Vi segnalo l'uscita del nuovo libro di Fabrizio Cavallaro, I silenzi, per Archilibri, per ora acquistabile sul sito dell'editore. Posto qui la prefazione che ho scritto per le sue poesie.
Più si guarda agli oggetti della letteratura – versi, prose, drammaturgie – dal punto di vista dei temi, più si prende consapevolezza del fatto che ogni immagine tematica, ogni motivo, a sua volta ci indirizza verso un contenitore più ampio, ragion per cui un tema può diventare motivo di una rete che lo ingloba, come in un sistema di scatole cinesi o di matrioske. E mentre ci spingiamo avanti, con l’ostinazione dei lettori che pretendono di andare in fondo a ogni questione, ci renderemo sempre più conto che le nostre matrioske, alla fine di questo percorso un po’ perverso, sono quattro, come i punti cardinali, come gli estremi di una rosa dei venti: amore, morte, guerra e viaggio. Dalle origini della nostra tradizione letteraria, fin dalle grandi costruzioni poematiche che l’hanno originata e nutrita, le cose sono andate così. E non sono andate diversamente neppure se ci affacciamo su altre tradizioni, che abbiano o meno dialogato o interagito con noi: noi occidentali, intendo.
Se ancora, in questo infinito processo à rebours, decidessimo di stringere la visuale su quelle quattro gigantesche bambole di legno, ci accorgeremmo che i loro colori non sono poi così diversi; come nella rosa dei venti, i quattro estremi si vengono incontro, nel senso che, inevitabilmente, tendono uno verso l’altro. Prima che da tramontana arriviamo a levante, ci imbatteremo nel grecale; e nel compiere il giro, avremo doppiato molti più promontori e attraversato molte più correnti di quanti potevamo attenderci. Insomma, quelle matrioske sono un po’ come il vaso di Pandora: contengono davvero di tutto, nel bene e ancor più nel male che agita, dal profondo, le trame in cui ci imbattiamo e il desiderio di noi lettori: il desiderio che ci conduce dritti verso l’epilogo, qualunque esso sia, a qualsiasi evento o reazione ci prepari.
Amore è il punto cardinale da cui prendono avvio i versi di Fabrizio Cavallaro. Eppure è evidente fin dal principio, senza neppure dover avanzare di troppi testi, che anche lui deve aver necessariamente superato molti fra promontori e correnti, esponendosi anche a venti contrari. C’è qualcosa di più di un sentore di guerra, nelle sue immagini che rispecchiano altrettante esperienze, nei suoi bozzetti di incontri urbani, che rinviano a piccoli, ma quanto intricati viaggi della mente e del corpo. Del resto, Eros è il più infido dei soldati: è un tiratore infallibile, un cecchino sempre pronto a porci di fronte alle nostre debolezze, a ricordarci la nostra caducità. Perché, dietro i suoi colpi, o mentre ci sentiamo trafitti, inevitabilmente avvertiamo la presenza di Thanatos, ora farmaco, più spesso memoria di quanto l’amore ci sottrae, ogni volta avviando una metamorfosi irreversibile. Quando Eros raggiunge il suo scopo, non saremo mai più gli stessi; una chimica delle pulsioni smuove e rimodella l’intera tavola dei sentimenti, degli stati d’animo, delle disponibilità e delle ritrosie.
Non è un caso che l’altro versante lungo il quale Cavallaro esercita la sua creatività sia quello della fotografia: le sue poesie sono il fermo immagine dei suoi incontri, di stagione in stagione. Appuntamenti, conoscenze fortuite, apparizioni improvvise o abboccamenti più o meno mercenari, tutto è fedelmente riprodotto da una poesia-obiettivo, che cerca, riuscendovi, di conservare la materia dell’evento. In questo, credo, sta la distanza dal grande, irraggiungibile modello che ogni tanto fa capolino dai suoi versi, ora come un fanciullo dispettoso, ora come un ospite inquietante: mi riferisco a Penna, a quel geniale astrattista del desiderio capace di cristallizzare per sempre i suoi ragazzi in un’aura numinosa, un po’ apollinea e un po’ dionisiaca, quel tanto di sapiente miscela tragica che ci rammenti, via Leopardi, l’ineffabilità del desiderio autentico. Perciò posso supporre che Cavallaro intitoli queste poesie al silenzio; eppure si tratta di un silenzio carico di concretezza, con la giusta dose di sensualità vissuta e narrata perché la sua malinconia risulti infine più prossima a Kavafis che non a Penna.
Non c’è solo questo, ovviamente: Eros, portato a termine il suo compito, lascia tracce visibilissime, non solo sulla pelle. La gamma degli umori è piuttosto ampia, in questo libro, nei versi che in un solo richiamo rimico modulano dolcezza e rabbia, afflato e delusione, vicinanza e lontananza. Dunque le matrioske sono state tutte aperte, esplorate, fino all’ultima, minuscola bambola che lascia l’autore – e noi con lui – davanti a sé stesso, senza più attese, senza più sorprese. Il periplo dei territori di Afrodite è stato compiuto, l’intera rosa (altro simbolo d’amore) è stata doppiata. Senza troppi rischi di naufragi, di incaute esposizioni, di cicatrici lente a chiudersi. È un navigatore esperto, che sa bene il pericolo di porsi sullo stesso piano del suo oggetto. Cavallaro si misura con i suoi amori – qui sta l’altra differenza da Penna – con la consapevolezza della maturità, il solo antidoto, sebbene parziale, ai veleni del suo ferocissimo antagonista; osserva la gioventù senza mai lasciarsi coinvolgere nell’effimero e nell’illusorio, gioca la sua partita con l’esperienza degli anni. Anche per questo, ogni testo è un racconto a sé, una breve sequenza di immagini che si apre e si chiude nello spazio di un clic, per fare posto ad altre partite, ad altre immagini, nella coazione del desiderio; o forse, non meno drammaticamente, nell’addomesticamento di una solitudine che Eros può soltanto agitare, senza mai davvero scalfirla.