Martedì 13 giugno esce in libreria il Meridiano Mondadori Poesie, prose e diari di Sandro Penna, a mia cura, Cronologia a cura di Elio Pecora. Posto qui le prime pagine del mio saggio introduttivo, in una versione precedente a quella che leggerete nel volume.
C’è un tempo verbale che non si trova nelle grammatiche dell’italiano,
ma che esiste nella lingua dei poeti. Questo tempo è l’infinito anteriore. La
sua prima caratteristica è quella di essere anche uno spazio, come sostiene il
poeta Charles Simic: quello «dove comincia l’infinito».
In realtà ogni verbo, indicando un’azione che si svolge in un tempo,
allude anche allo spazio di quell’azione; è quanto accade se siamo dei buoni
traduttori del discorso altrui, ovvero se riusciamo a visualizzare le immagini
contenute nelle parole, a proiettare nella nostra mente la pellicola che il
nostro interlocutore sta svolgendo per noi. Ogni linguaggio ne porta un altro,
dietro di sé: possiamo ascoltare con gli occhi, vedere con le orecchie. Se dico
che Mario mangia una mela non riesco a restringere il campo visivo che mi si
apre nella mente solo a una serie di morsi. Dov’è che Mario ha preso quella
mela? E dove è andato a mangiarla? Un solo verbo contiene una piccola storia.
Invece l’infinito anteriore non allude: è
uno spazio, segnato da un’infinita distanza nel tempo. Quando ci coniughiamo
all’infinito anteriore, la nostra azione diventa infinita, ovvero assoluta: ab-soluta, nel senso che scioglie i
legami con qualsivoglia coordinata precisa e si proietta nella dimensione
inattuale della poesia, quella dimensione per cui ciò che un testo racconta si
ripete, “vive” a ogni nostra rilettura e riesce a parlarci oltre il proprio
recinto di realtà.
Ma quale può essere la dimensione in cui questo tempo-spazio verbale
si forma? Da dove proviene? L’infinito anteriore è un verbo del mito, dunque
non ha bisogno di essere espresso necessariamente attraverso il modo infinito;
nel suo narrarsi, il mito è una storia come le altre, ma è anche la culla di
ciò che ai nostri sensi si offre come “anteriore”. Lo è sulla grande scala dei
racconti e delle leggende che ci vengono dall’antico, come lo è per quello che
riguarda la nostra personale quotidianità, il nostro giorno-per-giorno. Per
ciascuno di noi l’anteriore di cui possiamo avere coscienza coincide
inevitabilmente con i territori indefiniti dell’infanzia: per ciascuno di noi
l’infanzia, nel bene e nel male, rappresenta una regione mitica, materia della
memoria, base su cui allestiamo tutte le nostre successive mitografie. La
nostra più tangibile anteriorità è lì, nelle stanze affettive dei nostri
ricordi, di ciò che ci sembra aver vissuto: anche se la memoria, come sappiamo
senza scomodare fin d’ora Proust, prende le sue strade come vuole. Una memoria
è sempre affettiva, e in quanto tale diventa un formidabile filtro deviante
rispetto alla verità e alla concretezza del passato, come sosteneva Leopardi.
Quando il nostro passato diventa “anteriore”, allora si è consegnato al mito:
subisce, cioè, il passaggio attraverso quel filtro, così ne risulta – in tutto
o in parte – modificato, rielaborato. L’invenzione mitica corregge in una
direzione piuttosto che in un’altra le nostre esperienze, ne muta la componente
gioiosa o dolorosa, rovescia le proporzioni tra le attese e le delusioni, il
livello di fallimento o di gloria. Tratta tutto questo come ingredienti,
“funzioni” di una narrazione a venire. Interviene, infine, sulla percezione
degli spazi.
Anche il presente talvolta rimanda all’infinito, e il presente
infinito dei poeti parla di solito al futuro. Come è possibile che qualcosa di
anteriore permanga nel tempo e si affacci sul futuro? L’infinito non è solo la
qualità di ciò che non ha fine, limiti, confini (che pure sono concetti diversi
e non proprio sinonimi, anche se entrambi si annullano di fronte all’infinito):
è invece ciò che accade ogni qualvolta noi sappiamo rievocarlo. Per questo è il
tempo della poesia, e la poesia, quando si affaccia sul passato, prossimo o
remoto che sia, lo fa soltanto per volgersi al futuro.
Rievocare il passato può sembrare un’azione banale o in alcuni momenti
consolatrice; ma a nessuno, tanto meno a un poeta, interesserebbe affogarsi
nella nostalgia. Eppure l’esempio a cui penso ha proprio a che vedere con
l’etimo di questo sentimento: nostos,
il ritorno. Questo desiderio di ritorno guida il personaggio al di là di ogni
impedimento, umano o divino: Ulisse verso Itaca. Ma quel ritorno è materia del
mito. E della poesia. Non per la sua durata, per le peripezie e le avventure
che ne scandiscono e ne segnano il lunghissimo tempo; e neppure per gli
stratagemmi, i travestimenti e le metamorfosi, o la strage che verrà compiuta.
Ulisse torna nel punto originario della sua vita, alla sua casa-talamo
costruita intorno a un ulivo, al cuore della sua affettività. Ad accoglierlo è
il pastore dei porci, così che il primo ritorno riguarda, neppure troppo
simbolicamente, la terra, alla quale resta sempre saldo il pensiero; a
riconoscerlo, sotto gli stracci con cui Atena ne dissimula il ritorno, è
proprio la sua nutrice. Il suo futuro coincide dunque con il suo passato.
Davanti a Euriclea c’è un solo tempo che contiene tutti gli aspetti del verbo:
passato, presente, futuro sono un solo vortice che lascia cogliere,
simultaneamente, le molte immagini del protagonista. Davanti alla nutrice
Ulisse è uomo maturo, è vecchio ed è bambino.
Quando finalmente conquista il suo futuro, uccidendo gli occupanti,
ritrova proprio il suo passato, il passato che ha relegato in una zona intima e
profonda, ben prima che iniziassero le storie delle sue imprese a Troia; quelle
storie che sono già materia di poesia e che ascolta in casa di Alcinoo. Alla
corte dei Feaci a stento ha dichiarato il suo nome, ha celato la sua identità,
fin quando non lo ha preso il pianto, all’ascolto degli aedi che proprio quelle
storie vanno rievocando. Sulla scia di questa compassione la memoria avvia il
racconto, con la partenza dalla città sconfitta. Ma una parte, quella iniziale,
quella “anteriore”, è appena accennata e subito rimossa: resta invece sepolta
in quel nucleo di felicità sopravvissuto a ogni efferatezza, custodito
gelosamente in una privatissima stanza della mente e del cuore. «Che cosa ti
dirò all’inizio, che cosa alla fine?» chiede Ulisse ad Alcinoo, ma rivolge la
domanda a se stesso. Di Itaca, a quel punto, può dire soltanto che nulla è più
dolce della propria terra. La sua vita non è una linea, ma un cerchio che si
chiude, o una parabola che ridiscende lì dove s’era originata. Ecco una
perfetta immagine della stessa traiettoria che lega passato e futuro. Itaca è
l’infinito anteriore di Ulisse, la rappresentazione ultima, e insieme costante,
del suo peregrinare. La meta e lo
scopo, l’immagine e il vettore del suo viaggio. Il racconto di quel tempo
anteriore è affidato al mito, implode in esso, per tramutarsi infine in energia
affettiva. È lì che la poesia recupera la propria forza.
Il racconto di Ulisse è indotto. Lo provoca l’attesa, lo richiede il
sospetto degli ospiti, lo induce l’ascolto del proprio mito. Poesia chiama
poesia e la materia non sa sottrarsi. Ma è materia scelta, selezionata: proprio
perché nasce dal pianto, dalla commozione, e si nutre della compassione, la
rievocazione dell’eroe che si svela è fortemente affettiva, e dunque
involontaria. Come ogni affetto disinteressato che può contenere e restituire a
suo piacere. Eppure un interesse c’è, in Ulisse: memoria e poesia, epica e
sentimento sono solo un momento, una tappa del suo vagabondare ancora infinito.
Deve tornare all’origine, e può farlo solo attraverso l’aiuto concreto dei
Feaci: deve conquistarli alla sua causa.
La poesia ha marcato l’identità del narratore nel modo più autorevole.
Quello delle sue parole, delle parole che pronuncia davanti ad Alcinoo, è solo
un percorso fra i tanti possibili, all’interno di un percorso ben più vasto, su
cui divinità dispettose, umorali o profondamente ostili non cessano mai di
volgere il loro sguardo. In questo senso la condivisione a cui la poesia sembra
da sempre richiamare poeti e lettori viene da eros, piuttosto che da agape. In
ogni autentico poeta l’eros non può limitarsi a essere un tema, declinato come
qualsiasi altro tema o piuttosto in maniera ossessiva: è invece l’energia
profonda, dirompente, essenziale che lega due persone – o due personaggi -
intorno a un nugolo di versi. È la vittoria di un desiderio di possesso, come
in questi versi di Penna:
Dominare un fanciullo, ed ascoltare
la propria voce crescere nel canto.
La buia sera nasconde e riunisce.
Assai lontano già dorme il fanciullo.
Dominare un fanciullo, ed ascoltare
la propria voce crescere nel canto.
È solo grazie a questa conquista che il poeta può illudersi di aver
giocato fino all’ultima mossa la sua partita contro il tempo, parlando la
lingua dell’infinito. Anche a costo di dannarsi, se l’eros della poesia e
quello del corpo cominciano pericolosamente a scambiarsi immagini e frasi, come
poteva accadere a un modello troppo vicino per Penna, Petrarca, dominato anche
lui dal desiderio. In entrambi sembra non sussistere realtà oltre la dimensione
psicologica ed estetica del desiderio, che anima un rapporto esclusivo con
l’oggetto delle proprie ossessioni: se un contesto esiste, è solo perché vi si
possa manifestare, rispettivamente, l’assenza-presenza di Laura o l’apparizione
del fanciullo. Ma questo scavo dell’eros nei terreni della poesia appartiene a
un modello culturale a cui possiamo guardare con una certa distanza, al
contrario degli dèi di Omero sempre pronti a compromettersi nelle vicende dei
loro protetti; pur restando vero che qualche resistenza di peccato o di ben più
evidenti rimorsi e rimpianti attraversa anche una parte della modernità, dando
luogo a inesauribili lais, o ad
adorabili elegie. Penna, come Leopardi, ha imparato a guardare più lontano: il
suo desiderio ha la naturalezza, e quindi la mostruosità - nel senso della
spontaneità - che sa trascendere il peccato, perché al contrario di Petrarca
non conosce storia.
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