lunedì 5 giugno 2017

Raccontare Sandro Penna: dove comincia l'infinito.

Martedì 13 giugno esce in libreria il Meridiano Mondadori Poesie, prose e diari di Sandro Penna, a mia cura, Cronologia a cura di Elio Pecora. Posto qui le prime pagine del mio saggio introduttivo, in una versione precedente a quella che leggerete nel volume.




C’è un tempo verbale che non si trova nelle grammatiche dell’italiano, ma che esiste nella lingua dei poeti. Questo tempo è l’infinito anteriore. La sua prima caratteristica è quella di essere anche uno spazio, come sostiene il poeta Charles Simic: quello «dove comincia l’infinito».
In realtà ogni verbo, indicando un’azione che si svolge in un tempo, allude anche allo spazio di quell’azione; è quanto accade se siamo dei buoni traduttori del discorso altrui, ovvero se riusciamo a visualizzare le immagini contenute nelle parole, a proiettare nella nostra mente la pellicola che il nostro interlocutore sta svolgendo per noi. Ogni linguaggio ne porta un altro, dietro di sé: possiamo ascoltare con gli occhi, vedere con le orecchie. Se dico che Mario mangia una mela non riesco a restringere il campo visivo che mi si apre nella mente solo a una serie di morsi. Dov’è che Mario ha preso quella mela? E dove è andato a mangiarla? Un solo verbo contiene una piccola storia. Invece l’infinito anteriore non allude: è uno spazio, segnato da un’infinita distanza nel tempo. Quando ci coniughiamo all’infinito anteriore, la nostra azione diventa infinita, ovvero assoluta: ab-soluta, nel senso che scioglie i legami con qualsivoglia coordinata precisa e si proietta nella dimensione inattuale della poesia, quella dimensione per cui ciò che un testo racconta si ripete, “vive” a ogni nostra rilettura e riesce a parlarci oltre il proprio recinto di realtà.
Ma quale può essere la dimensione in cui questo tempo-spazio verbale si forma? Da dove proviene? L’infinito anteriore è un verbo del mito, dunque non ha bisogno di essere espresso necessariamente attraverso il modo infinito; nel suo narrarsi, il mito è una storia come le altre, ma è anche la culla di ciò che ai nostri sensi si offre come “anteriore”. Lo è sulla grande scala dei racconti e delle leggende che ci vengono dall’antico, come lo è per quello che riguarda la nostra personale quotidianità, il nostro giorno-per-giorno. Per ciascuno di noi l’anteriore di cui possiamo avere coscienza coincide inevitabilmente con i territori indefiniti dell’infanzia: per ciascuno di noi l’infanzia, nel bene e nel male, rappresenta una regione mitica, materia della memoria, base su cui allestiamo tutte le nostre successive mitografie. La nostra più tangibile anteriorità è lì, nelle stanze affettive dei nostri ricordi, di ciò che ci sembra aver vissuto: anche se la memoria, come sappiamo senza scomodare fin d’ora Proust, prende le sue strade come vuole. Una memoria è sempre affettiva, e in quanto tale diventa un formidabile filtro deviante rispetto alla verità e alla concretezza del passato, come sosteneva Leopardi. Quando il nostro passato diventa “anteriore”, allora si è consegnato al mito: subisce, cioè, il passaggio attraverso quel filtro, così ne risulta – in tutto o in parte – modificato, rielaborato. L’invenzione mitica corregge in una direzione piuttosto che in un’altra le nostre esperienze, ne muta la componente gioiosa o dolorosa, rovescia le proporzioni tra le attese e le delusioni, il livello di fallimento o di gloria. Tratta tutto questo come ingredienti, “funzioni” di una narrazione a venire. Interviene, infine, sulla percezione degli spazi.
Anche il presente talvolta rimanda all’infinito, e il presente infinito dei poeti parla di solito al futuro. Come è possibile che qualcosa di anteriore permanga nel tempo e si affacci sul futuro? L’infinito non è solo la qualità di ciò che non ha fine, limiti, confini (che pure sono concetti diversi e non proprio sinonimi, anche se entrambi si annullano di fronte all’infinito): è invece ciò che accade ogni qualvolta noi sappiamo rievocarlo. Per questo è il tempo della poesia, e la poesia, quando si affaccia sul passato, prossimo o remoto che sia, lo fa soltanto per volgersi al futuro.
Rievocare il passato può sembrare un’azione banale o in alcuni momenti consolatrice; ma a nessuno, tanto meno a un poeta, interesserebbe affogarsi nella nostalgia. Eppure l’esempio a cui penso ha proprio a che vedere con l’etimo di questo sentimento: nostos, il ritorno. Questo desiderio di ritorno guida il personaggio al di là di ogni impedimento, umano o divino: Ulisse verso Itaca. Ma quel ritorno è materia del mito. E della poesia. Non per la sua durata, per le peripezie e le avventure che ne scandiscono e ne segnano il lunghissimo tempo; e neppure per gli stratagemmi, i travestimenti e le metamorfosi, o la strage che verrà compiuta. Ulisse torna nel punto originario della sua vita, alla sua casa-talamo costruita intorno a un ulivo, al cuore della sua affettività. Ad accoglierlo è il pastore dei porci, così che il primo ritorno riguarda, neppure troppo simbolicamente, la terra, alla quale resta sempre saldo il pensiero; a riconoscerlo, sotto gli stracci con cui Atena ne dissimula il ritorno, è proprio la sua nutrice. Il suo futuro coincide dunque con il suo passato. Davanti a Euriclea c’è un solo tempo che contiene tutti gli aspetti del verbo: passato, presente, futuro sono un solo vortice che lascia cogliere, simultaneamente, le molte immagini del protagonista. Davanti alla nutrice Ulisse è uomo maturo, è vecchio ed è bambino.
Quando finalmente conquista il suo futuro, uccidendo gli occupanti, ritrova proprio il suo passato, il passato che ha relegato in una zona intima e profonda, ben prima che iniziassero le storie delle sue imprese a Troia; quelle storie che sono già materia di poesia e che ascolta in casa di Alcinoo. Alla corte dei Feaci a stento ha dichiarato il suo nome, ha celato la sua identità, fin quando non lo ha preso il pianto, all’ascolto degli aedi che proprio quelle storie vanno rievocando. Sulla scia di questa compassione la memoria avvia il racconto, con la partenza dalla città sconfitta. Ma una parte, quella iniziale, quella “anteriore”, è appena accennata e subito rimossa: resta invece sepolta in quel nucleo di felicità sopravvissuto a ogni efferatezza, custodito gelosamente in una privatissima stanza della mente e del cuore. «Che cosa ti dirò all’inizio, che cosa alla fine?» chiede Ulisse ad Alcinoo, ma rivolge la domanda a se stesso. Di Itaca, a quel punto, può dire soltanto che nulla è più dolce della propria terra. La sua vita non è una linea, ma un cerchio che si chiude, o una parabola che ridiscende lì dove s’era originata. Ecco una perfetta immagine della stessa traiettoria che lega passato e futuro. Itaca è l’infinito anteriore di Ulisse, la rappresentazione ultima, e insieme costante, del suo peregrinare. La meta e lo scopo, l’immagine e il vettore del suo viaggio. Il racconto di quel tempo anteriore è affidato al mito, implode in esso, per tramutarsi infine in energia affettiva. È lì che la poesia recupera la propria forza.
Il racconto di Ulisse è indotto. Lo provoca l’attesa, lo richiede il sospetto degli ospiti, lo induce l’ascolto del proprio mito. Poesia chiama poesia e la materia non sa sottrarsi. Ma è materia scelta, selezionata: proprio perché nasce dal pianto, dalla commozione, e si nutre della compassione, la rievocazione dell’eroe che si svela è fortemente affettiva, e dunque involontaria. Come ogni affetto disinteressato che può contenere e restituire a suo piacere. Eppure un interesse c’è, in Ulisse: memoria e poesia, epica e sentimento sono solo un momento, una tappa del suo vagabondare ancora infinito. Deve tornare all’origine, e può farlo solo attraverso l’aiuto concreto dei Feaci: deve conquistarli alla sua causa.
La poesia ha marcato l’identità del narratore nel modo più autorevole. Quello delle sue parole, delle parole che pronuncia davanti ad Alcinoo, è solo un percorso fra i tanti possibili, all’interno di un percorso ben più vasto, su cui divinità dispettose, umorali o profondamente ostili non cessano mai di volgere il loro sguardo. In questo senso la condivisione a cui la poesia sembra da sempre richiamare poeti e lettori viene da eros, piuttosto che da agape. In ogni autentico poeta l’eros non può limitarsi a essere un tema, declinato come qualsiasi altro tema o piuttosto in maniera ossessiva: è invece l’energia profonda, dirompente, essenziale che lega due persone – o due personaggi - intorno a un nugolo di versi. È la vittoria di un desiderio di possesso, come in questi versi di Penna:

Dominare un fanciullo, ed ascoltare
la propria voce crescere nel canto.

La buia sera nasconde e riunisce.
Assai lontano già dorme il fanciullo.

Dominare un fanciullo, ed ascoltare
la propria voce crescere nel canto.


È solo grazie a questa conquista che il poeta può illudersi di aver giocato fino all’ultima mossa la sua partita contro il tempo, parlando la lingua dell’infinito. Anche a costo di dannarsi, se l’eros della poesia e quello del corpo cominciano pericolosamente a scambiarsi immagini e frasi, come poteva accadere a un modello troppo vicino per Penna, Petrarca, dominato anche lui dal desiderio. In entrambi sembra non sussistere realtà oltre la dimensione psicologica ed estetica del desiderio, che anima un rapporto esclusivo con l’oggetto delle proprie ossessioni: se un contesto esiste, è solo perché vi si possa manifestare, rispettivamente, l’assenza-presenza di Laura o l’apparizione del fanciullo. Ma questo scavo dell’eros nei terreni della poesia appartiene a un modello culturale a cui possiamo guardare con una certa distanza, al contrario degli dèi di Omero sempre pronti a compromettersi nelle vicende dei loro protetti; pur restando vero che qualche resistenza di peccato o di ben più evidenti rimorsi e rimpianti attraversa anche una parte della modernità, dando luogo a inesauribili lais, o ad adorabili elegie. Penna, come Leopardi, ha imparato a guardare più lontano: il suo desiderio ha la naturalezza, e quindi la mostruosità - nel senso della spontaneità - che sa trascendere il peccato, perché al contrario di Petrarca non conosce storia.

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