martedì 7 agosto 2018

Angoli interni

È uscito il nuovo libro di Roberto Maggiani, Angoli interni, per la collana di Passigli. Posto qui la prefazione che l'autore mi ha chiesto. Prosit!





Cosa sono gli «angoli interni» che intitolano il nuovo lavoro in versi di Roberto Maggiani? Pieghe improvvise del pensiero, capriole visive e concettuali, immagini che provengono dagli ambiti remoti delle più antiche cosmogonie e historiaenaturales, fino a ricondurci al nostro instabile, incauto presente, in un cortocircuito di tenerezza e di ironia: «il delirio della modernità / ha i tuoi geni». Viene da pensare alla Metafisica tascabiledi Valentino Zeichen, al suo ridurre a un’ipotesi essenziale e demistificante i massimi sistemi. Sfogliando queste poesie trovo conferma della sua presenza nella dedica di un testo come La mela. Abbiamo conosciuto finora un poeta di sintesi fulminee, di idee tradotte in poche, icastiche rappresentazioni; entrando nel pieno della sua maturità, Maggiani ci pone di fronte a nuove e più ampie misure, non tanto nella struttura del singolo componimento, quanto nell’orchestrazione complessiva di questo libro. Qui si assiste a una lunga rincorsa, prima di compiere il salto definitivo. 
L’autore ci invita a sondare e a ripercorrere, insieme a lui, una strada che si perde a ritroso oltre l’origine della specie, e che dall’altro versante giunge fino a noi. È un viaggio lungo e difficile, che si snoda attraverso ben quattordici tappe - le sezioni in cui si raccolgono queste poesie - ma senza rispettare la nostra abituale concezione di un tempo lineare. Ogni testo affonda con i suoi interrogativi nell’insondabile territorio di un “prima” cosmico e geologico e con un potente balzo in avanti si chiude sull’oggi, dove ancora sussistono le stesse tensioni, gli stessi desideri, ultime proiezioni di una necessità arcaica. È curioso: mentre ci avverte che i nostri sentimenti primari, come le nostre funzioni, hanno un’implicita storicità, che affonda addirittura nelle ere geologiche, nella lunga durata di una preistoria ineffabile, Maggiani lascia che il tempo imploda su sé stesso, «in una piccola scatola» (L’Esistenza), proprio quando una nuova vita va formandosi («mentre la vita cresce nel tuo seno»). 
Esiste, insomma, un sedimento, una traccia possibile (forse imprigionata nelle stromatoliti) di questo lunghissimo percorso evolutivo, ma quando si tratta di portarla allo scoperto è l’oggi a imporsi vorticosamente, a riportarci ex abruptoalla nostra condizione attuale. Più che legittimo chiedersi, in questa prospettiva, «Che cosa facevo / prima di essere vivificato?», sfiorando pericolosamente quella terra di nessuno dove l’ontogenesi incontra la filogenesi, la ripete, la mima, potremmo dire infine con l’artificio stesso della poesia. Perché la vita, per Maggiani, è anzitutto un serbatoio di metafore, un immenso contenitore sempre pieno delle sue curiosità di scienziato e viaggiatore. Riconoscerla come una metamorfosi incessante, come un’infinita trasposizione molecolare, un succedersi inesausto e inesauribile di combinazioni, è per lui qualcosa di automatico, forse di tautologico. Ma tant’è: nulla appare poi così scontato e anche l’ovvio diventa una categoria antropologica da sondare, da attraversare in cerca di nuove scoperte, ma anche di conferme. 
Il problema di fondo è la vita, i modi del suo affermarsi all’interno di ogni relazione possibile. Dunque l’amore, movimento necessario che platonicamente spinge le realtà a fondersi, e così gli uomini, nel superamento del loro egoismo. Un’eco da Agostino, piuttosto che da Schopenhauer, per il quale l’amore è una mera questione di Natura, una semplice pulsione erotica. Ma Eros qui si tramuta presto, da una pagina all’altra, in funzione creatrice, e lo fa attraverso il solo strumento che la Storia – e la Poesia – possono mettergli a disposizione: il linguaggio. La Parola s’incarna, come il Logosgiovanneo, che riprende e rielabora in chiave cristiana il mito adamitico della nominazione del mondo. È solo allora che la realtà comincia a esistere, come riflesso, proiezione, creazione dell’homo sapiens attraverso la lingua.
Maggiani sa bene, da cultore delle scienze esatte, che si tratta di un mito, ma da lettore sa che ogni mito contiene una cellula di verità; da poeta ci insegna che il mito è la sostanza di cui ancora oggi s’impregna ogni nostra costruzione del mondo. Di un mondo che ancora vorrebbe sorprenderci. Con questi nuovi versi si ricompone idealmente un’antica scissione, quella tra Scienza e Poesia, due metà di una sola mela (ancora un residuo di mito platonico) e di fronte alla variabile (all’incognita?) Dio, l’homo sapiens non può che riaffermare la propria libertà creativa, il pieno arbitrio poietico, rivelandosi in definitiva come il vero faber, come il demiurgo di sé stesso. Come il regista dei propri stimoli.
Verso dove, verso chi dirige ancora una volta Eros, nel «gelo cosmico», la materia stellare di cui siamo composti? Maggiani ha il dono – e vuole condividerlo coi suoi lettori – di avvicinare l’infinito degli spazi celesti e delle ere geologiche al finito apparente dei nostri istanti: consapevole, però, che in essi, dietro di essi, si apre una voragine proustiana di durate altrettanto infinite. Sono questi gli «angoli interni» che ci invita a circoscrivere, col passo felice di chi, ogni volta, si perde e si ritrova.







domenica 5 agosto 2018

La poesia è morta? Viva la poesia

Ogni espressione estetica ha bisogno di un lungo sedimentarsi. C’è un sedimento interno, ovvero la ricerca di una forma, di un’immagine che si traduca in lingua, e un sedimento esterno, ovvero l’attesa che quella lingua sia condivisa, sentita, assimilata. Lavorare sul presente è come vivere in trincea: si rischia di non vedere, di non essere visti, ci si arrocca nelle proprie verità presunte; si è colpiti dal proiettile dell’avversario prima di averlo individuato, si è uccisi da un fuoco amico. Il presente è davvero una trincea infida per ogni lettore. Specie quando il lettore in questione vuole emettere giudizi. 
Non mi sono mai sentito un sacerdote o un ministro di qualche culto letterario: sono piuttosto figlio di una tradizione di dubbi e scetticismi, ed è un patrimonio che non mi sento di dover rinnegare. Lo scetticismo, inteso come l’arte del distacco, è una bussola irrinunciabile, per me. Quindi non erigo altari, e tanto meno elevo incensi agli altari costruiti dagli altri. Non ho mai avuto un culto, per esempio, per Renato Serra. E credo che il suo Esame di coscienza di un letterato, pur nelle terribili circostanze in cui fu scritto, sia un libro che riecheggia tutti i possibili tormenti di una generazione, senza venirne a capo. Con ogni probabilità, non si poteva o non si doveva venirne a capo. Ma il suo «saper leggere» ha tratti ambigui; il suo guardare al presente come se fosse scevro di autentica poesia, mentre tutta la grande poesia del Novecento si affacciava proprio in quegli anni, ci rivela che l’Esame, in realtà, nella realtà distante da cui possiamo osservare oggi quel testo e tutta la letteratura che gli fermentava intorno, fu un libro cieco.
Non si trattò solo di questo, ma della nascita di un vero e proprio culto, e di un vero alone di autorità legato alla vicenda del personaggio. Talmente autorevole che ancora oggi lo si cita come modello per impropri confronti tra i primi anni di questo millennio e i primi dell’ultimo secolo; talmente autorevole che ancora oggi si leva la voce, altrettanto impropria, di qualche renatoserra fuori tempo massimo, che vestendo i panni di Catone, e presumendo che il suo «saper leggere» sia un sapere superiore a tutti gli altri, viene prima a insufflarci il sospetto, o addirittura la certezza, che la poesia italiana sia morta e sepolta, quindi che anche la critica di poesia sia stata indotta – per contiguità fisiologica, per assenza di materia su cui operare, per consunzione di strumenti – a seguire la stessa triste strada.
Gli argomenti di questi censori, che al povero, ignaro Serra, sovrappongono altre autorità, come quella di Adorno, o direttamente la propria, senza alcun pudore di essere smentiti, sono invero generici. Si cita un possibile, quanto discutibile panorama, come se si provasse a fotografare un paesaggio assente. Mai o quasi mai si fanno i nomi dei responsabili di questa ineffabile débacledella poesia e dei critici conniventi.  Oppure, come dal cilindro del prestigiatore, si fanno apparire gli illustri sconosciuti, si accende un riflettore su di loro per spegnerlo subito dopo: non si sa mai, potrebbero diventare dei poeti con la maiuscola. Si richiamano quindi ricette inverosimili, come se i linguaggi dell’arte fossero privi di un loro sviluppo nel tempo, si elencano gli ingredienti mancanti o quelli da resuscitare: qui ci vuole una certa forma, l’artigianato del verso, perfino la rima. Si riecheggiano le scritture dell’impegno. La poetica, o ancor peggio la teoria, vuole la sua supremazia sull’operato dei poeti, sul farsi intrinseco e naturale delle loro officine. E con quale impeto, con quale gusto della dissacrazione generale, bruciando il grano insieme alle erbacce, queste voci gridano perfino con un certo compiacimento la loro estetica funebre… Perché è proprio il lato funerario a garantire loro l’esercizio di un’autorità, ridotta ahinoi (ahiloro?) all’ultimo residuo. 
Preferisco la vergogna di scrivere poesie a quella di non scriverne, sosteneva Wislawa Szymborska. Preferisco una confusa vitalità (ma quale vitalità non è di necessità confusa?), testimoniata da fermenti e da ben altre attenzioni, più disinteressate nel senso più nobile, alle partigianerie da trincea. Lascio ad altri le guerre, questi triti scenari da polemica estiva, da rotocalco da riempire, e torno al mio lavoro.