giovedì 27 agosto 2015

AILANTO n. 20 - su Michael Krüger




Ci sono molti modi, e anche molti “ingredienti”, per declinare il nostro sentimento del tempo. Michael Krüger lo sa bene. Il suo nuovo libro del 2013, apparso quest’anno in italiano nella traduzione di Anna Maria Carpi, infaticabile traghettatrice della poesia tedesca, si intitola Spostare l’ora, ed è certamente tra i libri più densi e complessi che siano apparsi sul tema. Questo poeta, infatti, non si limita a definire il senso della caducità con il tono elegiaco di molta poesia moderna, ma lo racconta, e lo analizza, secondo una più ampia tradizione, in rapporto alla natura. Anzi, in tutto questo libro si gioca una partita importante tra natura e ragione, a partire dall’epigrafe iniziale da Ramón Gómez de la Serna (o Sierna): «La ragione procura sempre tristezza», a cui fa da perfetto controcanto la chiusa di una poesia come Casa per l’estate, Pasqua: «Nessuno sa come nasca la bellezza / e nessuno vuol sapere perché / noi ne abbiamo bisogno, è che una volta tanto / vorremmo non doverne parlare».
Questa chiusa, come un po’ tutte le poesie del libro, che si concentrano le loro immagini in un sorta di vortice aforismatico, in un nucleo che racchiude i significati possibili, ha un po' l’aspetto di una greguería, ovvero di quella frase un po’ ingegnosa che si costruisce sullo scontro fra ragione e realtà. È un vero e proprio genere, il cui iniziatore è stato de la Serna; il quale, tra l’altro, è stato un importante frequentatore delle avanguardie, oltre ad essere il punto di riferimento, neppure ventenne, dei futuristi spagnoli. Spostare l’ora ha in sé anche quest’ambizione, di cavalcare il tempo, di dominarlo attraverso l’unico gesto possibile: spostare in avanti le lancette dell’orologio. Ma è proprio nell’esercizio di questo piccolo dominio meccanico che il poeta si ritrova calato, inevitabilmente, in quel dissidio primario, dove le leggi implicite del mondo naturale e gli sforzi della ragione per ricaricare di senso quello stesso mondo ripetono una ben più antica dicotomia. Natura e ragione si fronteggiano, in queste ultime poesie di Krüger, ma lo fanno sullo sfondo del tempo, del suo fluire e delle sue inesorabili, crudeli metamorfosi. Il futuro, se ci sarà, sembra tutt’altro che un luogo ospitale; e ogni tentativo di chiamare nuovamente le cose (c’è un continuo impegno nominalistico, in questa scrittura, che riporta i segni linguistici a un’immagine originaria, pura) deflagra sulla soglia delle nostre (e non solo nostre) finitudini.
Per questo non ha senso interrogarsi sulla bellezza, che è lì dove possiamo e sappiamo riconoscerla. E soprattutto ci continua a donare le sue parole, rispetto alle quali le nostre, così intrise di contingente mortalità, si mostrano come povera cosa. Superare limiti e confini, che sono della nostra condizione quando si consegna alle armi della ragione, vuol dire ritrovare quel rapporto ancestrale con la natura e con il suo linguaggio. Così, finalmente, possiamo pensare di perdere la nostra casa, le sue dimensioni abitudinarie, per imbatterci in una casa più grande, come accade agli uccelli di Passeggiata nel bosco: «Poi se ne vanno. È ancora poco chiaro / se volino ad Atene o a Gerusalemme, / poiché se appartieni al bosco / ti dimentichi dov’è casa tua».

Michael Krüger, Spostare l’ora, trad. di Anna Maria Carpi, Mondadori 2015, e. 18.00

Non è un haiku

Un merlo morto
sotto la mia finestra.
Per un’ora aspetto
che si sposti
l’ora.

domenica 9 agosto 2015

AILANTO n. 19 - Su Domenico Adriano


C’era una rivista di letteratura, a Roma, negli anni Ottanta. Si chiamava «Arsenale» ed era diretta e animata, tra gli altri, da Gianfranco Palmery e Giovanna Sicari. Intorno a quell’esperienza si era consolidata, nel tempo, anche una piccola ma preziosa attività editoriale, «Il Labirinto», sopravvissuta alla stessa rivista. Gli autori proposti facevano parte del gruppo di «Arsenale» o vi gravitavano intorno: Francesco Dalessandro, Sauro Albisani, Annelisa Alleva. Frequenti anche le traduzioni, e voglio qui ricordare almeno i nomi di Keats e di Jude Stéfan, poeta amato da Sergio Solmi. Anche Domenico Adriano, di cui appare oggi Dove Goethe seminò violette, frequentava gli incontri di «Arsenale».
Il titolo allude a un ideale giardino di poeti, a una specie di hortus del sogno e della memoria, in cui, non a caso, ci imbattiamo in ombre romane (Dario Bellezza, lo stesso Palmery) o assistiamo a rapide pennellate di ritratti di viventi (Patrizia Cavalli). Il giardino, dove riposano anche Keats e Shelley, si identifica con quel luogo speciale, caro a tutti i cultori della poesia, che è il cimitero acattolico di Testaccio. Accanto a questi nomi, e a Bellezza, vi riposano Wilcock, Gregory Corso, Amelia Rosselli e molti altri. Vorrei partire da questa immagine per avviarmi nel libro di Adriano, libro straordinariamente compatto e cementato proprio dai due assi della visione onirica e del ricordo (ed entrambi, a loro volta, leopardianamente congiunti in una sola corrente affettiva, che quasi inebria il lettore di un’aria lirica un po’ desueta, felicemente sabiana, in un rigore assoluto di dettato e di stile; a fronte di molta poesia odierna sembra davvero rinviare ad altre e più nobili stagioni). Il volume è introdotto da un’epigrafe da Szymborska, con l’immagine del bussare alla porta, e si chiude con la stessa immagine. Coerentemente. Come il Nobel polacco bussa «alla porta della pietra», così un altro personaggio, Maria Obolensky, bussa alla porta del pensiero, in quel giardino di pietra che ospita i poeti. Forse ai più dirà poco o nulla, questo nome, ma appartiene a una giovane russa morta nel 1873, appena diciassettenne, e alla quale è dedicata una delle più belle tombe con rappresentazione a tutto tondo del cimitero di Testaccio. Un’allegoria nell’allegoria: fugacità e finitudine, bellezza e caducità si scontrano con la durata della poesia, la drammaticità della morte con il cristallo dell’arte.
Tutto ciò si ridurrebbe alla ripetizione di un luogo letterario, se non intervenisse, nei versi di Adriano, proprio quel cemento affettivo, che restituisce vita a ciascun personaggio, rendendolo prossimo e legandolo, inoltre, a una fitta rete di icone famigliari che trascendono la stessa biografia del poeta e affiorano da più lontano, dai tempi remoti della guerra, dei bombardamenti. Qui il naturale e l’umano si collocano sullo stesso piano, secondo una prospettiva che procede dal basso verso l’alto: a dominare sono figure di alberi e uccelli, nelle quali il poeta ricostruisce le proprie figure dell’affettività, ma non secondo una precisa scansione dei ruoli. Si può essere madri, padri o figli, o nonni, davvero senza una precisa soluzione di continuità, poiché il flusso della memoria coinvolge ogni evocazione e ogni apparizione in una sola, fittissima rete, le cui maglie sono fatte di poesia. Ce lo rivela il sistema delle citazioni, esplicite o implicite, che rimandano alla nostra migliore tradizione lirica: e, ancora una volta, la linea Leopardi-Saba sembra dominare questo libro che trasuda un’insolita felicità.

Domenico Adriano, Dove Goethe seminò violette, Il Labirinto 2015, e. 12.00.

«Non vedo più non distinguo
i colori. Ora mi aiuta solo
il pensiero. E se io fossi un uccello?
Non potrei nutrirmi
della mela più alta, di una ciliegia
rossa, del fico che arde
fin dal primo mattino.
                                         Avessi le ali,
andrei figlio incontro al mare».