Giorgio Ghiotti, con Ipotesi del vero (LiberAria), fa un regalo ai suoi lettori, perché ci consegna due libri in uno: il primo, che dà il titolo all’intero volume, e il secondo intitolato L’andare e l’addio. Eppure ciò che a prima vista potrebbe apparire un’operazione di pura convenienza editoriale, si mostra poi sotto un’altra impressione: ovvero che questi non sono due libri così distinti, ma due realtà complementari. Sono le due macro-sezioni perfettamente consequenziali di un unico progetto. Non so quanto Ghiotti ne sia stato consapevole; ma se non a un vero e proprio progetto, certamente l’autore si è lasciato guidare in un percorso. Chiarirò a breve da chi.
Ci sono diverse linee tematiche che legano questi due libri tra loro. Vorrei parlare di quella più evidente, che è il collante più forte: la memoria. Una memoria che Ghiotti declina e intende sia come memoria privata, sia come memoria letteraria. Anzi, per lui si tratta a ben guardare di un’unica dimensione; la frequentazione della poesia passata e di quella presente (ma si tratta di categorie di servizio, la poesia non ha tempo, è sempre squisitamente inattuale ovvero attuale sempre) è per Ghiotti, naturalmente e semplicemente, abitare la propria casa, sentirsi nel clima più autentico, stare a proprio agio. La poesia è davvero il suo ubi consistam, senza sminuire gli altri suoi aspetti (il narratore, l’editore, il recensore), ma ribadendo che – come già per Pasolini – essa è lo spazio assoluto che permea di sé anche il resto.
La memoria, come ci ricorda Leopardi, è un formidabile filtro deviante rispetto a ogni nostro passato, vero e presunto, immaginato (finzionato, vorrei dire) o vissuto. Questo perché ogni atto di memoria è agito da una fondamentale corrente affettiva, e questa corrente passa, trascorre senza soluzione di continuità tra i due libri e li cementa. Mi viene da pensare che la prima macro-sezione sia ispirata a un amore inteso come lo intendevano i latini con la parola per me più bella del loro vocabolario: cura. Cura vuol dire (riporto proprio quello che trovo nel vocabolario, alla lettera): pensiero, sollecitudine, amministrazione, ricerca, opera, amore. Vorrei solo aggiungere un altro termine per me essenziale ma che è nella fisionomia culturale di Ghiotti: studio. Perché studium, per l’appunto, vuol dire passione, desiderio, amore, insomma cura.
Dunque possiamo spiegarci il titolo Ipotesi del vero. La memoria, in questi versi, trasuda affettività, cura. Tutte le declinazioni del concetto esprimono in pieno ciò che è della personalità di Ghiotti, ciò che lui fa con la poesia altrui e propria. E se quell’affettività devia la realtà del passato – che non esiste più di fatto – allora quel vero che ne possiamo trarre e conservare è l’ipotesi che più ci somiglia. Somiglia a noi, intendo, a lui. La prima parte, il primo libro, è l’esercizio della memoria come cura, ovvero come recupero, conservazione di un vero che corrisponde a una precisa costellazione chiamata Roma.
Questo è il libro del ritorno di Ghiotti nella sua città, nella città dei poeti, dopo la parentesi milanese. E, neppure troppo in filigrana, ci sono pressappoco tutti. Non voglio qui cedere al gioco dei nomi e dei riconoscimenti delle citazioni, il lettore avvezzo alla poesia saprà riconoscere quanto passa, qui, della poesia, soprattutto quella a partire dagli anni settanta. Questo è dunque il segmento della cura; e la cura agisce a livello testuale proprio cavalcando quell’onda affettiva. In questi testi c’è Ghiotti e ci sono tratti che Ghiotti assimila dal di fuori, da un alter ego plurimo che è quella costellazione romana. Nella seconda parte, invece, la cura si fa consegna. È l’altra parte, complementare, del processo amoroso: recupero e consegna, ciò che un tempo si chiamava tradizione. Ecco la complementarità; e infine, aggiungerei, anche l’omogeneità tra i due libri, nel senso che Ghiotti non riproduce, ovvero non imita. Alla fase dell’imitazione, che è un processo di appropriazione, segue piuttosto quella dell’emulazione, che è un processo proprio di reinvenzione affettiva. Così il testo, da una pagina all’altra, atteggia alcuni tratti che Ghiotti da lettore ha già fatto suoi, ma che adesso deve ricreare a suo modo, alla maniera che è indiscutibilmente sua. Per fare un esempio, il ritmo nervoso, scandito non dalla punteggiatura ma dai trattini (la vera punteggiatura di Emily Dickinson) che Anna Cascella ha fatto suoi, diventano qui una vera e propria reinvenzione di Ghiotti, quasi un colpo di teatro. Ancora, sentiamo una sicura cadenza montaliana come si trasforma in un’immagine che non può essere che di Ghiotti, per poi riassumersi in un nuovo correlativo che è un altro espediente di recupero mnestico:
Il vento che proviene dal salone
fa il paio con il canto dell’acquaio
e io non ho memoria e se mi sporgo
dal bordo del lenzuolo giù dal letto
interrogo quel paio di pantofole
che certo, potreste essere mie, la taglia
è giusta, eppure m’insospetto e mi fa voglia
di andare al fondo al modo degli oggetti
di attendere qualcuno, essergli forma
[…]
Potrei fare altri esempi, ma credo che a questo punto l’atteggiamento di fondo del libro sia chiaro. Ipotesi del vero è dunque un grande atto d’amore per Roma, città di poesia ancor prima che realtà metropolitana. Possiamo evincere come Ghiotti moduli – ormai con una certa sapienza – questa sua affettività da un’altra retorica (nel senso più alto e tecnico) del movimento linguistico, ovvero la variazione. Roma ha una e mille anime e altrettanto diversi sono i suoi poeti. Cosa li accomuni è impossibile a dirsi, nonostante i tentativi fatti ma poco esaustivi, come è impossibile racchiudere questa città in una sola definizione, in una formula onnicomprensiva. Roma è complessa, molteplice, sfuggente. Così a ogni testo è come se Ghiotti si sia incamminato in un quartiere diverso, recuperando immagini da tradurre in versi, ma ben sapendo, come ogni autentico viaggiatore, o meglio viandante, che nel suo sguardo scorrono le immagini di chi ha percorso quelle stesse strade prima di lui. Dunque è un viandante immaginario, nel senso che recepisce un immaginario e lo sovrappone al suo.
Questa poesia appare dunque doppiamente riconoscibile, nei suoi segni e in quelli ripresi dal passato/presente. Ipotesi del vero non fa che continuare e corroborare un percorso coerente, di cui un’altra tappa essenziale è rappresentata dalla raccolta La città che ti abita, edita da Empirìa (altro pezzo di quel passato che ci sta lasciando). Direi però che fin dall’esordio, dall’Estinzione dell’uomo bambino Ghiotti abbia saputo cogliere, con insolita lucidità, quel nesso centrale tra memoria e infanzia, intesa come atteggiamento percettivo e non come età, come momento umano. Piuttosto quel momento, dilatato nel tempo e nello spazio come solo la poesia sa fare, è divenuto, se non l’alba di un mondo, l’alba di una città ancora viva:
Io vado da dove tu vieni,
dove bambini gorgogliano
al fondo di fontane
come specchi parlanti di brame,
e i sogni sono camicie che non puoi
lavare. […]
Ipotesi del vero è un autentico esercizio di intelligenza del cuore. L’infanzia è «la diga che non tiene», scrive Ghiotti, e non perché tracimi nostalgia del passato; se proprio di nostalgia vogliamo parlare è piuttosto una nostalgia del futuro, come quella di Penna, come quella di Dante nel Purgatorio. Infatti una certa luce purgatoriale ammanta queste poesie; «qui» (ma quanto è ampio questo deittico, che cosa indica davvero?) «è quasi primavera». Siamo allora condotti, con estrema cura, come presi per mano, verso una soglia dove nulla è finito perché ancora tutto accade. Nulla chiediamo alla poesia se non questo accompagnarci.