primo libro. Ma quando tutti sono poeti (basta entrare in facebook per
rendersene conto) nessuno lo è più davvero, e i pochi che hanno qualcosa da
dire faticano a farsi vedere. Aspettiamo che la polvere cali e potremo
riconoscere i libri destinati a durare. Siamo passati a una diversa sociologia,
nel senso che la società letteraria che garantiva certi esordi non esiste più: oggi
mi pare sia in atto una pratica diversa, un mercato del compiacimento, e
nessuno sa più giudicare. Così come nessuno ha più l’autorità per garantire e
promuovere. Insomma, non si fa più gavetta: a vent’anni si può già aver
pubblicato due libri, essere redattori di tre riviste, dirigere una propria
collana e magari millantare una candidatura al Nobel ed essere pure presi sul
serio. È una situazione che si commenta da sé. A soffrirne, soprattutto, è la
lingua della poesia.
3. Per molti la Sicilia è un'isola da cui
partire - e sovente sfuggire - per lei, invece, è stata un luogo di approdo.
Poco più che trentenne lascia Roma per trasferirsi nella città di Palermo, che
arriva a considerare come una sorta di terra promessa. Da dove è
sorto questo sentimento e in che modo tale legame con la terra siciliana
trapela nella sua opera letteraria?
La Sicilia è stata una lenta conquista,
un’esplorazione costante del territorio. Gli incontri non sono sempre stati
felici, invece. Sono venuto qui per lavoro, quando dopo anni di borse di studio
e precariato entrai in pianta stabile all’università di Palermo: allora non
c’erano i voli low-cost e il pendolariato da Roma mi pesava molto. Così decisi
di trasferirmi; presi una prima casa in affitto, dietro il teatro Massimo, poi
un’altra dalle parti di piazza Marina, vicino a quella che infine ho comprato.
Ho cominciato a frequentare gli scrittori palermitani, da Alajmo a Conoscenti
alla Santangelo; Sellerio è divenuto il mio editore per la saggistica. Ho
cercato di ambientarmi, ma non ho mai perso il contatto con Roma, dove torno
appena posso: il mio vero lavoro, la poesia, è rimasto lì. A Palermo, e ad
altri luoghi siciliani, ho dedicato diverse poesie raccolte in Solstizio. Sì, direi che la luce di quel
libro è una luce mediterranea, isolana. Questa potrebbe essere una terra
bellissima, se si cominciasse davvero ad amarla: non parlo di quel che resta
del passato, sarebbe troppo semplice. Parlo del presente, del paesaggio di
oggi, di quel che abbiamo sotto gli occhi, del tanto che si dovrebbe e potrebbe
fare. Ma i siciliani, come lei dice, da qui vogliono solo scappare.
4. Il premio Nobel Odisseas Elitis diceva
che la poesia è «l'unico luogo in cui la forza del numero non ha potere»,
eppure gli ultimi dati Nielsen sulla poesia in Italia e sui suoi lettori ci
descrivono una realtà completamente ribaltata, in cui il numero dei poeti supera
di gran lunga il numero di libri di poesia venduti: è possibile trascurare tale
squilibrio? A cosa lo imputa?
È quello che le dicevo prima, ma stiamo attenti
a non scambiare la causa con l’effetto. A monte di questo fenomeno c’è un
pericoloso, micidiale connubio di dilettantismo e narcisismo. E di
disinformazione. Un tempo avrei imputato la responsabilità anche ai media, che
hanno sempre trascurato una seria informazione sulla poesia; oggi mi rendo
conto che sono oberati di richieste di recensioni e va da sé che non c’è spazio
per tutti, ed è divenuto sempre più difficile scegliere. Io stesso ricevo molti
libri a cui non sempre riesco a stare dietro, nonostante la curiosità; e la
vita a cui spesso siamo costretti sottrae spazio all’ascolto dei poeti, che
richiede attenzione e tempi lunghi. Quanto al mercato della poesia, è ovvio che
sia composto perlopiù di poeti; a chi altro interessa un genere che ci
costringe a tornare fruitori attivi, nell’epoca delle immagini? Un genere che
la scuola ci insegna a odiare, piuttosto che amare? C’è una totale
diseducazione alla lettura, quindi non dobbiamo sorprenderci. Ma senza lettura,
senza poesia, siamo solo degli analfabeti di ritorno.
5. Quest’anno si celebrano i quarant'anni
dalla scomparsa del poeta Sandro Penna. Lei ha curato per i Meridiani Mondadori
un volume - in uscita il 13 giugno – che ne raccoglie le poesie, le prose e le
pagine di diario, restituendo ai lettori la possibilità di riscoprire un
gigante, quasi dimenticato, del nostro Novecento: potrebbe parlarci del lavoro
che ha portato alla realizzazione del meridiano?
È stato un lavoro durato ventisette anni,
fatto di letture, approfondimenti, e naturalmente di esplorazione dell’archivio
del poeta e di ricerche, che mi hanno portato in altre città, soprattutto
Milano. Più mi addentravo in Penna più mi convincevo che dal punto di vista
editoriale qualcosa non mi tornava, sorgeva in me il sospetto che quel Penna non coincidesse del tutto con
l’immagine che il poeta voleva lasciare di sé. La conferma l’ho avuta
ricostruendo la storia delle sue edizioni, nelle cui vicende sono sempre
subentrate, come consulenti o editors, persone esterne. Insomma, Penna non è
responsabile di nessuno dei suoi libri, a parte un’antologia del 1973, che
nessuno ha più tenuto in considerazione. Sono ripartito da lì, con tutte le
cautele possibili. Perché Penna è un gigante, come lei dice, ma anche un
oggetto fragilissimo, che rischia di frantumarsi nelle nostre mani appena
proviamo a stringerlo. In realtà non è mai stato dimenticato, ha sempre avuto
lettori forti e autorevoli: eppure una buona parte della sua fisionomia, e
della sua formazione, restava ancora in ombra. Spero che questo Meridiano aiuti
a definirlo meglio, suggerendo nuovi filoni d’indagine.
giovedì 15 giugno 2017
AILANTO n. 44 - Su Luca Minola
Leggo
Pressioni, il libro di Luca Minola
che Maurizio Cucchi ha accolto nella sua collana «I Giardini della Minerva»,
per le edizioni LietoColle. Così Cucchi ci introduce a questo poeta: «La luce
parrebbe porsi come un elemento strenuamente ricercato nella poesia di questo
giovane autore di cui emergono, già a prima lettura, la capacità di controllo
stilistico e formale, la sobrietà del linguaggio, il desiderio di penetrazione
di un reale sempre incerto, ambiguo, oscillante». È quanto si potrebbe dire di molti
altri autori della generazione di Minola, che
Cucchi da tempo monitora con attenzione. Ma questo autore non ha timore
di tornare a esibire, al contrario dei suoi coetanei, referenti chiari e non
certo prossimi, come Montale e Porta rievocati in epigrafe, ad apertura di
libro. È un viatico interessante – e importante – non solo per comprendere Pressioni, ma anche per ristabilire un
contatto, consapevole e privilegiato, con la poesia del Novecento, spesso letta
come un serbatoio a cui attingere, nel migliore dei casi.
Che
Minola ami la poesia, che la coltivi – come lettore avveduto, anzitutto – è
evidente dal rigore della sua scrittura. La lezione dei maestri per lui non è
solo una questione di immagini, ma anche di stile: «Gli stili ci precedono,
temuti e assenti», dice in un verso. Lavorano sotterraneamente, sono anche un
pericolo. È un verso che ribadisce una sorta di datità delle cose, un andamento
concettuale quasi apodittico, che scandice certezze incontrovertibili. Nelle
forme brevi, dove riesce meglio (in quelle più lunghe a volte il fraseggio
inciampa, ma si tratta di minime messe a punto), ogni incipit ci parla di
questo. Propongo una rapida carrellata: «Le attese hanno nomi precisi»; «Il
campo era sterminato»; «Le pupille non trattengono, rilasciano» (bell’indizio
di poetica, questo); «Le sostanze sono chiare»; «Il sermone è in silenzio»; «La
pace consuma». «E quel che è», avrebbe detto un poeta come Fried. Ma questa
datità è smossa, agita, per usare un termine a cui Minola stesso allude in
queste poesie, da un «delirio d’immobilità». Montale è presentissimo, come è
presente anche la sua ricerca di una «maglia rotta», o con Porta, di «un foro
nella tessitura celeste». È una datità senza tempo, passato e futuro implodono
nel presente come implodono le immagini, così essenziali, stilizzate in una
contrazione, in una sintesi estrema. Il fraseggio di questi componimenti più
brevi ricorda molto quello del primo Neri, così spiazzante nella sua
asciuttezza, ed è questo l’andamento che Minola predilige; ciò che nei
componimenti più lunghi talvolta oscilla, qui si mostra invece con indiscussa
compattezza.
La
luce a cui allude Cucchi sembrerebbe dunque una luce della certezza, se non fosse che
queste tarde epifanie sfuggono al divenire, per astrarsi da una storia personale.
A questi fotogrammi implosi Minola dà un nome preciso, un nome che è il titolo
stesso del libro, perfettamente coerente, e della sua breve, fulminante sezione
centrale: la sua è una poetica della «pressione», che pesa sulla percezione
delle cose, sulla loro acquisizione psicologica, come pesa, concretamente,
sulla «materia» (non a caso il titolo della sezione da cui Minola riparte,
passata la boa del centro). In questo stato di «attesa» (montaliana, ermetica,
e più indietro già simbolista) Minola sceglie di sostare, prima che il tempo
riprenda il suo corso vertiginoso, per condividere lo spazio minimo di un
vissuto osservato e trasfigurato nella severità della poesia.
Luca Minola, Pressioni, LietoColle 2017, e. 13.00.
Apre
la sua vela una giornata di calore:
svela
i segnali, le ritmiche delle gradazioni,
i
lampi come sogni ripuliti.
domenica 11 giugno 2017
AILANTO n. 43 - Su Eleonora Rimolo
Da
dove viene la forza spiazzante dei versi di Eleonora Rimolo, dove ha saputo
forgiare il loro scoppiettante rigore, costringendoci a entrare in un vero e
proprio caleidoscopio di metafore, di immagini che rovesciano il nostro senso
abituale delle cose? In questa Temeraria
gioia (così, senza alcuna preoccupazione del rischio, né dell’autorevole
citazione oraziana, e neppure di esibire, fin dal titolo, le corde ossimoriche
della sua ispirazione), questa giovane autrice, nata nel 1991, percorre
territori ambigui e infidi come quelli dell’essere, dell’eros, della stessa
scrittura, disegnando un paesaggio in perenne moto verso la sua caducità, la
sua finitudine, la sua morte. La presenza della morte è continua, nelle poesie
di questo libro; e il suo pensiero, o il suo passaggio, definiscono
davvero «temeraria» ogni pulsione di possesso (forse è questa la declinazione,
il significato autentico della «gioia») che non si pieghi, per l’appunto, alle
necessità della poesia. Eleonora osserva poeticamente il mondo, fa accomodare i
suoi lettori tra il presente e il passato remoto, i due tempi visibilmente più
frequentati in questi versi; ovvero tra il commento e il ricordo, tra
l’esperienza e il pensare l’esperienza.
Tra
questi due poli, tutt’altro che scontati, si agita un microcosmo poetico, fatto
di labili, improvvise apparizioni, entrate in scena, piccoli colpi di sorpresa.
Sono accenni che testimoniano, a dispetto della ricchezza retorica, della
potenza delle immagini e del dettato, una poetica tutto sommato votata alla
parsimonia, nel senso dell’essenziale. Non a caso, neppure dopo un mese
dall’apparizione del libro, Rimolo è tornata sui suoi versi, congedando questa
«seconda versione aggiornata». Non c’è bisogno di dire tutto, o di dire troppo:
questo trobar clus, che risente con
evidenza dichiarata dell’influsso di un poeta come Milo De Angelis, a cui mi
sentirei di aggiungere Amelia Rosselli, ci restituisce un ermetismo di ritorno
che poggia su un indiscusso gradiente orfico. I segnali ci sono tutti, perfino
il «porto segreto» da cui non si riesce a salpare. Ma – questo è il merito –
non si tratta di un orfismo di maniera. Eleonora Rimolo sa costruire una casa
solida, circoscrive, identifica un territorio espressivo più che legittimo. E
il mito, la cui presenza viene spesso a chiudere i testi, soprattutto nella
prima parte del libro, non è un suggello facile, un modo come un latro per
terminare il discorso, ma al contrario apre a nuove, inaudite dimensioni, che
creano sì un vortice di echi letterari, e insieme evocano quell’altrove dove la
gioia è un «bordo tagliente», dove si può romanticamente naufragare.
Così,
rifuggendo le tentazioni e le lusinghe di un «tu tentacolare», forte di una
gioventù ancora in grado di tenere alte le tensioni, e di una maturità che sa
contenerne i picchi espressionistici per conservare la verità di ogni dramma,
Rimolo fa di questo «cumulo sciolto di storie» una materia ancora viva, la cui
«violenta gratitudine di morire» si traduce nella «grazia infinita / del
finire». Dolente, coraggiosa presa di coscienza questa «temeraria gioia», e per
questo ancor più necessaria.
Eleonora Rimolo, Temeraria gioia, con una prefazione di G. Sica e una postfazione di
F. Iannone, Ladolfi 2017, e. 10.
Incombe
la pagina, chiede di essere svolta,
eppure
troppe sono le curve vanescenti della visione,
parecchie
marce distorte conducono alla sciagura
del
non aver abusato della rosa, dell’averla
lasciata
lì, tra il rigagnolo e la riva, cenerognola.
lunedì 5 giugno 2017
Raccontare Sandro Penna: dove comincia l'infinito.
Martedì 13 giugno esce in libreria il Meridiano Mondadori Poesie, prose e diari di Sandro Penna, a mia cura, Cronologia a cura di Elio Pecora. Posto qui le prime pagine del mio saggio introduttivo, in una versione precedente a quella che leggerete nel volume.
C’è un tempo verbale che non si trova nelle grammatiche dell’italiano,
ma che esiste nella lingua dei poeti. Questo tempo è l’infinito anteriore. La
sua prima caratteristica è quella di essere anche uno spazio, come sostiene il
poeta Charles Simic: quello «dove comincia l’infinito».
In realtà ogni verbo, indicando un’azione che si svolge in un tempo,
allude anche allo spazio di quell’azione; è quanto accade se siamo dei buoni
traduttori del discorso altrui, ovvero se riusciamo a visualizzare le immagini
contenute nelle parole, a proiettare nella nostra mente la pellicola che il
nostro interlocutore sta svolgendo per noi. Ogni linguaggio ne porta un altro,
dietro di sé: possiamo ascoltare con gli occhi, vedere con le orecchie. Se dico
che Mario mangia una mela non riesco a restringere il campo visivo che mi si
apre nella mente solo a una serie di morsi. Dov’è che Mario ha preso quella
mela? E dove è andato a mangiarla? Un solo verbo contiene una piccola storia.
Invece l’infinito anteriore non allude: è
uno spazio, segnato da un’infinita distanza nel tempo. Quando ci coniughiamo
all’infinito anteriore, la nostra azione diventa infinita, ovvero assoluta: ab-soluta, nel senso che scioglie i
legami con qualsivoglia coordinata precisa e si proietta nella dimensione
inattuale della poesia, quella dimensione per cui ciò che un testo racconta si
ripete, “vive” a ogni nostra rilettura e riesce a parlarci oltre il proprio
recinto di realtà.
Ma quale può essere la dimensione in cui questo tempo-spazio verbale
si forma? Da dove proviene? L’infinito anteriore è un verbo del mito, dunque
non ha bisogno di essere espresso necessariamente attraverso il modo infinito;
nel suo narrarsi, il mito è una storia come le altre, ma è anche la culla di
ciò che ai nostri sensi si offre come “anteriore”. Lo è sulla grande scala dei
racconti e delle leggende che ci vengono dall’antico, come lo è per quello che
riguarda la nostra personale quotidianità, il nostro giorno-per-giorno. Per
ciascuno di noi l’anteriore di cui possiamo avere coscienza coincide
inevitabilmente con i territori indefiniti dell’infanzia: per ciascuno di noi
l’infanzia, nel bene e nel male, rappresenta una regione mitica, materia della
memoria, base su cui allestiamo tutte le nostre successive mitografie. La
nostra più tangibile anteriorità è lì, nelle stanze affettive dei nostri
ricordi, di ciò che ci sembra aver vissuto: anche se la memoria, come sappiamo
senza scomodare fin d’ora Proust, prende le sue strade come vuole. Una memoria
è sempre affettiva, e in quanto tale diventa un formidabile filtro deviante
rispetto alla verità e alla concretezza del passato, come sosteneva Leopardi.
Quando il nostro passato diventa “anteriore”, allora si è consegnato al mito:
subisce, cioè, il passaggio attraverso quel filtro, così ne risulta – in tutto
o in parte – modificato, rielaborato. L’invenzione mitica corregge in una
direzione piuttosto che in un’altra le nostre esperienze, ne muta la componente
gioiosa o dolorosa, rovescia le proporzioni tra le attese e le delusioni, il
livello di fallimento o di gloria. Tratta tutto questo come ingredienti,
“funzioni” di una narrazione a venire. Interviene, infine, sulla percezione
degli spazi.
Anche il presente talvolta rimanda all’infinito, e il presente
infinito dei poeti parla di solito al futuro. Come è possibile che qualcosa di
anteriore permanga nel tempo e si affacci sul futuro? L’infinito non è solo la
qualità di ciò che non ha fine, limiti, confini (che pure sono concetti diversi
e non proprio sinonimi, anche se entrambi si annullano di fronte all’infinito):
è invece ciò che accade ogni qualvolta noi sappiamo rievocarlo. Per questo è il
tempo della poesia, e la poesia, quando si affaccia sul passato, prossimo o
remoto che sia, lo fa soltanto per volgersi al futuro.
Rievocare il passato può sembrare un’azione banale o in alcuni momenti
consolatrice; ma a nessuno, tanto meno a un poeta, interesserebbe affogarsi
nella nostalgia. Eppure l’esempio a cui penso ha proprio a che vedere con
l’etimo di questo sentimento: nostos,
il ritorno. Questo desiderio di ritorno guida il personaggio al di là di ogni
impedimento, umano o divino: Ulisse verso Itaca. Ma quel ritorno è materia del
mito. E della poesia. Non per la sua durata, per le peripezie e le avventure
che ne scandiscono e ne segnano il lunghissimo tempo; e neppure per gli
stratagemmi, i travestimenti e le metamorfosi, o la strage che verrà compiuta.
Ulisse torna nel punto originario della sua vita, alla sua casa-talamo
costruita intorno a un ulivo, al cuore della sua affettività. Ad accoglierlo è
il pastore dei porci, così che il primo ritorno riguarda, neppure troppo
simbolicamente, la terra, alla quale resta sempre saldo il pensiero; a
riconoscerlo, sotto gli stracci con cui Atena ne dissimula il ritorno, è
proprio la sua nutrice. Il suo futuro coincide dunque con il suo passato.
Davanti a Euriclea c’è un solo tempo che contiene tutti gli aspetti del verbo:
passato, presente, futuro sono un solo vortice che lascia cogliere,
simultaneamente, le molte immagini del protagonista. Davanti alla nutrice
Ulisse è uomo maturo, è vecchio ed è bambino.
Quando finalmente conquista il suo futuro, uccidendo gli occupanti,
ritrova proprio il suo passato, il passato che ha relegato in una zona intima e
profonda, ben prima che iniziassero le storie delle sue imprese a Troia; quelle
storie che sono già materia di poesia e che ascolta in casa di Alcinoo. Alla
corte dei Feaci a stento ha dichiarato il suo nome, ha celato la sua identità,
fin quando non lo ha preso il pianto, all’ascolto degli aedi che proprio quelle
storie vanno rievocando. Sulla scia di questa compassione la memoria avvia il
racconto, con la partenza dalla città sconfitta. Ma una parte, quella iniziale,
quella “anteriore”, è appena accennata e subito rimossa: resta invece sepolta
in quel nucleo di felicità sopravvissuto a ogni efferatezza, custodito
gelosamente in una privatissima stanza della mente e del cuore. «Che cosa ti
dirò all’inizio, che cosa alla fine?» chiede Ulisse ad Alcinoo, ma rivolge la
domanda a se stesso. Di Itaca, a quel punto, può dire soltanto che nulla è più
dolce della propria terra. La sua vita non è una linea, ma un cerchio che si
chiude, o una parabola che ridiscende lì dove s’era originata. Ecco una
perfetta immagine della stessa traiettoria che lega passato e futuro. Itaca è
l’infinito anteriore di Ulisse, la rappresentazione ultima, e insieme costante,
del suo peregrinare. La meta e lo
scopo, l’immagine e il vettore del suo viaggio. Il racconto di quel tempo
anteriore è affidato al mito, implode in esso, per tramutarsi infine in energia
affettiva. È lì che la poesia recupera la propria forza.
Il racconto di Ulisse è indotto. Lo provoca l’attesa, lo richiede il
sospetto degli ospiti, lo induce l’ascolto del proprio mito. Poesia chiama
poesia e la materia non sa sottrarsi. Ma è materia scelta, selezionata: proprio
perché nasce dal pianto, dalla commozione, e si nutre della compassione, la
rievocazione dell’eroe che si svela è fortemente affettiva, e dunque
involontaria. Come ogni affetto disinteressato che può contenere e restituire a
suo piacere. Eppure un interesse c’è, in Ulisse: memoria e poesia, epica e
sentimento sono solo un momento, una tappa del suo vagabondare ancora infinito.
Deve tornare all’origine, e può farlo solo attraverso l’aiuto concreto dei
Feaci: deve conquistarli alla sua causa.
La poesia ha marcato l’identità del narratore nel modo più autorevole.
Quello delle sue parole, delle parole che pronuncia davanti ad Alcinoo, è solo
un percorso fra i tanti possibili, all’interno di un percorso ben più vasto, su
cui divinità dispettose, umorali o profondamente ostili non cessano mai di
volgere il loro sguardo. In questo senso la condivisione a cui la poesia sembra
da sempre richiamare poeti e lettori viene da eros, piuttosto che da agape. In
ogni autentico poeta l’eros non può limitarsi a essere un tema, declinato come
qualsiasi altro tema o piuttosto in maniera ossessiva: è invece l’energia
profonda, dirompente, essenziale che lega due persone – o due personaggi -
intorno a un nugolo di versi. È la vittoria di un desiderio di possesso, come
in questi versi di Penna:
Dominare un fanciullo, ed ascoltare
la propria voce crescere nel canto.
La buia sera nasconde e riunisce.
Assai lontano già dorme il fanciullo.
Dominare un fanciullo, ed ascoltare
la propria voce crescere nel canto.
È solo grazie a questa conquista che il poeta può illudersi di aver
giocato fino all’ultima mossa la sua partita contro il tempo, parlando la
lingua dell’infinito. Anche a costo di dannarsi, se l’eros della poesia e
quello del corpo cominciano pericolosamente a scambiarsi immagini e frasi, come
poteva accadere a un modello troppo vicino per Penna, Petrarca, dominato anche
lui dal desiderio. In entrambi sembra non sussistere realtà oltre la dimensione
psicologica ed estetica del desiderio, che anima un rapporto esclusivo con
l’oggetto delle proprie ossessioni: se un contesto esiste, è solo perché vi si
possa manifestare, rispettivamente, l’assenza-presenza di Laura o l’apparizione
del fanciullo. Ma questo scavo dell’eros nei terreni della poesia appartiene a
un modello culturale a cui possiamo guardare con una certa distanza, al
contrario degli dèi di Omero sempre pronti a compromettersi nelle vicende dei
loro protetti; pur restando vero che qualche resistenza di peccato o di ben più
evidenti rimorsi e rimpianti attraversa anche una parte della modernità, dando
luogo a inesauribili lais, o ad
adorabili elegie. Penna, come Leopardi, ha imparato a guardare più lontano: il
suo desiderio ha la naturalezza, e quindi la mostruosità - nel senso della
spontaneità - che sa trascendere il peccato, perché al contrario di Petrarca
non conosce storia.
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