lunedì 26 settembre 2022

AILANTO n. 68 - su Jericho Brown

 


La poesia di Jericho Brown, di cui possiamo leggere in tradizione italiana la terza raccolta vincitrice del premio Pulitzer 2020, si ispira fin dagli esordi a tematiche sempre urgenti, come la violenza razziale, vissuta sia sul piano sociale e politico, sia su quello più domestico, famigliare. The Tradition, in italiano La Tradizione, con quella maiuscola conservata che rimanda a un’altra maiuscola non meno tragica, la Storia, è un libro diviso in tre parti strettamente dialoganti tra di loro. La sua compattezza è sia nelle immagini e negli argomenti che veicolano, sia nelle scelte formali. Brown, nato in Louisiana nel 1976, non è il poeta eversivo che scardina la tradizione poetica, anzi vi attinge pienamente per innovarla dal suo interno. Come per la maggior parte dei poeti di lingua inglese, i suoi versi hanno mantenuto la maiuscola, a rendere più mobili, esagitate le sue frequentissime inarcature. Sono almeno due le tradizioni che percorrono la scrittura di Brown: quella americana, che ha i suoi avvii in Whitman e Dickinson, per giungere – attraverso la grande poesia degli anni Cinquanta e Sessanta (Lowell, Plath e Sexton) – fino alle più recenti esperienze di Rich e Glück e testimoniare così l’attenzione costante di questo autore verso la poesia delle donne. Non secondaria è la presenza della tradizione afroamericana, più legata ai temi civili, così da imbatterci, per via diretta o per citazione, in Gwendolyn Brook, James Baldwin, fino ai poeti della Harlem Reinassance, le cui novità formali non hanno mancato di lasciare tracce più che visibili.

Proprio la forma è un tratto imprescindibile, e non accessorio: è il motore stesso di un racconto sempre teso, che prosegue secondo griglie precise e spesso sperimentali (come nel caso del duplex o del bop, secondo un assetto che tende non a negare ma a innovare), o secondo riprese della tradizione, per esempio il sonetto, privato della sua più consueta livrea lirica e sentimentale e tradotto in una contestualizzazione ben più drammatica, diventando una forma di protesta. Anche in questo senso, come scrive Brown, «A poem is a gesture toward home», «Una poesia è un gesto verso casa». Ed è un senso binario, che ci riporta da un lato alla violenza razziale, ai soprusi, dall’altro a una dimensione che si vorrebbe sicura, a garanzie sociali ancora ben lontane dall’imporsi. Ha ragione la traduttrice Antonella Francini, c’è un incessante pianto delle madri che percorre il libro. E ci sono figure che appartengono ormai a una triste sequela di assassinii e linciaggi. Così la Tradizione, riletta analiticamente, appare al poeta come il luogo dove mascherare il male e l’abuso di potere, a partire dal ratto di Ganimede, considerato per quel che è, un atto di stupro. Brown asserisce di non provare paure «di fronte / A conflitti così antichi che sembrano / Non contare nulla davvero» ma la sua critica alla Tradizione non gli impedisce di ricercare sprazzi di bellezza anche laddove a dominare è ben altra verità, rompendo così il nesso romantico a cui eravamo abituati.

 

Jericho Brown, La Tradizione, a cura di Antonella Francini, Donzelli 2022, e. 14.00.

 

Duplex

 

Comincio con amore, sperando di finirla lì.

Non voglio lasciare un cadavere malandato.

 

Non voglio lasciare un cadavere malandato

Pieno di farmaci che vanno a male nel sole.

 

Alcuni miei farmaci vanno a male nel sole.

Ad alcuni di noi non serve l’inferno per essere buoni.

 

Ai più bisognosi serve l’inferno per essere buoni.

Quali sono i sintomi della tua malattia?

 

Ecco un sintomo della mia malattia:

Gli uomini che mi amano sono uomini a cui manco.

 

Gli uomini che mi lasciano sono uomini a cui manco

Nel sogno dove io sono un’isola.

 

Nel sogno dove io sono un’isola,

Divento verde di speranza. Vorrei finirla lì.

venerdì 2 settembre 2022

«Viandanze. Poema umano» di Raffaele Niro

È appena apparso per l'editore Raffaelli di Rimini il nuovo libro di Raffaele Niro, con la mia prefazione che qui posto. Buona lettura, buon viaggio a questa nuova opera!





Questo nuovo libro di Raffaele Niro, fin dalla copertina, vuole darci alcune possibili indicazioni di lettura, a partire dal titolo e soprattutto dal sottotitolo, che identifica un genere alto, ambizioso: narrare, cantare l’«umano». Scriveva Victor Hugo che «fare il poema della coscienza umana, fosse pure di un solo uomo, del più infino tra gli uomini, sarebbe come fondere tutte le epopee in un’epopea superiore e definitiva». L’etichetta di «poema umano» è stata via via attribuita alle opere che davvero rappresentano, reinventano, restituiscono un mondo, dai classici alla modernità; ovvero quelle opere dopo la cui lettura il nostro sguardo sulle cose non potrà più essere quello di sempre. Quelle opere, quindi, dove il discorso sulla vita, sulla dignità dell’uomo si fa assoluto e richiede una parola altrettanto esatta e assoluta. Si tratta, per chi pratica l’arte della scrittura, della scommessa più alta, che a sua volta prevede una speciale disposizione: quella dell’ascolto corale, della «viandanza» (come già Biancamaria Frabotta aveva intitolato un suo libro») intesa non come semplice wanderung né come peregrinaggio, ma come ampliamento percettivo passato al filtro di un’apertura sentimentale verso le realtà in cui il soggetto s’imbatte. Privati di questa fondamentale capacità, l’attributo «umano» si scolora in tutte le sue genericità; i poeti errano - nel senso che potevano intendere Dante e Petrarca - e gli attori di questo presunto poema perdono la loro vera significanza.

Celebrare il «poema della vita umana», come fece un pittore guardando all’antico, presuppone non solo il possesso di uno sguardo lucido e attento sul presente, ma una sorta di doppia visuale, all’indietro, sulla Storia: la visuale che Benjamin aveva riconosciuto all’angelo di Klee. Così Giulio Aristide Sartorio guardava ai miti che recuperava, e in tempi più prossimi Danilo Dolci, nel suo Poema umano, cercava di ridare parola a un ragazzino antico, ancora in grado di osservare, toccare, pensare il mondo: «se l’uomo non immagina si spegne», ammoniva i suoi lettori, e in quell’immaginare stanno, felicemente insieme, la dignità di chi racconta e quella di chi è raccontato. Anche nell’insidia (o nelle possibilità) di quel mondo fluido che Bauman ha riconosciuto su più piani.

Perché quella parola possa ritrovare la sua efficacia, anche la sua sfera semantica d’azione deve contemperare l’indagine sull’oggi e lo scavo verso il passato; deve cioè ritrovare quell’aura di natività che la renda semplice e fruibile, nel senso più nobile. Le epigrafi che Niro ha scelto proprio da Bauman e da Milosz ci portano in questa direzione: «perché chiunque (…) ascolti». È una precisa attestazione di dignità espressiva, che traduce uno status altrettanto preciso e in cui il poeta necessariamente si riconosce. Così non sorprende, già nella prima poesia a venirci incontro, che quella «dignità» si presenti come una forza erompente, in grado di abbattere i muri che la mente finisce per erigere. E più cresce, questa forza, se si nutre proprio di quella coralità a cui ho alluso: «la dignità del mio popolo», scrive Niro, recuperando un termine poco frequentato dalla ricerca poetica degli ultimi anni. Allora il pensiero corre subito a Vallejo, ai suoi Poemas Humanos, a quell’universalità lungamente cercata e perseguita, nell’incessante conio di una lingua ardita che potesse dare voce a quel popolo, ma dal lato più moderno di una Storia fatta di ombra e marginalità. A Niro mancano, però, le forzature sintattiche, le invenzioni di Vallejo; sembra non averne bisogno. Il popolo che intende cantare è composto dai mutevoli cittadini di una realtà sempre più fluida e globale; un popolo esposto ad altri rischi che non quelli individuati un secolo fa dal poeta peruviano. Ed è un popolo che si rifrange da un medesimo corpo, fisico e sociale. Credo sia proprio la semplicità del suo dettato, piuttosto, il contenimento delle significazioni plurime e l’aver indirizzato la sua parola verso una comunicatività finanche commovente, diretta, ad agire nel lettore quella «compassione» già avvertita da Foscolo come la sola virtù fra le tante «usuraie»: se non innocente, la lingua nativa è però coinvolgente, i muri si abbattono «insieme». Ma insieme «a chi?», recita l’interrogativo inquietante che ci proietta nel vivo di questi versi.

Sebbene scritto già nel 2012, Viandanze è il libro che trascina un poeta come Niro verso una lunga maturità. Conclusa la stagione dei rendiconti affettivi, della ricerca identitaria, con L’attesa del padre si affronta l’avvenuta genitorialità e si riprendono, non a caso, modelli di poeti viandanti come Ungaretti e Paz. Dunque Viandanze è la tappa essenziale, che dopo i primi due libri, segna per Niro nuove e ulteriori consapevolezze e conquiste. Questo «poema umano» si contiene tra un preambolo e una postilla e consta di tre sequenze simmetriche di venti testi ciascuna; la postilla reca in esergo una citazione da quel primo, antico «poema umano» che risponde al Cantico dei cantici. Quella che il poeta presta al suo personaggio narrante è una voce femminile, che ci accompagna fino alla fine; ed è proprio la voce, incarnata nella lingua, a fare da protagonista nella prima parte, tra perdita (anche volontà della perdita) e riacquisizione, tra lacerti di lingue diverse portate dal vento e tentativo di rinvenire ancora un significato, come se le parole fossero brandelli di senso da ricostituire, in una sorta di oracolo ormai incomprensibile. E la voce degli oracoli è sempre femminile. 

Contro il muro del presente si può strusciare «per provare a dimenticare / il nome delle cose», dice la voce, e ogni significato si proietta in un firmamento notturno, tra le stelle, in un rispecchiamento delle vicende umane in quelle degli astri: se una stella si fulmina, «evidentemente a spegnerti sei tu». Viene alla mente una lontana poesia di Louis MacNeice intitolata Stargazer, in cui il poeta, contemplando la volta celeste, s’interroga sulla luce delle stelle e sul tempo che impiega a raggiungerci, che non può certo coincidere con la brevità della vita umana: «non sarà qui / Mai in tempo per me». Questa diffrazione dolorosa è invece per Niro lo stigma di un destino, la soglia tragica di una lingua che necessariamente arretra («qui il tempo non si nomina né si misura»). Si può solo cantare la dura verità della terra, celebrarne i riti nei racconti serali, nel ritorno dei miti che rispondono a un narrare ancestrale, affinché il sonno riconquisti spazio alla speranza. Ed è proprio allora che la voce s’inarca, si fa più marcata, volteggia sulle proprie immagini, si affida alle metafore della natura e del corpo («quando ti sembra di aver imparato a camminare / azzardi a danzare / inventi passi / che ti porteranno a completare la scrittura / della tua primavera»). Quel corpo torna però sulla scena come monade, per qualche sequenza stenta a farsi sociale: non un popolo ma un coacervo di singoli, una miriade di solitudini affastellate. Eppure terra, casa, lingua rappresentano, tutte insieme, una sfera marcata dal desiderio, forse finanche dall’utopia: il modo di quella lingua si fa ottativo, prima quasi segretamente, poi, sempre più, si vuole dare carne e concretezza a quella speranza, a quella «gioia fragile» che contiene «l’intensità di ogni singolo respiro».

Desiderio e verità, o in termini freudiani principio di piacere e principio di realtà, si fronteggiano nella lucidità di quella voce. Ogni conquista è segnata dalla labilità, dalla consapevolezza che tutto può franare da un istante all’altro. La viandanza è sempre segnata dal rischio di perdere quella coralità agognata, nomade è anagramma di monade. Con questo carico siamo invitati a entrare nella seconda parte del poema; qui, nell’immediato, ci imbattiamo nel cromatismo più denso di simboli, quello del sangue, ma altri, sempre fecondi simboli agitano questa sezione dove i fluidi rappresentano una dimensione parallela alla liquidità dei sogni. Acqua e sangue nutrono la terra e il corpo, in un unico continuo naturale («io sto germogliando / nel sonno») eppure una tensione maggiore si lascia avvertire nella condizione stessa di quella spinta onirica: «il mio sogno è tra i prigionieri». In questa clausura, dove il movimento delle idee torna al suo principio senza raggiungere la voce, è consentito solo attraversare il deserto di sé stessi. Niro ha posto a epigrafe di questa seconda suite alcuni versi di Eliot, l’autore che meglio ha rappresentato, tra realtà e mito, tra storia e leggenda, l’avvenuta desertificazione del soggetto moderno; la viandanza si fa mise en abyme, discesa negli abissi di quella soggettività scarnificata. Ad inferos, verrebbe da dire. Acqua e sangue allestiscono infatti una geografia verticale di movimenti fluidi tra l’alto e il basso e viceversa, come nell’Ade descritto da Rilke e attraversato da Orfeo, Euridice, Hermes. Attraversare il corpo comporta inevitabilmente quella discesa, l’incontro con le proprie ombre e le proprie ossessioni: «nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso», scriveva Sbarbaro. Ed è al termine di questa impresa che il corpo si riconosce nel desiderio, ancora una volta, di essere «patria».

La terza parte è introdotta da una citazione dalla Storia della notte di Borges. Il suo linguaggio, stavolta, è quello del molteplice, del rifrangersi del soggetto, del suo moltiplicarsi negli specchi. Si scontano l’illusorietà e il disincanto, la realtà tutta appare come una prigione, come un inferno in cui «non si parte / ma si arriva», un «qui» temibile. Una patina pascaliana riveste quest’ultima sequenza del poema, il tono drammatico si intensifica nella perdita della speranza, nella consapevolezza della mancanza. La viandanza si mostra adesso in tutto il suo portato tragico, come un «viaggio / tra le viscere del caos», ovvero in sé stessi. Il corpo ridotto a un campo di concentramento, mentre la lingua prosegue nel suo processo di inarcamento, quasi si arrocca su metafore sempre più complesse («il freddo della notte stringe / fa disegni con i nodi alle vene») che costituiscono delle brevi, fulminanti allegorie. È il punto massimo di tensione. Negli ultimi testi assistiamo a un ulteriore movimento; l’anelito al superamento di un limite (il corpo, ancora; l’umano stesso, i suoi forzati orizzonti) non resta confinato nella sfera del desiderio, ma si fa sostanza stessa e ragione del vivere. È con questo atteggiamento che lo sguardo può ancora rinvenire la «meraviglia / sul possibile» e ritrovare, infine, la propria antica fanciullezza, e in questa riconoscersi nella pluralità, nella reciprocità. Nella postilla «Popolo» è scritto con la maiuscola, come a evidenziare la nuova coscienza di una proiezione e insieme di un’appartenenza che può essere finalmente espressa. Si è stati un polo di tensioni tra l’io e il mondo, tra il corpo e le sue percezioni. È da qui, adesso, che può ripartire il vero «poema umano».