martedì 15 agosto 2017

A proposito del Libro degli amici



Ciò che a prima vista appare come una semplice raccolta di ricordi, una serie di rievocazioni, non tarda a rivelarsi come un oggetto complesso e difficile. Più ci si addentra nelle pagine di questo Libro degli amici, edito da Neri Pozza, più si colgono il disegno, la struttura profonda che lo animano. Il genere a cui appartiene, quello della memorialistica, lo comprende fino a un certo punto; non si tratta, in ogni caso, di un genere principe delle nostre lettere, anche se vanta esempi più che illustri, soprattutto – questo è interessante – nel secolo dei lumi. Penso a Goldoni, a Vico, a Casanova, ad Alfieri, solo per citarne qualcuno tra i più evidenti.
Dunque, nella nostra tradizione dev’esserci stato – e forse c’è ancora -  un legame tra ricordo e ragione, anche se l’autobiografia, o la biografia di per sé, spesso simulano o dissimulano una certa finzionalità, ovvero una propensione al racconto. Del resto, come ci insegna Leopardi, fingere, che deriva da fictio, vuol dire mettere in moto un racconto del pensiero, nel pensiero: io nel pensier mi fingo.
Sono questioni che ci introducono al primo dei quattro termini che ci vengono incontro dal Libro degli amici e che potremmo così individuare: ritratto, tempo, memoria, cornice. Partiamo dal primo. Quella del ritratto è una lunga storia che tutti conosciamo, tra arte e letteratura, ma quello su cui non si riflette mai abbastanza, anche di fronte al più realistico dei ritratti o a una fotografia, è ciò che l’autore intende illuminare attraverso il suo dosaggio della luce. Un ritratto è sempre una prospettiva, soprattutto se tra il ritrattista e il suo soggetto s’insinua un latro concetto cardine, su cui, invece, da sempre si è riflettuto: quel gemello dell’amore che risponde all’amicizia. Questo è davvero, in ogni senso possibile, Il libro degli amici. Lo si avverte dalla confidenza, che qui non è questione di tono, quanto di modi della descrizione. C’è, dietro questi ritratti, un collante comune, una dimensione sola e unica: Roma. Leopardi annotava nel suo zibaldone che «In un luogo piccolo vi sono partiti, amicizia non v’è. Amicizia non può essere che in città grandi, o pur fra persone lontane» (8 luglio 1829). E in precedenza aveva sottolineato che l’amicizia è «fra uguali» (3 novembre 1821), e che la differenza di età e di esperienza non sono elementi a sfavore, al contrario: «È oggidì meno verisimile l’amicizia fra due giovani che fra un giovane e un uomo di sentimento già disingannato del mondo e disperato della sua propria felicità» (20 gennaio 1820). La ritrattistica di Pecora si muove esattamente su queste linee, e nella maggior parte dei ritratti questa è stata la realtà delle cose. Dei dieci ritratti maggiori di questo libro, solo i rapporti con Dario Bellezza e con Amelia Rosselli possono considerarsi tra coetanei, e quello con Bellezza è stato tutt’altro che facile.
Uno studioso che scriva di un autore mirerà, per quanto possibile, al massimo di obiettività, ma per un autore che parli di un altro autore il tasso di soggettività è sempre più alto. Si finisce inevitabilmente per dire qualcosa di sé. «Il ritratto appartiene al ritrattista», avverte Pecora fin da subito, il che vuol dire che i suoi sono anche degli autoritratti per interposta persona, delle proiezioni, delle rifrazioni, da parte di chi, nell’amicizia, scorge soprattutto l’amore: «Spesso si è trattato di un vero innamoramento. [… ] Chiamo amici quelli che nomino ed evoco in queste pagine. Per lunghi o per brevi periodi di tempo ci siamo parlati, accompagnati, cercati, trovati».
Tempo. È un tempo lineare, biblico, quello di Pecora. Sembrerebbe non tornare più indietro: questa società culturale qui riunita, tutta insieme, sembra muoversi come dietro un velo. Sembra, appunto.  Pecora sa che tra il tempo lineare e quello ciclico della natura e del mito sta un altro tempo: l’infinito che torna nel finito. Un evento, nella nostra vita votata alla finitudine, può ripresentarsi infinite volte. È l’ipotesi che Nietzsche, autore carissimo a Pecora, definiva come l’«eterno ritorno dell’uguale». Se provo a spostare la metafora dall’ambito filosofico a quello letterario, chiedendo aiuto a un altro autore caro a Pecora, ma distante anni luce da lui, questo tempo della rievocazione si chiarisce ulteriormente. In chiusura dei suoi suggestivi, straordinari saggi su Dante, Borges, richiamando il canto di Ugolino e il celebre verso «poscia, più che il dolor, poté il digiuno» (su cui ancora dopo sette secoli si affannano gli esegeti), afferma che l’ambiguità di quel verso (Ugolino ha mangiato o no i suoi figli?) è in verità un falso problema, e che proprio nella sospensione di quell’ambiguità Dante ha voluto consegnarci la figura del conte della Gherardesca; il quale, a ogni nostra lettura, torna sulla scena a recitare per noi la propria tragedia. Come Paolo e Francesca, come gli altri personaggi: riapriamo le loro pagine, ed essi si rianimano per noi.
Dunque ciò che caratterizza un testo letterario da tutti gli altri sarebbe proprio ciò che i teorici chiamano il suo ri-uso; e il ri-uso rende il tempo finalmente reversibile, il tempo della cosiddetta realtà e quello percepito; il tempo dell’esperienza e il tempo interiore di Agostino e poi di Petrarca. Allora si spiega che l’attenzione del ritrattista non colga tanto gli aspetti fisici, a cui Pecora è davvero poco o per nulla interessato (tranne di fronte alla bellezza conclamata di Anna Amati e di Elsa de’ Giorgi); lo appassionano di più i caratteri, gli umori, le psicologie. E, naturalmente, gli ambienti. Tutti i grandi ritratti si muovono “in situazione”, non ci sono mai primi piani, ma scene che si svolgono all’aperto o nel chiuso domestico.
Memoria. È finanche ovvio scomodare Proust. Perché Il libro degli amici è anche una «ricerca del tempo perduto». Non del tempo perso, che non si rende mai reversibile, ma di quello trascorso nell’affetto: questo ritorna sempre, in queste pagine. Perché la memoria è un potentissimo filtro affettivo. Anche quando siamo noi a provocarla, c’è sempre una forte componente involontaria. La memoria pesca dove vuole lei, basta inzuppare una madeleine ed ecco che la ricerca del tempo perduto prende avvio e la nostra vita – o meglio, il ricordo della nostra vita – prende forma nella nostra mente e si sostituisce al presente, lo sospende.
Siamo davvero noi i registi di tutto questo, come vorrebbe Pecora? Sì, ma fino a un certo punto. Forse, più che i registi, siamo i provocatori, o i provocati. Alcuni di questi ritratti nascono da occasioni, e l’occasione è, da sempre, un formidabile vettore espressivo, per Pecora. Lo ha ricordato di recente Roberto Galaverni sul «Corriere della sera», citando quest’autore come «capace di notevoli poesie d’occasione». L’occasione provoca la memoria. Accade per Wilcock, il cui ritratto si lega a un lontano convegno di studi; per Francesca Sanvitale, il cui ritratto fu scritto per la prestigiosa rivista «Belfagor», come un precedente ritratto di Penna.
Pecora torna su quelle pagine, le riscrive, le aggiorna. Le consegna all’unità del libro. Così veniamo all’ultimo termine, cornice.
La struttura del Libro degli amici è chiara. Una breve premessa, in corsivo, che dà voce all’autore piuttosto che al narratore; poi un ampio capitolo introduttivo, dove scorrono molti personaggi tra arte, musica, letteratura, scienza. Seguono i dieci ritratti maggiori. Ancora una brevissima apparizione dell’autore in corsivo, quindi un altro ampio capitolo conclusivo, assai disincantato. È una vera costruzione a cornice, che incastona le dieci narrazioni più ampie in un ambiente ancora più ampio. Solo che, al contrario di quanto accade nella nostra tradizione di cornici (pensiamo a Boccaccio o a Basile), abbiamo qui un unico narratore interno, un po’ come la Sherazade delle Mille e una notte. Eppure, come i narratori del Decameron, Pecora ha scritto da una condizione di isolamento, quasi forzato da una malattia di stagione. Gli ingredienti della struttura a cornice sembrano esserci tutti e come in ogni opera incorniciata, a chiusura del libro si avverte l’esigenza di proseguire: i racconti sono finiti ma se ne vorrebbero ancora, tanti altri ancora. Perché di quel mondo, spazzato via dalla caducità come dalla rivoluzione digitale, che ha radicalmente mutato anche la natura dei nostri rapporti e la nostra capacità di averne e soprattutto di mantenerne, sentiamo in chi è rimasto sospeso tra vecchio e nuovo una potente malinconia.
Pur avvertendone i limiti, che solo un uguale poteva puntualmente registrare sottraendo questi personaggi al loro stesso mito, per farne di nuovo umani in carne e ossa; pur avvertendo questi limiti, quel mondo si attesta come qualcosa di unico, che solo la forza della letteratura torna oggi a restituirci attraverso le parole di Elio Pecora. Allora ricordare non è più soltanto una necessità,ma un imperativo, in «troppi anni senza lasciare tracce», leggiamo, in chiusura, tra amarezza e gratitudine.

lunedì 7 agosto 2017

AILANTO n. 47 - Su Maria Borio




Non c’era bisogno che Maria Borio, nel licenziare con L’altro limite la sua prima prova organica, scrivesse nella nota finale che queste scritture fanno parte di un più ampio progetto: l’idea della costruzione si avverte fin dalle prime pagine, nel disegno del libro si intuiscono le tracce di una sinopia, di un vasto affresco mobile, però, che somiglia più a un work in progress. Del resto, ogni progetto che non risponda a tale movimento, in letteratura è destinato a sconfessarsi. Così quella che potrebbe sembrare una plaquette, un’anticipazione di qualcosa che deve ancora compiersi, si mostra in realtà con la tenuta di un libro, per quanto aperto, sospeso su un’incessante tensione proiettiva. C’è, quasi sempre, uno «schermo», o un susseguirsi di scene come dietro una quinta teatrale. L’autrice ci avverte che quello schermo è il «grande vetro» dietro cui sintetizza la reificazione del «mondo digitale», e questa è la vera novità: Maria Borio congeda il mondo della poesia analogica, per restare nella metafora tecnologica, che appare come relegato dietro il velo di quello schermo, e da lì proietta, o si lascia proiettare, le nuove immagini. Insomma, la scrittura si è fatta digitale non perché è mutato il suo supporto, ma perché quella è la sua nuova, ancora indefinibile sostanza.
(Non so se “reificazione” sia il termine esatto. Presuppone ancora una visione dalla parte di una realtà analogica, una capacità critica che invece il poeta affida ora alla melmosità delle sue parole, o di cui, probabilmente, non vuole essere più consapevole. Questa mi sembra la prima opera davvero digitale, in poesia, affacciata su un presente impietoso).
Non sorprende, allora, anche una certa metatestualità, un riflettere interno più sui modi che sulle ragioni della poesia. Ad esempio la questione della forma, che passa dall’ambito della realtà a quello della pagina, come problema che non si risolve in un ritorno alla Gestalt, perché digitale vuol dire anche virtuale, e ogni processo poietico finisce per coincidere con se stesso, in una crescente autoreferenzialità. Si mostra per ciò che è, un continuo decostruire e ricostruire il mondo, a patto di riconoscere, appunto, che quella realtà non è fatta solo di esperienza; o meglio, il concetto stesso di esperienza si è inevitabilmente corroso e ampliato, e ciò che viene dallo «schermo» è altrettanto opprimente e concreto di quanto è ancora possibile sperimentare attraverso gli altri sensi, che non siano la vista e l’udito. Spesso in questi versi, che campiscono come cellule isolate in un potente e inarrestabile fluire analogico, e che non riesco più a chiamare poesie nel significato tradizionale, perché la costruzione nega la forma, come a circuirla, a blandirla per poi disfarsene, non senza una certa crudeltà, è proprio la scrittura, nel senso più ampio e moderno, a dominare. Non potrebbe essere altrimenti, perché in questo primo libro, o tappa, necessariamente doveva agire la foga della ricerca e della definizione. E con il problema della forma doveva altrettanto porsi quello del soggetto, forse qui inteso più come prospettiva, come luogo da cui osservare e raccontare, piuttosto che come entità lirica. E dunque, come il primo uomo che si affacci su questa landa ancora indecifrabile, il poeta va ri-nominando le «cose». Maria sa bene che in poesia questo termine non significa nulla, che spesso è un espediente, avrebbe detto Verlaine, di bassa cucina. Ma proprio esasperandolo ne fa il veicolo di una semantica nuova, di una lingua che si sta plasmando, ed è ancora di là da venire.

Maria Borio, L’altro limite, LietoColle 2017, e. 13.

Sembra quasi che tu non abbia vissuto
tutti gli anni sconnessi
dopo la rivoluzione, o l’ipocrisia
ingenua di invecchiare
- forse questa gabbia,
la sicurezza, o un pezzo
di vita come carne comprata.
Se sapessi quale filo invisibile,
quale corda tesa e bugiarda…
anch’io sotto l’alluvione
sotto al peso incalcolabile?
anch’io vorrei smettere di dirmi
io.


sabato 5 agosto 2017

AILANTO n. 46 - Su Milo De Angelis









L’ultima raccolta completa delle poesie di Milo De Angelis risale al 2008, per le cure di Eraldo Affinati. Dopo quella data si sono aggiunte altre due tappe importanti nel percorso di quest’autore, Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010) e Incontri e agguati (2015). Era dunque necessario un aggiornamento dell’intero corpus, operazione a cui Mondadori ha provveduto con un volume, Tutte le poesie 1969-2015, che si avvale della postfazione e della bibliografia di Stefano Verdino. Il libro inaugura la nuova serie con cui la collana principe della poesia contemporanea, «Lo Specchio», riprende il suo percorso dopo un restyling non solo grafico, ma anche progettuale.
Non è certo semplice racchiudere in poche note il racconto di oltre quattrocento pagine che contengono una vita intera di poesia, e ancor meno lo è quando il poeta in questione è uno dei più frequentati, dai lettori e dalla critica, ma anche uno dei più complessi del panorama lirico tra i due secoli. Ad aiutarci nell’attraversamento concorrono senz’altro le osservazioni della postfazione, e ancor più la densa nota d’autore che chiude la lunga sequenza delle poesie. La vera novità del libro, rispetto alla confezione editoriale degli «Oscar» di poesia, ormai dismessi, è proprio questa: affidare alla diretta voce del poeta quella che non vuole soltanto risuonare come una dichiarazione di poetica, ma anche come una descrizione di lavoro, come un inesausto work-in-progress aperto al lettore. Un’autentica narrazione non solo dell’insorgere di una vocazione, ma anche di come questa energia irrinunciabile e soverchiante sia stata poi tradotta nei versi qui riuniti, a cui si aggiungono (altra importante novità) alcune poesie “giovanili”, conservate negli anni da un antico maestro e sodale come Angelo Lumelli. La parte delle poesie, così, dialoga in modo più fitto e concreto con il racconto della propria scrittura, a partire dalla sua scoperta e dalle prime prove compiute. Da quelle pagine fondamentali ci vengono incontro alcune categorie, alcune immagini: la «permanenza», lo «svelamento», il «ritorno», il «silenzio», il «tempo». Sono i grandi concetti, ovvero le linee-guida, che possiamo ritrovare in alcuni antecedenti novecenteschi che De Angelis ha eletto tra i suoi interlocutori previlegiati (penso, sopra tutti, a Celan, a Rilke, a Marina Cvetaeva), ma che in realtà attraversano tutta l’ossatura della tradizione poetica occidentale, dai classici greci e latini, verso i quali questo autore non ha mai cessato di dimostrare un’attenzione e forse una predilezione che in altri poeti appare più fievole.
Nel cercare di riprodurre i propri fantasmi e le proprie ossessioni sulla carta, De Angelis ammette fin da subito una sorta non di reticenza ma di impotenza. Parlare della poesia è qualcosa che «mi atterrisce e mi atterra», dichiara, per poi spostare il paradosso  sulla natura stessa dell’atto poietico: ambire alla «permanenza» con gli strumenti più esili e indifesi che il presente possa metterci a disposizione. Ma il linguaggio dei poeti si sostanzia di questa contraddizione e dunque di questo miracolo: il suo effetto più pregnante è quello del ri-conoscimento, sulla linea ideale che congiunge Leopardi a Pavese, di un «mondo precedente», verso cui attua, nella spinta mitografica della parola, un possibile «ritorno». Il «porto sepolto» di Ungaretti ne diventa il simbolo più vicino ed efficace. Prima che tutto ciò possa compiersi, il poeta De Angelis ingaggia una lotta con il «silenzio», per sottrarvi quei «brandelli» di un racconto possibile su cui allestire le sue ardue impalcature liriche. È con questa energia implosiva che la sua scrittura da sempre si misura affinché attraverso la porta della Poesia possa infine mostrarsi «la vita autentica».

Milo De Angelis, Tutte le poesie 1969-2015, Postfazione e Nota biobibliografica di Stefano Verdino, Mondadori 2017, e. 22.

Il cerchio

Un modo di violare la grazia
di questi abiti, tra le danze e il vino
e i volti fini:
non c’è. La nebbia entra dalla finestra
morbida, avvolge
ogni crudeltà, vellutandola. È un inverno già caldo
in cui ciò che manca annuncia il ritorno
e là dentro l’agonia degli animali compone un ordine
musicale.
Anche i buchi di morfina
nascondono il sangue.