Sopra un comò nella casa più amata, nella stanza che ho sempre sentito come il mio solo vero territorio e dove ho scritto quasi tutto quello che ho scritto, c’è una piccola cornice dorata, che mi fu donata tanti anni fa da Anna Cascella. Non resterà ancora per molto, lì sopra; la casa è stata venduta senza che io fossi in alcun modo coinvolto. Chi era convinto di esserne il solo proprietario, ha deciso anche per me, rimuovendo i miei sentimenti e la mia presenza. In quella cornice c’è una vecchia fotografia, che risale al settembre del 1992: vi sono ritratti il poeta Maurizio Marotta e sua moglie Francesca, allora fidanzati. Non l’ho mai spostata da lì. Ogni volta che nel cuore dell’estate rientravo in quella casa, era come se Maurizio e Francesca mi dessero il bentornato, come se fossero lì ad accogliermi. Era un segno di continuità, un punto fermo. Sorridono entrambi.
Ero stato io a scattare quella foto, eravamo a Pozzuoli. Avevo conosciuto Maurizio solo pochi mesi prima, a Macerata, in un incontro sulla nuova poesia italiana, organizzato da amici che poi avrebbero dato vita alla casa editrice Quodlibet, una delle poche vere realtà del nostro panorama culturale. L’ingresso di Maurizio nella mia vita ruppe un senso di isolamento, di povertà generazionale che sentivo già allora. L’hanno chiamata la “generazione invisibile”, la mia. Eravamo pochi, in effetti, pubblicavamo poco e con difficoltà, quasi alla macchia. Maurizio divenne in breve tempo una delle rare, continue presenze affettive per me. Il nostro rapporto fu segnato fin dal principio da un’economia che potrebbe apparire incomprensibile per chi è abituato alla fluvialità degli affetti meridionali, alla loro teatralità; una teatralità che, schivi come eravamo, non potevamo che trasformare in ironia, ovvero in una specie del distacco. Non avevamo bisogno di molte parole e neppure di tanti incontri; a volte passavano anni senza riuscire a vedersi, ma era sempre come se ci fossimo salutati il giorno avanti. Anche le nostre lunghe telefonate erano scandite da quell’ironia, avevamo bisogno di quella distanza per poi esorcizzarla. Gli accadeva lo stesso con gli altri amici più cari e di più vecchia data di me, come Gaetano Bevilacqua e Giuseppe Grattacaso, con cui mi sarei ritrovato a condividere altrettanta amicizia e nello stesso modo. Sono loro, con le sue poesie, il lascito di Maurizio per me, ora che non c’è più e i ricordi si sovrappongono alla rinfusa, consegnandomi una malinconia a stento gestibile. Ma si può davvero gestire, la malinconia? Si può davvero frenare il dolore di un’assenza improvvisa? Sono tutti bei ricordi, non c’erano ombre tra due persone schiette. Forse nelle pause e nei silenzi ci siamo detti anche quanto poteva segnare un’altra distanza, tra me e lui, ma era un luogo neutro, qualcosa che avremmo saputo colmare, sempre e comunque. Anche adesso, che non potrò più abbracciarlo.
Sul camino di quella stessa casa c'è una piccola melagrana intagliata, rinsecchita dal tempo. È il frutto di Persefone. C'è anche un manufatto di terracotta, che serve per le costruzioni: si chiama "il vuoto che sostiene". Sono antichi doni di Maurizio, forse il suo passaporto per dov'è ora, oggetti magici per continuare a parlarci.