sabato 30 dicembre 2023

Appunti su Cesare Brandi poeta

 








Non è semplice delineare il profilo di Cesare Brandi poeta, abituati, da lettori e studiosi, all’amabile ritmica delle sue prose di viaggio, così dense di immagini, come all’incisiva determinazione dello storico dell’arte e del teorico del restauro. La sua scrittura in versi, riproposta oggi per intero da un critico sempre attento al mondo e alle correnti della poesia come Aldo Perrone, nelle splendide Edizioni della Cometa di Giuseppe Appella, giunge al lettore di oggi come una vera sorpresa. Il volume, intitolato Tutte le poesie, comprende le tre raccolte pubblicate in gioventù da Brandi, ovvero le Poesie, del 1935, Voce sola, già nelle Edizioni della Cometa allora curate da Libero de Libero nel 1939 (in foto), infine le Elegie, apparse da Vallecchi nel 1942. Si tratta di un arco temporale davvero contenuto, eppure ricco, sebbene interrotto da altri interessi e ben altre direzioni di scrittura. Completano il volume alcuni inediti e le testimonianze di Giuseppe Raimondi, Maria Luisa Spaziani, dello stesso Perrone, che firma anche l’introduzione.

Il primo equivoco intorno a Brandi poeta, stando a queste testimonianze, risalirebbe proprio a Raimondi, che fu il primo, autorevole prefatore del volumetto del 1935. Fu quindi una certa timidezza, o pacata adesione a quei versi da parte del critico, a far sì che quelle pagine, che avrebbero dovuto introdurre il giovane poeta nella storia della poesia entre-deux-guèrres, sortissero nel tempo l’effetto di un ralenti ricettivo, al punto d’essere lette non come un avallo o un viatico augurale, ma come una cauta presa di distanza. A rileggerle adesso, con tutto il peso degli anni, ci appaiono piuttosto come un esercizio di prudenza, da parte di una personalità ben collocata nell’establishment letterario, nei confronti di un giovane certamente brillante, intellettualmente esuberante e ricco di promesse, forse un po’ meno interessante nei suoi esiti lirici. Così, almeno, dovette apparire a Raimondi in un contesto però più ampio, generazionale. Il prefatore accenna a una «freddezza opaca», a una «levigatezza neoclassica», a «una modestia, un’umiltà che solo i moderni conoscono». Il suo scritto è preceduto da un’epigrafe da Rimbaud, da Una stagione all’inferno, che riguarda la conquista di un’amara maturità. Prosegue a ritroso, Raimondi, fino al Baudelaire pessimista, che rifiutando ogni illusione, scrive che il mondo va scomparendo e la sola ragione della sua possibile durata è nel suo stesso esistere. Insomma, un cerchio stretto si chiude intorno alle possibilità espressive di una generazione che si sarebbe formata anzitutto sulla lezione dei simbolisti.

Se il quadro è esatto (ma lo è fino a un certo punto; vale forse ricordare che allora i conti con certi poeti erano ancora aperti, e che nella nostra tradizione, se è mancato un Rimbaud, non è mancato però un Pascoli, al quale quella «modestia» e quell’«umiltà» non sarebbero forse dispiaciute) allora una linea pregiudiziale offusca il pensiero di Raimondi, che illudendosi di ricostruire un contesto stabilisce però dei limiti precisi, oltre i quali la generazione di Brandi avrebbe faticato a muoversi. È un limite anzitutto affettivo, che incrina la «compatta freddezza», da «sinfonia belliniana», dei versi, risolvendosi infine in «uno stile pacato, in una forma calma, dignitosa».

C’era poi un’altra e forse ben più pesante ipoteca da rimuovere: l’impossibilità, per un artista, di vivere la propria intelligenza all’insegna dello studio e della ricerca. Nel suo intervento, Maria Luisa Spaziani la dichiara come una vera e propria «tragedia», pensando a poeti come Ripellino e Bodini, i cui libri di versi sarebbero passati in secondo piano rispetto alla loro attività di interpreti e traduttori; ma su Brandi gravava un’ulteriore scure, rappresentata dal giudizio negativo dell’amico Montale. Possiamo provare a spiegarci quel netto rifiuto, che tanto dovette pesare anche sulle scelte future di un intellettuale deciso ad abbandonare il campo, per dedicarsi interamente alla prosa di studio e di viaggio.

Scriveva Montale nella sua Intervista immaginaria, che «Il linguaggio di un poeta è un linguaggio storicizzato, un rapporto. Vale in quanto si oppone o si differenzia da altri linguaggi». Vale, quindi, per quel tanto di consapevolezza raggiunta nel collocarsi a una determinata altezza della ricerca poetica; vale per come il poeta si oppone o si differenzia rispetto ai modelli ancora attivi nei suoi immediati dintorni; che sono, per l’appunto, esempi di lingua. Più che mai per l’italiano, condizionato dalla sua matrice letteraria, si tratta di realizzarsi come una lingua viva, nel senso di conservare una certa aderenza alla realtà, di saper riflettere un’esperienza. Ogni lingua muta nel tempo, e questo è il primo fenomeno con cui un autore è costretto a confrontarsi: cambiano i significati, si smussano o si potenziano; il tragico travasa nel comico; muoiono le stesse parole. Quasi mai è redditizio andare a risvegliare le ombre del passato.

Brandi, al contrario, tra quelle ombre dovette sentirsi a suo agio, quasi indifferente al depotenziamento linguistico a cui andavano incontro i suoi coetanei; a parte Penna, che sulle macerie del petrarchismo avrebbe eretto un edificio al sublime, ma tutto suo. E anche lì, sappiamo bene come siano andate le cose, quanto a fraintendimenti. «Ombra» è uno dei termini più ricorrenti nel linguaggio lirico di Brandi, e il tema della descensus ad inferos non gli è estraneo. Il dialogo con il passato, non importa quanto fosse vasto, è una prerogativa antimoderna con cui il giovane esordiente plasma una materia espressiva che di fatto stenta a contenersi, con notevoli fughe, nei limiti in cui Raimondi l’aveva costretta. La sua scelta di fondo potrebbe definirsi antivirtuistica, nel senso leopardiano di elevare un vero e proprio controcanto alla modernità. È ciò che Raimondi ha potuto scambiare per l’umile modestia di una voce diversamente intonata. Proprio Leopardi è il metro, o la cartina di tornasole, attraverso cui rilevare come e quanto la tematizzazione della solitudine permei ciò che Perrone giustamente riconosce come il dramma delle delusioni della vita intima, come dolore e difficoltà a vivere. 

Leopardi è dunque il punto di partenza, l’omphalos intorno al quale ruota un intero sistema espressivo. Le tracce sono ovunque, pervasive. Possiamo però addentrarci ulteriormente e scoprire che la lingua dei Canti, talvolta liberamente rimodulata su Foscolo («E tu comparsa / d’infinita tragedia» leggiamo in Atleta moderno, figura che presenta una ‘inedita consonanza penniana) apre due strade: una, minoritaria, che porta a un certo parodismo di Pascoli (si veda, per esempio, l’attacco di Logorio del tempo), l’altra, ben più evidente, che conduce a una più decisa intonazione dannunziana e da qui, per inedite rivisitazioni simboliche, sfocia nel primo Quasimodo, in un cauto ermetismo o in una complessità sintattica dietro cui si ritrova anche una vicinanza a Gatto. Non manca, come si è osservato, qualche accento penniano, ma tutto è subordinato a un’aggettivazione dannunziana. Non c’è bisogno di scomodare Barthes per ricordare come l’immaginario e l’ideologia di un autore passino proprio attraverso gli aggettivi. E sono quelli che riconosciamo tra le Elegie romanePoema paradisiacoAlcyone.

È un dato che si coglie già nel 1935. Il linguaggio tende all’antico e al sublime, come dimostrano certe determinazioni spazio-temporali («ove»), le elisioni e i troncamenti già evidenziati da Spaziani, a cui possiamo aggiungere la frequente inversione tra verbo e oggetto e l’anticipazione degli aggettivi sui sostantivi. Sono scelte stilistiche precise e coraggiose, rispetto alla linea dominante Gozzano-Sbarbaro-Montale. E si comprende ancor di più la distanza di quest’ultimo a fronte di alcuni residui di linguaggio ottocentesco variamente attestato («sudata palestra», «diuturno travaglio»). Davvero si capisce la difficoltà di Montale: qui, alla lingua poetica, non è stata imposta alcuna sordina, al punto che la stessa tematizzazione di Leopardi dovette sembrargli troppo facile, quasi un gesto da dilettante ancorato agli stilemi dei poeti studiati nelle aule di scuola. 

Sembra mancare un mondo, rispetto a una realtà che subisce un forte processo di interiorizzazione. E certo rispetto a quello da tarda belle epoque à la Gozzano, o al deserto intimo di Sbarbaro, o ancora alle ontologie in negativo di Montale, poco si comprende l’assenza di un’emergenza storica, che lo stile disperde nell’astrattezza o nella genericità dei segni. Voglio dire che la storia, con o senza la maiuscola, in quei poeti appare attraverso la parodia, la lucida disillusione, la profondità metafisica (nel ‘35 non erano ancora apparse Le occasioni); non è qualcosa di diretto, che irrompe sulla scena di un dramma lirico, ma è qualcosa di già avvenuto. In Brandi si avverte una decisa, rassegnata tensione antifinalistica che la poesia recente aveva saputo camuffare in caleidoscopiche rivisitazioni del nichilismo leopardiano; il poeta di Primavera è invece più determinato e con un forte rovesciamento di segno, degno di Eliot, ci allerta sul comune destino di finitudine: «Nella nuova trama / mi chiama / la stagione: / è la solita trama / di tutte le persone. // Stessa brama / da tempo /spengo e riaccendo. // Non c’è che morte / per sorte».

Si delinea così una linea precisa di gusto, che Maria Luisa Spaziani legge come una precedenza del gusto sullo stile. Se è dunque il gusto a determinare lo stile, questa è l’evidenza (l’avventura?) di un solipsismo lirico che di fatto isola l’esperienza di Brandi poeta nella temperie generazionale in cui, con buona pace di Raimondi, si sarebbe trovata invero in difficoltà. Il confronto a cui queste liriche mirano, nel loro insieme, non è con la contemporaneità, ma con le «ombre». Addirittura con l’oltretomba: come Rimbaud Brandi discende «nell’oscuro vòlto», scrive un Inno alle Ombre e così compie la propria traversata ultraterrena, ma non per chiedere indicazioni di sorta come gli eroi classici. Il suo non è un espediente epico-narrativo, ma un modo per conoscersi, per andare ancora una volta incontro a sé stesso, a un’«innocenza» profonda, primigenia, condivisa con Penna e in grado di confondere le «astute reti» del destino (A porta Inferi), se solo l’angelo della morte avesse un cuore.

Quello di Brandi è un leopardismo senza illusioni, estremizzato, nichilistico senza maschera. Con il coraggio di chi può attestarsi come la fonte di sé stesso, in Domenica e omaggio a Leopardi il poeta allestisce un sapiente, distaccato bilancio di solitudine e distacco da qualsivoglia idea di speranza, «infida sorella». In Voce sola cresce sensibilmente la presenza di lemmi come «ombra», «ansia», «angoscia», insieme a un termine squisitamente ermetico come «attesa», o «veglia». In effetti il retaggio ermetizzante si fa più evidente anche nelle successive Elegie (sogliaattesaassenza, e ancora desideriovigiliaavvento), fino all’ultima, dove l’apertura metafisica, tra Rilke e De Chirico, pietrifica l’enigma stesso del vivere, lo fa implodere in una materia inaccessibile. Qui l’«infanzia implacata» segretamente continua a irrorare di senso le domande estreme, fino al riconoscimento e all’accettazione di non sapere nulla («l’essere / dell’esistenza ignoro. Inumato son io / in me»), come imbozzolato nella rivisitazione di un lontano simbolo montaliano (Crisalide) che non rinvia, però, ad alcun futuro.

 

venerdì 1 dicembre 2023

«Tutte le poesie» di Cesare Brandi a Roma.

Martedì 5 dicembre, a Roma. Per scoprire il versante lirico di uno dei maestri del Novecento. "Tutte le poesie" di Cesare Brandi, Edizioni della Cometa, per la cura di Aldo Perrone.