martedì 27 ottobre 2015
giovedì 22 ottobre 2015
SpiRituale/Digitale. Fotocronaca di un vernissage con poeti
Roma, Via Baccina, con lo sfondo dei Fori. Qui c'è la sede di Empirìa, dove sta per inaugurarsi la mostra di Rocco Micale, «SpiRituale/Digitale 1.1». Per questo evento 11 poeti contemporanei hanno inviato un loro testo, scritto o scelto per l'occasione.
È il tardo pomeriggio del 16 ottobre. Rocco Micale è pronto ad accogliere gli ospiti davanti alla sede della mostra…
ed ecco il pubblico che inizia ad affluire…
Nella sala piena Rocco viene presentato da me…
È il tardo pomeriggio del 16 ottobre. Rocco Micale è pronto ad accogliere gli ospiti davanti alla sede della mostra…
ed ecco il pubblico che inizia ad affluire…
Nella sala piena Rocco viene presentato da me…
e cominciamo a dialogare sulle sue opere, sui loro significati e sulle tecniche:
La gente in sala ascolta attenta e si accinge a sua volta a fare domande.
Si riconosce Luigia Sorrentino che legge la sua poesia:
lo ha seguito
nel fitto degli alberi
già così scura la macchia
la piccola onda
ha smarrito la strada
nelle crepe del tempo
la lingua del muschio
fa tacere ogni luce
Uno degli arcani presentati è «La Morte»:
E adesso è Alberto Toni a leggere la sua poesia, dal suo libro Nomos:
Il
tratto dei misteri ci dice che domani
compiremo
il viaggio di conoscenza-
Dio
lo sa nel silenzio che attraversiamo,
in
folle corsa e minime pause stagionali.
Un
raggio finale e doloroso.
E
tutti gli oggetti allineati sul tavolo
per
il ritorno.
Qui ci sono Giulia Napoleone e Marco Caporali. Anche lui ha portato una sua poesia, intitolata Davanti al fuoco:
Lascia che ciascuno
intraveda la sua immagine
in quel rogo di
scheletri ed alberi
che la preistoria
invade.
Un cuneo che ci
innerva nella creta
un calcolo di beni
più vasti del presente
che con ansia
fuori di sé si volge
impongono una stabile
dimora.
Le puoi rivoltare sul
foglio
le tue riserve spente
che si susseguono in
remote terre
pacificate, dai venti
erose
mentre le vette
altrove s’inabissano
irte, incompiute
minacce. E’ un mosaico marino
che in cristalli si
sfalda
e ci predice, nomadi
all’origine rivolti.
Fuoco su fuoco. Questo quadro è dedicato al mito di Efesto:
Baldo Meo ci legge la sua poesia, dal titolo La cerimonia esemplare:
Acqua di vite,
mercurio, vetriolo
filtro della lunga
pazienza,
veglia dell'esperienza
per una
inconciliata soluzione.
Per il pensiero
che è consolazione
e il desiderio che
è fastidio
nell'affetto vago
ma accorto,
esordire e'
vivificare.
Ma facile non è
voce che dura
per fare e per
trattare
per il vento
eternale
e il ritmo rituale.
E come parlare
all'estremità
degli accidenti
-assorto-
la parola
fuggitiva,
la sostanza
virtuale?
Ci ha raggiunto Elio Pecora. A lui dedichiamo La Temperanza:
Ed eccolo mentre legge Sogno 2:
L’aveva
fatto passare,
anche
stavolta
non
disse niente di sé.
Discesero
insieme una strada,
pronunciò
un nome,
un
nome che non conosceva.
Rimasero
a lungo in silenzio
prima
di allontanarsi,
senza
un cenno, un saluto,
ciascuno
verso un suo luogo.
Questa che segue, invece, è la mia poesia. S'intitola L'arte della previsione:
Verso sera, i gomiti sulla ringhiera,
Si va incontro a un’improvvisa limpidezza.
La polvere del giorno decanta
Minuscoli grani di pensiero.
Sembra più alto, il cielo. L’ippocastano
Piega i rami sulla corona di ortensie
E le sue voci si fanno profonde
Come un fuoco di cori segreti.
I gomiti sulla ringhiera, ancora calda,
E il cielo sempre più alto.
Hanno partecipato inoltre, di presenza o con i loro versi, Daniela Attanasio, Silvia Bre, Anna Cascella Luciani, Biancamaria Frabotta, Gabriella Sica. E naturalmente la splendida padrona di casa, Marisa Di Iorio. Rocco Micale ha prodotto un piccolo catalogo della mostra, contenente gli interventi critici di Gianpaolo Trotta, Antonina Greco, Raimondo Burgio. La mostra è aperta fino al 23 ottobre.
lunedì 19 ottobre 2015
martedì 13 ottobre 2015
AILANTO n. 22 - Su Giovanni Bracco
Di Giovanni Bracco, di cui La
Vita Felice ha appena pubblicato un primo libro di versi, Le grandi mani calme, abbiamo poche, sintetiche notizie. Nato nel
’61 in un paese del Sud, nel Vallo di Diano, è giornalista presso l’agenzia «Il
Sole-24 Ore Radiocor» e ha pubblicato poesie su «Nuovi Argomenti» e «Poeti e
poesia». Dei suoi gusti, delle sue predilezioni letterarie, non ci viene detto
nulla, anche se la limpidezza della sua scrittura fa pensare a un Novecento in
positivo, e a una tradizione lirica, d’amore, che da Petrarca giunge nel cuore
della modernità. Proprio da Petrarca, infatti, è tratto l’unico segnale che
Bracco concede al suo lettore: tre soli versi in epigrafe, dal Canzoniere, in cui l’amante viene
trovato da Amore del tutto «disarmato». Con questo viatico proviamo a entrare
nel libro di questo poeta, di cui ci è dato solo sapere che ama la musica (è
diplomato in pianoforte e possiede un vecchio Steinway), ha una laurea in
lettere e ama coltivare la terra.
Entriamo dunque disarmati, come
il soggetto che narra e si descrive “in situazione”, all’interno di una
dinamica sentimentale che risponde a una precisa e ben conosciuta fenomenologia
amorosa: quella di chi deve ammettere il possesso da parte dell’altro, sia in
presenza che in assenza («Tremo all’idea della tua presenza. / Vertigine
l’assenza», recita un distico dalla semplice verità), ovvero quella forma di
assoggettamento che tracima nell’ossessione. Petrarca è davvero il modello dei
modelli, in questa prospettiva. E in quell’ossessione, in quel «pensiero
dominante», la donna amata agisce una sorta di fantasmagoria, allestisce e
governa la «stanza segreta» dell’eros, smuove il «mistero» che parte dalla sua
bocca e investe l’amante, irretendolo per sempre nella voluta del desiderio.
«Bocca», «bacio», «odore»: nuovi sensi intervengono sulla scena della lirica
d’amore, accanto a quelli tradizionali della vista e dell’udito, che in realtà
rappresentano la base percettiva della terza e ultima sequenza del libro, «Su
un’isola si aspetta». Al centro dell’opera sta una breve sequenza, un poemetto
a sé che sembra derivare da una collana di pseudo-haiku, dedicati tutti al Mont
Saint Michel. È una cesura perfetta, che fa da soluzione di continuità tra le
due sezioni principali e più ampie: la prima, dominata dalla figura dell’amata,
e l’ultima, dove un paesaggio più vasto (ci sono isole, certo, ma anche città e
quartieri che sembrerebbero perfettamente assimilabili a isole anch’essi, o
comunque visti e vissuti come tali) ci introduce all’assenza e all’attesa, in
perfetta simmetria con la prima. Qui la marea mima il movimento amoroso, isola,
mare e sabbia ne divengono i simboli. Bracco ha sapientemente costruito un
piccolo canzoniere privato (ma ogni canzoniere, in quanto riflesso di
un’esistenza travasata in versi, lo è), riprendendo la stessa struttura che era
del suo modello esplicito.
Così, se nelle prime poesie
azione e pensiero si scambiamo incessantemente le parti lasciandosi soggiogare
dalla visione della donna, nelle ultime il soggetto si trova a fare i conti con
se stesso. È qui, probabilmente,
che «viene incrinato il mistero» adombrato dalla presenza femminile, come
scrive Elio Pecora in prefazione. A legare le due sezioni, inoltre, c’è l’andamento
da diario mensile, ovvero quel senso di vulnerabilità del tempo a cui entrambi,
amante e amata, sono inevitabilmente costretti, con le loro storie – anche corporali
– e i loro luoghi. La scommessa è sempre quella di «arrivare ai confini della
sera / col bagaglio ben fatto / e una carezza non occasionale», «impigliarsi» o
«posarsi» come la piuma sintetica scesa sul balcone.
Giovanni Bracco, Le grandi mani
calme, prefazione di Elio Pecora, La Vita Felice, 2015, e. 12.00.
Di notte nella stanza luci rosse
di radiosveglia tracciano
ai pensieri la pista di
atterraggio.
Ma io li ricaccio in volo
nella profondità folle dei sogni.
Dovrei farlo stanotte che mi
manchi
dentro la pancia, nel mio nero
cuore.
Ma è un grumo nero il cuore
e tu farfalla vento verde neve.
lunedì 12 ottobre 2015
venerdì 9 ottobre 2015
Poesia, ovvero l'arte di voltarsi indietro
Posto la relazione che ho tenuto ieri al convegno Poesia del pensiero, organizzato a Roma, presso il Maxxi, da Luca Archibugi e Giorgio Patrizi.
C’è più che un residuo di orfismo, nella poesia dei moderni. Non mi
riferisco alla sua parte più evidente, quella che dai romantici, attraverso i
simbolisti, tracima nel pieno del Novecento, tra Rilke e Ungaretti:
quell’orfismo verticale, quel senso della discesa che sembra sfumare certi
connotati psicologici per tentare di riappropriarsi, invece, dei significati
profondi. La poesia al posto dell’Essere oppure, come sarebbe avvenuto di lì a
breve, la fusione tra i due, sebbene in altro contesto e con altre intenzioni.
Accanto a questa dominante c’è stato, meno pervasivo forse ma con uguale
densità, un orfismo orizzontale. Ve ne sono già le tracce in Leopardi, accanto
al pensiero-immagine del naufragio, e lo stesso può riscontrarsi in Rilke. È
l’orfismo che circoscrive una precisa fenomenologia dello sguardo: quella di
chi sceglie di guardare nonostante.
Accade anche a Montale. Forse un
mattino andando in un’aria di vetro racconta l’esperienza di uno sguardo
che è costretto a rivolgersi per potersi finalmente imbattere nel nulla, in un
mondo percepito solo come «rappresentazione», come lo aveva inteso
Schopenhauer. E come i poeti, secondo Marina Cvetaeva, si possono suddividere
in quelli con storia, che non si voltano mai indietro, e quelli senza storia, i
lirici che si voltano, così gli uomini vengono definitivamente spartiti tra
quelli che si pongono il problema di voltarsi e quelli per cui la vita è solo
tempo, un vettore che sfreccia in avanti. Cvetaeva non ha pensato a Montale, e
neppure a Eliot. Questi hollow men
che si aggirano nel deserto della contemporaneità, protesi al loro
inconoscibile futuro e quindi alla morte, sono forse l’emblema più alto di una
reificazione che ottunde le coscienze. Chi invece si è voltato, si è imbattuto
nel «terrore», ma ha conquistato un «segreto» non condivisibile. La verità dei
poeti è irresponsabile, cieca.
Lo sguardo orfico, per poter agire, si lega dunque a un impedimento.
Può trattarsi di un accidente naturale, come lo schermo di una siepe; può
ancora esprimersi sotto la specie di un divieto, così da provenire direttamente
dalle regioni del mito; e ancora al mito, infine, l’impedimento deve quella che
è probabilmente la caratteristica più suggestiva, quella della velocità. Non è
una velocità fine a se stessa, ma che induce, provoca altra velocità. Nel Manuale di zoologia fantastica di Borges
ne ritroviamo un esempio evidente, che è, nello stesso tempo, un formidabile
vettore ermeneutico. Borges riporta quella che gli viene presentata come una leggenda
dei boscaioli del Wisconsin. In quelle lande deserte, tra i boschi secolari e i
tronchi smisurati, la solitudine elabora la paura, e la paura a sua volta crea
una sua precisa forma simbolica. È quella di una strana creatura, denominata
«Hide-behind», che sta nascosta dietro di noi, alle nostre spalle. Che ognuno
abbia il proprio Hide-behind è solo un’efficacissima allegoria. Si può
mostrare, questa creatura del nostro inconscio? Certamente no. Tutte le volte
che proviamo a guardarla, compiendo l’atto di voltarci, lo Hide-behind si è già
spostato, così che risulta impossibile focalizzarlo. Lo spazio della visione si
fa estremamente mobile, al punto da annullarsi: lo sguardo resta impotente, e
isolato. Non si stabilisce alcuna reciprocità.
Questo accade, aggiunge Borges, perché lo Hide-behind è sempre più
veloce di noi. Qui l’allegoria sembra complicarsi e aggiungere, all’evidenza
della base psicologica, un ulteriore tasso di metaforicità. È una spiegazione,
quella della velocità, che però ci costringe a fare i conti, questa volta, con
la nostra diversa velocità. Era accaduto anche all’Orfeo di Rilke. «Agile», lo
sguardo sempre rivolto verso la soglia estrema che riconduce al mondo dei vivi,
un solo arduo obiettivo da raggiungere, investendo in una fiducia assoluta. I
due sensi maggiori della percettività moderna, vista e udito, non vengono in
soccorso: il primo è soggetto a un divieto, il secondo si scontra con il
silenzio assoluto degli inferi. Il primo «si aggirava come un cane», mentre
tutto il corpo del poeta «divorava la strada a grandi morsi»: rappresentazione
di una ferinità decisa, per cui la conoscenza, anche quella della morte, passa
attraverso la fame e la sete, come suggerisce Tommaso d’Aquino. Il secondo
senso, invece, è rivolto «indietro come resta un’ombra». La luce della
conoscenza, e della verità, filtra attraverso il solo senso libero di voltarsi,
e un’ombra viva si proietta sul sentiero delle ombre morte. «Essi verranno», prova
a dire Orfeo, quasi tentando un’ultima formula magica, un rito privato tra
desiderio e dubbio: ma la sua voce potente, laggiù, è destinata a spegnersi,
come l’urlo di un incubo. «E tuttavia venivano, ma due / dal lentissimo passo».
Euridice, nel testo di Rilke, è scortata da Hermes, il dio della
velocità per antonomasia. Anche lui, però, deve scontare un impedimento e
contenere la forza degli attributi divini: l’ombra che sta accompagnando è
ancora avvolta nel sudario, e questo rallenta il cammino, ma si tratta soltanto
di un’immagine necessaria, ovvia. Quel sudario è piuttosto il simbolo, l’habitus di una condizione nuova: quella
che Rilke chiama «grossen Tode», la «grande morte». La morte come esperienza
irreversibile, e per contrasto, rigeneratrice. La morte come solitudine
altissima, che riporta Euridice a se stessa, e non ne fa più semplice oggetto
di canto. La morte è «grossen» perché la riscatta da uno stato di passività e
la rende, finalmente, soggetto. Un soggetto in grado di rifiutarsi, lei che
sembra non capire nulla di quanto le accade intorno, e che «mite e paziente»
risale e infine ridiscende per la terza volta (caso unico nel repertorio del
mito) il sentiero che passa tra i vivi e i morti. Lei che ormai appartiene solo
a se stessa.
Ciò che la figura di Euridice suggerisce, nella lettura che ne dà
Rilke, non è tanto l’irrimediabilità della morte e il distacco che ne consegue,
quanto il raggiungimento, la conquista accidentale di uno status di libertà e di affrancamento. Nonché di potere, anche se si
tratta di una facoltà paradossale, per chi la giudica dalla parte dei vivi.
Rilke disegna un quadro suddiviso in due assi semantici, fa della morte una
vera e propria polarità: il mondo dei vivi è ovvio, quello dei morti rovescia
questa ovvietà e ripiega su se stesso, marcando la propria superiorità e
indipendenza. Qui, nel fondo dell’Ade, ciò che ai vivi è dato una sola volta è
dato invece per sempre: sono le parole che Claudiano dona a Plutone per
consolare Proserpina del forzato distacco dalla madre, e che Euridice sembra
accettare in pieno. Su questa nuova forza può finalmente imbastire una
risposta, ovvero prendere parola.
La prima parola che pronuncia la “nuova” Euridice, in Rilke, serve a
ribadire la sua totale estraneità al mito. Quando Hermes, con la voce mesta, le
comunica che Orfeo si è voltato, lei non può che pronunciare quell’estraneità
nella forma di una domanda assoluta: «Chi?». La sua assenza, per questa via,
non è soltanto quella di una soglia varcata per sempre, ma un’indifferenza
indotta da una consapevolezza inaudita. Se Orfeo ha ancora potuto riconoscerla,
lei invece non è più in grado di farlo. «Mite e paziente» segue il percorso
verso la vita, ma questo non la riguarda più. Se Orfeo fosse riuscito
nell’impresa, avrebbe trascinato con sé un involucro vuoto, un fantasma del
passato: qualcuno profondamente estraneo, perfino ostile. Qualcuno destinato a
non appartenergli. È a questo punto che la poesia deve fare un passo indietro e
riportarci al momento in cui il poeta incontra la donna e la riconosce fra
tante altre ombre. O è piuttosto Euridice a riconoscere Orfeo e a scagliargli
addosso le parole estreme del distacco?
È l’espediente a cui ricorre Marina Cvetaeva. Il discorso appena
avviato da Rilke con l’interrogativo rivolto a Hermes prosegue, e ancora per
noi si conclude, con il monologo serrato con cui Euridice investe Orfeo: «il
nuovo incontro è spada». La polarità di Rilke giunge qui al pieno compimento:
«in questa casa / illusoria tu, vivo, sei fantasma, e vera / io, morta». Orfeo
«non deve scendere a Euridice». La verità è nella mano di lei, che provocatoriamente, proprio mentre stanno
per concludere il mito, tocca la spalla di lui e lo costringe istintivamente a
voltarsi. Lei sa che quel gesto improvviso e imprevisto l’avrebbe riconsegnata
per sempre alla sua nuova natura, alla ritrovata libertà in se stessa. Quello
sguardo non può più essere reciproco, com’era stato, anche se per un solo
istante, quello della passante di Baudelaire. La tensione è tale da renderlo un
campo magnetico, dove i due poli uguali si respingono necessariamente. Ma perché
sono divenuti uguali?
Euridice viva è materia del canto, emittente e destinataria di una
gioia che si fa potenza pervasiva. Euridice morta è ancora materia di poesia,
ma nell’assenza e nella negazione, «così che un mondo fu lamento», traduce
Pintor da Rilke. Il mito regredisce allo stato di metafora primaria e diviene,
ancora una volta, allegoria della condizione della poesia per i moderni, così
che Euridice stessa può essere assimilata a questa poesia che disperatamente
nasce dopo la morte della poesia. Euridice è
la poesia, è una perfetta ipostasi di questa poesia che canta la propria
assenza. Per questo, come scriveva Marina Cvetaeva, non senza una certa
aggressività, «I fratelli non devono turbare le sorelle». Tra il poeta e la
donna amata e inseguita fino all’Ade la poesia scende come un tabù, la morte -
come esperienza e come limite - sancisce il riconoscimento di un’uguaglianza. Per
questo il mito era destinato a non chiudersi, tra l’impedimento e
l’incompiutezza. Nessuno meglio di un moderno avrebbe potuto comprenderlo. La
poesia, per lui, è ormai irrimediabilmente oltre.
Raggiungerla è impresa impossibile, lo sguardo non è ricambiato, gli occhi
della poesia respingono. Si può ricordare, desiderare, pensare la poesia, ma
non è più dato di farla. Si può solo pensare Euridice. E come la poesia, questa
figura porta con sé una verità «irresponsabile e senza conseguenze»; quella
verità che «non bisogna neanche cercare di inseguire, giacché anche per i poeti
essa è senza ritorno».
domenica 4 ottobre 2015
Per Luciano Erba
Qualche giorno fa, pensando alla
scomparsa di Nelo Risi, mi sono trovato più volte a ricordare Luciano Erba.
Viene quasi naturale, per molte ragioni. Intanto perché, nelle storie e nelle
antologie della poesia italiana del secolo scorso, i loro nomi sono spesso
apparentati nella «linea lombarda» o nel più generico ambito del
post-ermetismo; insomma, uno chiama l’altro, e di entrambi è evidenziata una
certa componente razionale, o raziocinante. Ma ricordi e persone si allineano
per noi, in noi, in una strana catena della memoria, che coinvolge situazioni e
incontri, episodi e imprevisti. L’ho dichiarato più volte, Erba è uno dei miei
poeti preferiti: quel suo fondere intelligenza e tenerezza, sempre così
sapiente eppure leggero, mi ha sempre dato un grande piacere di lettura.
Mi sono imbattuto nei suoi versi
tramite le antologie, quand’ero ancora studente. Erano gli anni delle scoperte,
certo, ma anche delle esplorazioni di libri: quando mi trovavo fuori Roma
giravo per vecchie librerie o reminders sperando sempre di trovare qualche
titolo interessante di Guanda, Mondadori o Garzanti. Ero all’Aquila, dove
viveva mio padre e dove spesso andavo a studiare, lontano dai rumori di Roma.
Nella storica libreria Colacchi trovai una prima edizione di Dopo Campoformio di Roversi; accanto,
ricordo, c’era una copia de L’ippopotamo,
appena apparso da Einaudi. Sarà stato il clima estivo, quel misto di luce e
ombra che in certi pomeriggi di luglio ti fa improvvisamente realizzare di
trovarti immerso in una dimensione tipicamente italiana, tra viuzze, tetti,
palazzi e case basse, in un susseguirsi continuo di calore e frescura, quando
la frescura porta con sé l’odore di qualcosa di molto antico, che lì per lì non
sai riconoscere, ma che dopo pochi passi ti richiama, all’improvviso, qualche
rapido scorcio della tua infanzia; saranno state le vecchie mensole della
libreria, il loro aspetto da vecchio emporio; sarà stato per questo, ma leggere
quelle poesie d’amore, scritte in assenza, come un trovatore, fu come riascoltare
una voce interna. Qualche mese dopo, a Roma, nella libreria Rizzoli della
galleria Colonna, che ora non c’è più, trovai fortunosamente Il nastro di Moebius, il libro con cui
aveva vinto il premio Viareggio molti anni prima, e fu naturalmente una
conferma. Poi, in una libreria antiquaria, fu il turno de Il prato più verde.
Lo avrei conosciuto di persona, e
avrei parlato con lui dei poeti amati, dei miei studi, ma il primo vero
incontro fu proprio con le poesie dell’Ippopotamo,
che resta per me uno dei libri più felici dell’ultimo scorcio di Novecento:
«Quell’azzurro di luglio senza te», «Se mai ti ricorderò come una madonna
senese»… Un’Italia riconoscibile eppure sotterranea, celata in qualche zona della memoria, riaffiorava
in quell’estate dell’89. Ci fu anche l’occasione di un viaggio. Alla fine degli
anni Novanta collaboravo con l’università di Roma Tre e Giulia Lanciani, che
aveva la cattedra di portoghese, ebbe la possibilità di organizzare uno scambio
tra poeti italiani e lusitani. Mi chiese di farle alcuni nomi, e alcuni mesi
dopo ci ritrovammo a Lisbona con Silvio Ramat, Elio Pecora, Maria Luisa
Spaziani e Luciano Erba. La sera del giorno successivo al nostro arrivo
l’Istituto Italiano di Cultura ci avrebbe ospitato per una lunga sessione di
lettura e di confronto, ma Luciano, invece di riposarsi, ci coinvolse in una
gita a Sintra. Era il più curioso del gruppo, il più affamato di immagini: ricordo
il suo passo velocissimo lungo le mura del castello, la mia sorpresa di
scoprirlo ancora così agile e Silvio che mi confermava la sua abilità sui
sentieri di montagna. Ricordo le ali che faceva il suo impermeabile, mentre
avanzava osservando minuziosamente il paesaggio, fin dentro i dettagli che a me
sfuggivano per la novità e l’eccesso.
Poi ci furono gli incontri in
Sicilia. Il treno dei poeti, la prima grande manifestazione di poesia voluta da
Antonio Presti. Andai a Catania, da lì salimmo sulla Circumetnea fino a Bronte.
C’era Enzo Iachetti che ci intervistava, sembrava tutto surreale, in un marzo
freddissimo. Alla stazione di Bronte io e sua moglie fummo fatti scendere, per
fare spazio ad altri poeti e ad altri ascoltatori. Lì, nel piccolo bar, ci
consolammo, nell’attesa che la littorina ripassasse, con una torta al
pistacchio.
Quindi ci fu il premio Mondello,
fortemente voluto dai poeti della giuria, per l’Oscar che raccoglieva le sue
poesie. Fu una vera festa, per Luciano. A Palermo, nella hall dell’Hotel delle
Palme, ci ritrovammo a parlare di autori e letture; era molto incuriosito dai
miei corsi sugli sviluppi della poesia moderna, chiedeva informazioni sui
tracciati che andavo disegnando di anno in anno. Nel 2003, infine, l’Unesco mi
chiese di organizzare una manifestazione di poesia a Palermo, e Luciano venne
di nuovo a parlarci e a leggere i suoi versi. Non lo avrei più rivisto. Negli
ultimi anni gli impegni ci avevano tenuti distanti: più volte, se mai avessi
deciso di salire a Milano, mi aveva offerto ospitalità, ma non accadde mai.
Quelle conversazioni mancate mi lasciano un po’ di rammarico, e qualche volta
mi diverto a inventarle, mettendo insieme citazioni dai suoi libri. È un modo,
un po’ infantile, per far finta che Luciano sia ancora qui. Forse a lui sarebbe
piaciuto.
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