Era il 1994, a Roma. Un pomeriggio di prima estate al Teatro delle Arti, per un grande spettacolo di arte, danza, poesia, musica. Eravamo seduti vicini: accanto a me, a destra, c'era Giovanni Giudici, che ogni tanto guardava Attilio di sottecchi; dall'altra parte, alla sinistra di Attilio, c'era Maria Luisa Spaziani. Eravamo tutti in prima fila.
Attilio era letteralmente apparso in platea in un vistoso completo bianco di lino, i capelli color arancione. Splendido, provocatorio, coerente con sé stesso fino in fondo. Con la sua corporatura alta e un po' dinoccolata, mi ricordava Auden negli anni di Ischia. Il suo sguardo e la sua andatura, un tutt'uno di scanzonata libertà. E di ironico, sapiente, sornione distacco dalle cose. Come nella sua poesia, che però tradiva un fondo di disperato sconcerto, di meraviglia dolente.
Non a tutti piaceva, Attilio. Tra i poeti blasonati era ingiustamente considerato un outsider irriverente. Lui stesso amava definirsi un "vice-poeta". A me i suoi versi erano sempre piaciuti e qualche anno dopo, vincendo le resistenze di alcuni giurati, riuscii a fargli avere il premio Mondello per la poesia. Mi piaceva la sua leggerezza pensosa, mi prendevano le sue rime amare e giocose.
Quel pomeriggio di troppi anni fa, tra un'occhiata e l'altra di Giudici, Maria Luisa non si lasciò scappare la provocazione. Lo guardava con una certa aria di sorpresa, come se lo trovasse, in quel vestito così vistoso, elegante, improvvisamente imborghesito. «Ma tu non facevi il poeta maledetto?» gli chiede all'improvviso; e lui, informato che lei aveva passato l'inverno calcando le scene con Francesca Benedetti, recitando nella propria pièce La vedova Goldoni, rispose: «E tu non hai fatto la puttana?»
Non fu tanto questo a costringermi ad allontanarmi, non potendo trattenere le risate, ma la faccia sconvolta di Giudici, ignaro del precedente. Maria Luisa sapeva intendere - e accettare - battute e motti di spirito che lei stessa sapeva accendere. Quello che mi attraeva, e che a fatica ritrovo se non in questo e in altri episodi lontani, è la velocità dell'ironia, in un mondo sempre più veloce e sempre meno disposto all'attenzione. Anche se si tratta solo di ridere. In questo mondo Attilio era uno straniero venuto da territori dove nessuno ha ancora voglia di avventurarsi. Territori della leggerezza, una leggerezza che lui poteva condividere con Palazzeschi, da un capo all'altro del Novecento. quella che ci fa volare e sorvolare sulla pesantezza delle cose e ce ne dà, dall'alto, la giusta misura. La verità, diceva Savinio, è spesso in superficie, quella superficie a cui Attilio ha dato la forma delle sue poesie.
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