Una volta erano le madeleines, dentro scatole oblunghe di legno sottilissimo. Le prendeva da Castroni a Cola di Rienzo, quando ancora abitava in Prati, all’ultimo piano di un edificio in via Silvio Pellico, coi gatti e i libri di letteratura inglese e americana. Era una piccola casa, dove andavo a trovarla quando traducevo Auden e m’imbattevo in difficoltà continue, ma era un pretesto; infatti passavamo sempre a parlare d’altro, o meglio, di altra poesia. Di quella che facevamo, di quella che leggevamo.
Quelle scatole finivano per contenere foglietti, appunti, matite e gomme, o addirittura le posate; poi il sole le consumava. Un’altra volta era un piccolo dono, avvolto in qualche carta preziosa: una matita, una penna, un bloc-notes, un quadernino rilegato. Dall’Inghilterra mi aveva portato una fotografia di Auden, quando ormai avevo smesso di tradurlo, ma era un ricordo da preservare tra noi, il segnale di una vecchia intesa. Dall’Irlanda fece ritorno con un altro quaderno, raccomandandomi di riempirlo di versi.
Il più delle volte, però, si annunciava con un biglietto, dentro una busta. Non una lettera, ma un semplice foglietto con poche righe di saluto. Solo dopo, in un secondo momento, arrivava la telefonata per sapere se lo avessi ricevuto. A quel punto avevo già capito come avrebbe funzionato tra noi; dovevo accettare di non capire se il biglietto fosse il vero oggetto o solo uno dei tanti stratagemmi per ricordarmi il suo affetto, un modo per scusare una telefonata infinita.
In quelle buste, che conservo in un cassetto, ci sono brevi frasi, citazioni dai poeti, nomignoli che si divertiva ad affibbiarmi. La sua continua attestazione di bene e di amicizia era anche il sintomo della sua necessità di sentirsi a sua volta amata, ricambiata. Per molti anni tra noi sarebbe andata così, superando le spigolosità del carattere, le reciproche prese di posizione, a cui, come in un duello tattico, non potevamo assolutamente rinunciare. Le pause, tra noi, hanno sempre avuto una durata inconsistente. Si ricominciava con le telefonate, sempre più lunghe, e ancora con i biglietti. Ci fu un periodo in cui ne trovava con delle immagini di fragole (credo che si divertisse a girare per le cartolerie del centro, nei lunghi pomeriggi di solitudine) e ne spediva sempre più, al punto che le fragole si fecero ricorrenti nelle nostre conversazioni. Bisognerebbe chiedere ai bambini e agli uccelli che sapore hanno le ciliegie e le fragole, avrebbe scritto addirittura Goethe, e probabilmente ci sentivamo così, un po’ bambini e un po’ uccelli. Lei era tutt’uno con la leggerezza della sua poesia, una leggerezza pensosa, nervosa, come i suoi ritmi.
C’era anche, però, il lato delle doléances. Se la prendeva con gli editori, che non le rispondevano o non accettavano di pubblicarla; sdegnava i poeti che invece licenziavano libri (forse troppi e con troppa facilità, a suo dire) ma non per invidia, sentimento che non le apparteneva; era invece un profondo senso del proprio valore di scrittrice e quindi di giustizia e di misura. Non l’aiutava, quel suo carattere così indipendente e forse un po’ gattesco; ne ho subito anch’io i graffi quando, per ben due volte, mi sono adoperato perché riuscisse a vedere le sue raccolte stampate presso editori di qualità. Alla fine, per un inesistente cavillo contrattuale o per un capriccio mascherato da malinteso mandava a monte il lavoro di mesi e i faticosissimi negozi. La verità era più semplice: doveva avere lei la totale regia delle sue scritture. Anche a costo di sbagliare, anche a costo di perdere occasioni che mai più si sarebbero ripresentate.
Da quando Franco Fortini e Natalia Ginzburg l’avevano accolta nel primo dei volumi einaudiani dedicati ai Nuovi poeti italiani (era il 1980), lei si sentiva un’autrice dello Struzzo. E se sotto quell’icona non poté più pubblicare fu anche, temo, per insistenze e pretese che nessun editore avrebbe mai potuto accogliere. Spesso le sue proposte eccedevano le misure consuete di un volume di poesie; si presentava con faldoni di pagine e pagine, con testi molto ampi; talvolta pretendeva di pubblicare due raccolte in un solo volume. Alla fine, con piccole ma preziose sigle, riusciva a congedare brevi sillogi. Ricordo però la sua felicità quando ebbe il premio Laura Nobile, da una giuria presieduta dallo stesso Fortini, che restò, fino alla morte, il suo interlocutore privilegiato, accanto a Giovanni Giudici: Vanni Scheiwiller avrebbe stampato Tesoro da nulla e fu una gran festa. Fu, dopo anni di travagli ma di intenso lavoro di scrittura, un inatteso risarcimento. Durò un istante, però. Mi aspettavo che quel libro la consegnasse alla storia della poesia di fine secolo, a cui senz’altro apparteneva. Non ci fu, invece, quella lunga durata di attenzioni che avrebbe meritato. E neppure ci fu il riconoscimento da parte degli editori maggiori. Ne soffrì, come ne soffrì Giovanna Sicari e questo destino oscuro di marginalizzazione e malattia le avrebbe accomunate.
Dopo la scomparsa della madre ne volle prendere il cognome, aggiungendolo a quello, importante, della famiglia di adozione. Era il bisogno di un completamento, di un viaggio a trecentosessanta gradi intorno alla sua complessa identità. Ne rimasi perplesso, all’inizio: quel tassello che si aggiungeva, pur importante, sminuiva la forza di quelle vocali in a che erano l’insegna del suo nome, come lo erano state per Anna Achmatova. E poi diffidavo delle poetesse dai doppi cognomi e mi tornavano alla memoria certi perfidi versi di Palazzeschi. Per me, di fatto, è rimasta come l’ho conosciuta al nostro primo incontro, e come la leggo, ora che non c'è più e dovrò rinunciare a quelle nostre conversazioni di ore, in quello sbiadito volume del 1980, nel libro di Scheiwiller e in Piccoli campi, che Riccardo Lupo volle stampare con un’introduzione di Giudici. Anna Cascella, che sempre ritrovo aprendo quel cassetto pieno di carte colorate e di fragole che non odorano, ma che hanno il sapore di una lunghissima, intatta amicizia.