sabato 30 dicembre 2023

Appunti su Cesare Brandi poeta

 








Non è semplice delineare il profilo di Cesare Brandi poeta, abituati, da lettori e studiosi, all’amabile ritmica delle sue prose di viaggio, così dense di immagini, come all’incisiva determinazione dello storico dell’arte e del teorico del restauro. La sua scrittura in versi, riproposta oggi per intero da un critico sempre attento al mondo e alle correnti della poesia come Aldo Perrone, nelle splendide Edizioni della Cometa di Giuseppe Appella, giunge al lettore di oggi come una vera sorpresa. Il volume, intitolato Tutte le poesie, comprende le tre raccolte pubblicate in gioventù da Brandi, ovvero le Poesie, del 1935, Voce sola, già nelle Edizioni della Cometa allora curate da Libero de Libero nel 1939 (in foto), infine le Elegie, apparse da Vallecchi nel 1942. Si tratta di un arco temporale davvero contenuto, eppure ricco, sebbene interrotto da altri interessi e ben altre direzioni di scrittura. Completano il volume alcuni inediti e le testimonianze di Giuseppe Raimondi, Maria Luisa Spaziani, dello stesso Perrone, che firma anche l’introduzione.

Il primo equivoco intorno a Brandi poeta, stando a queste testimonianze, risalirebbe proprio a Raimondi, che fu il primo, autorevole prefatore del volumetto del 1935. Fu quindi una certa timidezza, o pacata adesione a quei versi da parte del critico, a far sì che quelle pagine, che avrebbero dovuto introdurre il giovane poeta nella storia della poesia entre-deux-guèrres, sortissero nel tempo l’effetto di un ralenti ricettivo, al punto d’essere lette non come un avallo o un viatico augurale, ma come una cauta presa di distanza. A rileggerle adesso, con tutto il peso degli anni, ci appaiono piuttosto come un esercizio di prudenza, da parte di una personalità ben collocata nell’establishment letterario, nei confronti di un giovane certamente brillante, intellettualmente esuberante e ricco di promesse, forse un po’ meno interessante nei suoi esiti lirici. Così, almeno, dovette apparire a Raimondi in un contesto però più ampio, generazionale. Il prefatore accenna a una «freddezza opaca», a una «levigatezza neoclassica», a «una modestia, un’umiltà che solo i moderni conoscono». Il suo scritto è preceduto da un’epigrafe da Rimbaud, da Una stagione all’inferno, che riguarda la conquista di un’amara maturità. Prosegue a ritroso, Raimondi, fino al Baudelaire pessimista, che rifiutando ogni illusione, scrive che il mondo va scomparendo e la sola ragione della sua possibile durata è nel suo stesso esistere. Insomma, un cerchio stretto si chiude intorno alle possibilità espressive di una generazione che si sarebbe formata anzitutto sulla lezione dei simbolisti.

Se il quadro è esatto (ma lo è fino a un certo punto; vale forse ricordare che allora i conti con certi poeti erano ancora aperti, e che nella nostra tradizione, se è mancato un Rimbaud, non è mancato però un Pascoli, al quale quella «modestia» e quell’«umiltà» non sarebbero forse dispiaciute) allora una linea pregiudiziale offusca il pensiero di Raimondi, che illudendosi di ricostruire un contesto stabilisce però dei limiti precisi, oltre i quali la generazione di Brandi avrebbe faticato a muoversi. È un limite anzitutto affettivo, che incrina la «compatta freddezza», da «sinfonia belliniana», dei versi, risolvendosi infine in «uno stile pacato, in una forma calma, dignitosa».

C’era poi un’altra e forse ben più pesante ipoteca da rimuovere: l’impossibilità, per un artista, di vivere la propria intelligenza all’insegna dello studio e della ricerca. Nel suo intervento, Maria Luisa Spaziani la dichiara come una vera e propria «tragedia», pensando a poeti come Ripellino e Bodini, i cui libri di versi sarebbero passati in secondo piano rispetto alla loro attività di interpreti e traduttori; ma su Brandi gravava un’ulteriore scure, rappresentata dal giudizio negativo dell’amico Montale. Possiamo provare a spiegarci quel netto rifiuto, che tanto dovette pesare anche sulle scelte future di un intellettuale deciso ad abbandonare il campo, per dedicarsi interamente alla prosa di studio e di viaggio.

Scriveva Montale nella sua Intervista immaginaria, che «Il linguaggio di un poeta è un linguaggio storicizzato, un rapporto. Vale in quanto si oppone o si differenzia da altri linguaggi». Vale, quindi, per quel tanto di consapevolezza raggiunta nel collocarsi a una determinata altezza della ricerca poetica; vale per come il poeta si oppone o si differenzia rispetto ai modelli ancora attivi nei suoi immediati dintorni; che sono, per l’appunto, esempi di lingua. Più che mai per l’italiano, condizionato dalla sua matrice letteraria, si tratta di realizzarsi come una lingua viva, nel senso di conservare una certa aderenza alla realtà, di saper riflettere un’esperienza. Ogni lingua muta nel tempo, e questo è il primo fenomeno con cui un autore è costretto a confrontarsi: cambiano i significati, si smussano o si potenziano; il tragico travasa nel comico; muoiono le stesse parole. Quasi mai è redditizio andare a risvegliare le ombre del passato.

Brandi, al contrario, tra quelle ombre dovette sentirsi a suo agio, quasi indifferente al depotenziamento linguistico a cui andavano incontro i suoi coetanei; a parte Penna, che sulle macerie del petrarchismo avrebbe eretto un edificio al sublime, ma tutto suo. E anche lì, sappiamo bene come siano andate le cose, quanto a fraintendimenti. «Ombra» è uno dei termini più ricorrenti nel linguaggio lirico di Brandi, e il tema della descensus ad inferos non gli è estraneo. Il dialogo con il passato, non importa quanto fosse vasto, è una prerogativa antimoderna con cui il giovane esordiente plasma una materia espressiva che di fatto stenta a contenersi, con notevoli fughe, nei limiti in cui Raimondi l’aveva costretta. La sua scelta di fondo potrebbe definirsi antivirtuistica, nel senso leopardiano di elevare un vero e proprio controcanto alla modernità. È ciò che Raimondi ha potuto scambiare per l’umile modestia di una voce diversamente intonata. Proprio Leopardi è il metro, o la cartina di tornasole, attraverso cui rilevare come e quanto la tematizzazione della solitudine permei ciò che Perrone giustamente riconosce come il dramma delle delusioni della vita intima, come dolore e difficoltà a vivere. 

Leopardi è dunque il punto di partenza, l’omphalos intorno al quale ruota un intero sistema espressivo. Le tracce sono ovunque, pervasive. Possiamo però addentrarci ulteriormente e scoprire che la lingua dei Canti, talvolta liberamente rimodulata su Foscolo («E tu comparsa / d’infinita tragedia» leggiamo in Atleta moderno, figura che presenta una ‘inedita consonanza penniana) apre due strade: una, minoritaria, che porta a un certo parodismo di Pascoli (si veda, per esempio, l’attacco di Logorio del tempo), l’altra, ben più evidente, che conduce a una più decisa intonazione dannunziana e da qui, per inedite rivisitazioni simboliche, sfocia nel primo Quasimodo, in un cauto ermetismo o in una complessità sintattica dietro cui si ritrova anche una vicinanza a Gatto. Non manca, come si è osservato, qualche accento penniano, ma tutto è subordinato a un’aggettivazione dannunziana. Non c’è bisogno di scomodare Barthes per ricordare come l’immaginario e l’ideologia di un autore passino proprio attraverso gli aggettivi. E sono quelli che riconosciamo tra le Elegie romanePoema paradisiacoAlcyone.

È un dato che si coglie già nel 1935. Il linguaggio tende all’antico e al sublime, come dimostrano certe determinazioni spazio-temporali («ove»), le elisioni e i troncamenti già evidenziati da Spaziani, a cui possiamo aggiungere la frequente inversione tra verbo e oggetto e l’anticipazione degli aggettivi sui sostantivi. Sono scelte stilistiche precise e coraggiose, rispetto alla linea dominante Gozzano-Sbarbaro-Montale. E si comprende ancor di più la distanza di quest’ultimo a fronte di alcuni residui di linguaggio ottocentesco variamente attestato («sudata palestra», «diuturno travaglio»). Davvero si capisce la difficoltà di Montale: qui, alla lingua poetica, non è stata imposta alcuna sordina, al punto che la stessa tematizzazione di Leopardi dovette sembrargli troppo facile, quasi un gesto da dilettante ancorato agli stilemi dei poeti studiati nelle aule di scuola. 

Sembra mancare un mondo, rispetto a una realtà che subisce un forte processo di interiorizzazione. E certo rispetto a quello da tarda belle epoque à la Gozzano, o al deserto intimo di Sbarbaro, o ancora alle ontologie in negativo di Montale, poco si comprende l’assenza di un’emergenza storica, che lo stile disperde nell’astrattezza o nella genericità dei segni. Voglio dire che la storia, con o senza la maiuscola, in quei poeti appare attraverso la parodia, la lucida disillusione, la profondità metafisica (nel ‘35 non erano ancora apparse Le occasioni); non è qualcosa di diretto, che irrompe sulla scena di un dramma lirico, ma è qualcosa di già avvenuto. In Brandi si avverte una decisa, rassegnata tensione antifinalistica che la poesia recente aveva saputo camuffare in caleidoscopiche rivisitazioni del nichilismo leopardiano; il poeta di Primavera è invece più determinato e con un forte rovesciamento di segno, degno di Eliot, ci allerta sul comune destino di finitudine: «Nella nuova trama / mi chiama / la stagione: / è la solita trama / di tutte le persone. // Stessa brama / da tempo /spengo e riaccendo. // Non c’è che morte / per sorte».

Si delinea così una linea precisa di gusto, che Maria Luisa Spaziani legge come una precedenza del gusto sullo stile. Se è dunque il gusto a determinare lo stile, questa è l’evidenza (l’avventura?) di un solipsismo lirico che di fatto isola l’esperienza di Brandi poeta nella temperie generazionale in cui, con buona pace di Raimondi, si sarebbe trovata invero in difficoltà. Il confronto a cui queste liriche mirano, nel loro insieme, non è con la contemporaneità, ma con le «ombre». Addirittura con l’oltretomba: come Rimbaud Brandi discende «nell’oscuro vòlto», scrive un Inno alle Ombre e così compie la propria traversata ultraterrena, ma non per chiedere indicazioni di sorta come gli eroi classici. Il suo non è un espediente epico-narrativo, ma un modo per conoscersi, per andare ancora una volta incontro a sé stesso, a un’«innocenza» profonda, primigenia, condivisa con Penna e in grado di confondere le «astute reti» del destino (A porta Inferi), se solo l’angelo della morte avesse un cuore.

Quello di Brandi è un leopardismo senza illusioni, estremizzato, nichilistico senza maschera. Con il coraggio di chi può attestarsi come la fonte di sé stesso, in Domenica e omaggio a Leopardi il poeta allestisce un sapiente, distaccato bilancio di solitudine e distacco da qualsivoglia idea di speranza, «infida sorella». In Voce sola cresce sensibilmente la presenza di lemmi come «ombra», «ansia», «angoscia», insieme a un termine squisitamente ermetico come «attesa», o «veglia». In effetti il retaggio ermetizzante si fa più evidente anche nelle successive Elegie (sogliaattesaassenza, e ancora desideriovigiliaavvento), fino all’ultima, dove l’apertura metafisica, tra Rilke e De Chirico, pietrifica l’enigma stesso del vivere, lo fa implodere in una materia inaccessibile. Qui l’«infanzia implacata» segretamente continua a irrorare di senso le domande estreme, fino al riconoscimento e all’accettazione di non sapere nulla («l’essere / dell’esistenza ignoro. Inumato son io / in me»), come imbozzolato nella rivisitazione di un lontano simbolo montaliano (Crisalide) che non rinvia, però, ad alcun futuro.

 

venerdì 1 dicembre 2023

«Tutte le poesie» di Cesare Brandi a Roma.

Martedì 5 dicembre, a Roma. Per scoprire il versante lirico di uno dei maestri del Novecento. "Tutte le poesie" di Cesare Brandi, Edizioni della Cometa, per la cura di Aldo Perrone.





giovedì 2 novembre 2023

Da luoghi profani

La casa editrice Les Flaneurs ha pubblicato il nuovo libro di Elisabetta Destasio Vettori, Da luoghi profani, con la mia prefazione che qui posto.

Auguri a questo libro lungamente meditato e atteso.





C’è un perimetro preciso in queste nuove poesie di Elisabetta Destasio Vettori, un confine, un recinto ritagliato nel vivo dell’esperienza, come quello tracciato da un’antica regina mentre fondava una nuova città. Perché il perimetro di cui parlo non è solo il luogo di un’identità, anche poetica, ma è il luogo di conservazione – e di espressione - di una forza lirica che si consegna al futuro, pure nella sua ineffabile incertezza, o nei segni che già il presente lascia adombrare. I punti cardinali di questa geografia privata sono rappresentati dall’io, incombente, pervasivo, dai riferimenti famigliari (il padre e la madre), da una città irrinunciabile e dura, quindi struggente come Roma, raccontata nei suoi ineguagliabili passaggi di stagione.

Il poeta che parla in questi versi non si risparmia, è perfettamente consapevole che la poesia è il luogo di un dire totale e insieme è l’occasione, il momento di una precisa, finanche spietata messa a fuoco. La spietatezza è un dono del linguaggio, del suo democratico accogliere tutte le sfumature possibili del senso; scrivere è, come per Baudelaire, mettere a nudo il cuore, le sue pulsazioni, le sue vibratili emozioni, fino a scavare nel fondo stesso del sentimento, ora nascente, ora già decantato, ora illuso o disilluso. Un altro dominio delle poesie raccolte in questo libro così compatto, denso e necessario, è infatti quello dell’eros, ma qui, rispetto a quel recinto, si ha più che la sensazione che i cardini non reggano, che il corpo stesso esploda nell’altro-da-sé; innominato, indecifrabile forse, vicino e distante. La corrente affettiva che si riversa sulla memoria, sul passato, sull’assenza o sulla malattia dei genitori, adesso si fa calma tempesta, ma si tratta di una deformazione. È il processo di distacco che la poesia impone, a far sì che laddove il corpo dialoga con l’altro corpo entrambi siano còlti nella naturalezza del movimento; ma si avverte, neppure troppo in filigrana, che c’è stata un’insorgenza tellurica, una pulsione che dal profondo è risalita fino alla chiarità del verso. E quel distacco parla il lessico dell’anatomia, il più descrittivo, il più selettivo e asettico.

Una mappa personale è sempre un tracciato che ci riporta inevitabilmente a noi stessi, provocando l’abbaglio di un approdo. In realtà ci accorgiamo, non senza un residuo di infantile sorpresa, che siamo tornati al punto di partenza, che abbiamo solo compiuto il periplo di ciò che siamo. Molte delle citazioni con cui Elisabetta Destasio Vettori puntella il suo percorso di lettrice alludono a questo o lo sottintendono, e sotto la patina di rigore di questa lingua così tesa ogni tanto fa capolino uno spiritello, che vorrebbe forse liberarsi dalle maglie così severe e assertive dell’adulto. Ma tant’è: sola liberazione è il ricordo, ci dicono i poeti, e allora l’attenzione si volge a un passato in cui perfino quella geografia così certa, forse rassicurante, deflagra verso continenti lontani, e verso una storia famigliare più stratificata e complessa. È l’Africa, è l’infanzia stessa del mondo che si affaccia in questi versi con minime indicazioni topografiche, sufficienti però a innestare in chi legge, accanto a un facile richiamo esotico, anche una nostalgia d’infinito. È lì che il soggetto vorrebbe infine approdare, segnare il punto in cui il viaggio termina e ogni tensione può placarsi? È lì, in una casa remota nello spazio e nel tempo, che è possibile ritrovare l’ubi consistam disperso nei rivoli di una quotidianità aspra?

Non possiamo dirlo, e anche le poesie si fermano giocoforza sulla soglia di un’intuizione, di un suggerimento. La loro dimensione vuole tornare a essere quella del presente, dove s’intrecciano a più riprese il caos relazionale, il lento addio della figura materna, il vuoto lasciato dal padre. È allora che la poesia, trascendendo sé stessa, arriva a farsi preghiera laica, litania, invocazione, o breve ritratto di un amore trasfuso in terapia. Tutto questo, però, nel ritmo nervoso delle analogie, negli accostamenti repentini che accompagnano il sentire la realtà da parte di una mente inquieta, felicemente disposta a raccontarsi.

Didone aveva fondato Cartagine facendo a listelli una pelle animale, Romolo aveva tracciato un solco con l’aratro. L’idea di uno spazio così preciso, esatto è nel dna stesso di Elisabetta Destasio Vettori, ed è ciò che la preserva nella sua identità forte e nello stesso momento attutisce gli scossoni a cui il vivere ci abitua. Ogni evento è come allentato nella sua forza d’urto dalle spesse mura che sono state costruite su quei segni primari, che sono le stesse mura dell’io. In questo senso la presenza di un autore amato come Josif Brodskij fa intuire il significato vero di un paesaggio di brulichii e di rovine, dipinto nella fissità maestosa di un’eternità, che lo segna a dispetto di tutto. «Io sono stato a Roma», ripeteva il poeta che dalla terza Roma si era recato fin nella Babilonia del ventesimo secolo, oltre l’Atlantico, ma che era solito fare tappa nell’urbe, o nella laguna veneta. Solo qui poteva trovare ciò che quella Babilonia, nella sua apparente libertà, non poteva dargli in alcun modo: lo spessore di una temporalità, ingrediente fondamentale affinché la poesia possa compiere appieno il suo esorcismo e tornare ad affidarsi al fluire della vita.

Non si avverte fragilità, in questo libro che si attesta come l’opera di una maturità ormai raggiunta; ogni frase è come scolpita, ogni singola immagine è un distillato finanche feroce. Ma questo si diceva sul principio: c’è una necessità, e quindi una libertà, anche nella spietatezza. Gli dèi che ancora s’aggirano, furtivi e guardinghi, nei vicoli notturni di Roma, lo sapevano meglio di chiunque altro. E continuano a saperlo, sognando un Olimpo impossibile.

mercoledì 4 ottobre 2023

«Un mare tutto fresco di colore. Sandro Penna e le arti figurative», mostra a Perugia

Mesi di lavoro, di ricerche, con Tommaso Mozzati e Carla Scagliosi. Finalmente oggi si inaugura la mostra su Sandro Penna e gli artisti del Novecento. Un evento che ci porta a riflettere sul connubio tra parola e immagine, tra grande poesia e arte nelle sue espressioni migliori.

Da domani e fino al 14 gennaio aperta al pubblico.





giovedì 28 settembre 2023

AILANTO n. 72 - su Giuseppe Digiacomo





Giuseppe Digiacomo, classe 1957, è un autore schivo. Vive nella sua Comiso, per il cui territorio si è sempre speso in prima persona. Amico di personaggi come Bufalino, Fiume, ha esordito nel 1980 con Alchimie per vivere; ha continuato a pubblicare con estrema parsimonia, com'è dei veri poeti, fino al 2007, quando apparve Canti di guerra e divine inconcludenze per Archilibri (Salarchi immagini). Per lo stesso editore, a tre lustri di distanza, ha congedato sul finire dello scorso anno Fuori dal perimetro del disonore, con una nota introduttiva di Andrea Guastella e una copertina di Giovanni La Cognata.

La cifra predominante, nella sua scrittura, è quella di un'amarezza mai fine a sé stessa, né fintamente consolatoria. Il rigore dello stile, la scelta accurata di ogni parola, chiusa spesso in un recinto breve dove l'economia si rivela chiave espressiva vincente, connotano tutto il suo percorso. Digiacomo è poeta che ha saputo trovare il difficilissimo punto di tangenza tra elegia e satira, tra invettiva e lirismo, al punto che in nessuna di queste declinazioni sarebbe possibile restringere i suoi versi, che vengono piuttosto da lontano, da un lento ruminìo della mente e del cuore. Ricorro non  caso a questo termine, perché lo stomaco bovino è stato spesso associato come metafora alle scritture d'ispirazione morale; e di morale ne emerge tanta, anche in queste nuove poesie, che lasciano intendere un autodafé finanche spietato, senza sconti, che dall'io avanza verso un'intera generazione, verso le sue battaglie e le sue illusioni. E questo ruminìo impone, in quel genere di scritture, anche una visione laterale, di scorcio. Digiacomo infatti osserva le proprie virtuose e luminose sconfitte dalla prospettiva di un «angolo» («in quest'angolo di scarti / da cui non so uscire»; «questa terra bruciata / che ci ha buttati nell'angolo»), sì da incorniciarle in una riflessione lucida, disincantata, sui percorsi non compiuti, sulle possibilità inespresse. Come un sopravvissuto osserva da quell'angolo un passato denso di timori pubblici e privati, di ideali impediti; come un estraneo inseguito da antiche ossessioni, che prendono la forma onirica di figure incombenti, si pone nella giusta misura per rileggere eventi ormai lontani, ben consapevole che le «scintille», anche «dolorose» della gioventù si sono ormai esaurite senza appiccare alcun incendio. Dal fondo preme un altro e più pungente dolore, quello di una vita che «fa male», e prima della «decomposizione» si apre la «mattanza dei ricordi», come una «pletora d'immagini / ambiziose, velleitarie» a illuminare soltanto «quell'orrore che ci portiamo dentro» e che culminerà nel baratro finale.

In quest'altalena di illusioni, che lo sguardo maturo sposta sul versante drammatico di una resa anzitempo e di una rivincita non colta, il poeta si rappresenta come «una pulce ammaestrata». L'immagine non è nuova, la si ritrova nei versi che Biancamaria Frabotta aveva posto ad apertura dei suoi Eterni lavori («Sono come le pulci, i poeti / acquattati nel pelo del mondo»), ma qui l'ammaestramento induce a una più profonda e insieme vasta intonazione morale, dietro cui trapela il giudizio del soggetto verso un presente di catastrofi e apparenze. Così l'allegoria del pescatore che bacia i pesci pescati, al principio della cruda sequenza intitolata Secondo taglio, illustra il venir meno non solo delle illusioni trascorse, ma anche delle energie che potevano supportarle. In questo asciuttissimo quadro che sembra talvolta rasentare il solipsismo, ma che si affida anche a una persona plurale, resta solo la poesia, a siglare che «non tutto è definitivo», e in quel suo «vasto campo aperto» rime e parole sono ancora in grado di ricomporre fratture, trattenendo così l'autore «fuori dal perimetro del disonore» e forse riaccendendo quelle scintille in noi che leggiamo.

Giuseppe Digiacomo, Fuori dal perimetro del disonore, Salarchi immagini 2022, e. 9,00.


E il tempo passa e a me non dispiace.

A me non mi dispiace di passare il tempo.

All'alba vorrei andare sulla riva

ma sulla riva non ci vado e non fa niente.

Così io mi preservo dal dolore

d'essere felice sulla riva.

E l'imbecillità sgrammaticata

è come manna che non ho assaggiato.



lunedì 11 settembre 2023

Tito Balestra, nel centenario della nascita. Un convegno a Roma

Sono cent'anni dalla nascita di Tito Balestra, poeta schivo, amico e frequentatore dei maggiori poeti e artisti della metà del Novecento a Roma. La sua città elettiva lo ricorda con un convegno presso la Biblioteca nazionale centrale, che qui ringrazio per l'accoglienza, a cui farà seguito un'altra giornata di studi nella nativa Longiano, in Romagna, presso la Fondazione dove si custodisce la sua importante collezione d'arte. Grazie anche a Flaminio Balestra, che tale Fondazione dirige, per aver voluto queste iniziative. Intanto il programma di Roma.




venerdì 8 settembre 2023

Luca Pizzolitto, «Getsemani».

 È in uscita da peQuod il nuovo libro di Luca Pizzolitto, Getsemani, con una mia prefazione che qui posto.


Fin dal titolo Getsemani, ultima impresa di Luca Pizzolitto, introduce il lettore nel vivo, nel cuore dolente della passione. Quello che accade nel giardino evangelico non è il momento che precede, non è la sospensione, né l’attimo salvifico; nella vicenda che ci è giunta non c’è spazio per il kairòs, per la quiete prima della tempesta, prima che tutto precipiti. Quella sosta, che intima alla preghiera e alla riflessione, segna in modo evidente e decisivo l’avvio di un processo irreversibile, di una catastrofe già scritta nelle parole dei profeti, di un dramma altissimo che segna l’avvicendarsi delle storie umane e le accatasta in un prima e in un dopo, fino a quel momento impensabili. Non c’è grazia alcuna in quanto sta per accadere, ma solo uno scempio gratuito, sproporzionato.

Nell’orto del Getsemani accade qualcosa di inaudito, ma in realtà accade per la seconda volta. Il deus absconditus si manifesta nella consapevolezza della prova imminente, ed è l’istante in cui la preghiera si fa supplica impossibile, tentativo di sottrarsi; è, in sostanza, il momento in cui quel dio ineffabile viene negato e la scena è interamente occupata dalla sua incarnazione, dal suo simulacro, che sembrerebbe ambire a una propria, improvvisa autonomia. Si è già verificato davanti al sepolcro di Lazzaro, a fianco del dolore dei parenti che prevale, con la sua forza affettiva ma anche con un inedito attaccamento terreno, sugli ideali di una vita celeste, sulla prospettiva di eternità. Perché richiamare tra i viventi chi ha già conquistato il dono più grande?

Sono i due momenti del racconto evangelico in cui la sofferenza, portata agli estremi, diventa il luogo limitrofo, la terra contigua tra vita e morte; e dei rispettivi ruoli si fa, senza necessità di investitura alcuna, regista. Perché, in definitiva, quella sofferenza è già parte di una necessità, anch’essa ineffabile; è la prima tappa di un itinerario che prevede la discesa catartica, infine la liberazione; nella terribile esperienza lì narrata, ma anche nella vita di ciascuno. Nessuna catastrofe è mai definitiva, suggerisce il Getsemani, anche nell’ora della prova più dura; ciò che dapprima si mostra in tutta la sua potenza distruttiva è in realtà il volto feroce di un evento rigenerativo.

Vale ricordarlo, anche di fronte a questo nuovo libro, che non a caso è introdotto da una dedica, una breve epigrafe a qualcuno che ha passato il limite della vita per resistere solo come memoria, ma che ha saputo accompagnare la parabola di una tempesta culminata infine in un approdo. E proprio alle figurazioni dell’acqua rimanda il titolo della prima sezione, presenti qui per metonimia. Geografia della sete è il periplo di una mappa soggettiva, che si costruisce paradossalmente intorno a qualcosa di cui si avverte l’assenza e a qualcuno che sta per lasciarci. Ma questo è il miracolo della poesia: dare nuova forma a una forma che si consuma, portare questa volta non la realtà sul piano della metafora, ma al contrario la metafora dentro la realtà: «vuota memoria dell’acqua / dimenticanza di piccole, / trascurabili cose». Il fluido divenire dell’elemento che per antonomasia identifica lo scorrere del tempo, la sua inesorabilità e per converso il suo ultimo effetto, la finitudine; con questi pochi, ma fondanti tratti, Pizzolitto tesse la sua elegia del vuoto, fa della malattia un confine, un discrimine tra due dimensioni, quella del dicibile e quella del silenzio, indotto e necessario, di fronte alla contemplazione della morte. Non è, del resto, quanto esperisce il dio incarnato in quel remoto orto? Alla terribile richiesta del Getsemani, che avrebbe annullato ogni palingenesi, fa eco l’urlo finale sulla croce. Il padre tace di fronte al suo stesso sacrificarsi, ma adesso, nel culmine del nulla, «non esiste parola». Che equivale a dire: non solo non c’è parola che possa essere pronunciata nel pieno della sua significazione, ma ogni parola che non sia passata al filtro rigenerativo della poesia rischia di suonare blasfema. In altri termini, la parola qui si ferma con inedito pudore sulla soglia del distacco; la vita s’incarica di proseguire. Il testo mima la richiesta di allontanare il male incombente, l’inverno simbolico in cui perfino il vuoto trama la sua «accorta / casualità».

La sequenza sovrappone quindi il male fisico alla passione evangelica, ma al contrario di quanto è predestinato al di là del tempo, qui dell’amore restano vaghe tracce. L’amato è costretto a svanire. Come l’uomo di Pascal caduto nella Storia e imprigionato nei suoi meandri, anche l’idea del divino precipita nella realtà del corpo come un «dio inatteso», ma solo per registrare, nell’impotenza di fronte alla necessità che tutto governa, che l’oggetto, la res extensa scompare nel vortice stesso del linguaggio, che è a sua volta materia. E il motore stesso della creazione poetica, proprio l’amore, rischia di rimanere privo di ogni referenzialità. Anche la «vita involontaria», in fondo, è un progetto del logos.

Nella loro densa concentrazione, i componimenti diGetsemani sono grumi di pensieri e di immagini che afferrano il lettore nella loro temibile consequenzialità. Sembra che un ferreo determinismo sovrintenda quest’ampia dinamica di oblio dello sguardo (la cosa che si sottrae per sempre) e di memoria della parola, al punto da lasciar cadere persino tutta la rete simbolica dell’acqua come elemento lustrale. Tutte le sue declinazioni, che si tratti di «neve» o di «pioggia», non soddisfano né l’anelito a una rigenerazione, né, tanto meno, il desiderio della durata; al contrario indicano una fine, il nulla dove non resta alcun segno. Quelle di Pizzolitto sono impressioni che si consumano nell’istante del loro rivelarsi: «La vita che attraversiamo / a mezz’ora dall’autogrill. / Fibra minuta, fragile. // Il nostro umano non restare, cadere, / farsi pioggia in aprile. // Lasciare». Ecco come una lontana eco ungarettiana può riverberarsi in un minimalismo quotidiano, abbandonando la divisa dell’originale: «fibra» che si riconosce, in uno stesso afflato unanimistico, come metafora vegetale di una fragilità condivisa.

Sulla scia di questa condivisione il poeta esplicita le fonti con cui dialoga: Lorand Gaspar, Philippe Jaccottet, tra gli altri, soprattutto i Salmi. E sono infatti questi ultimi i segni tangibili di una teleologia del male che percorre la vecchia e la nuova storia, come se l’episodio del Getsemani non ne rappresentasse il preludio al culmine, ma una forma di ripiegamento dell’io dentro sé stesso, che trascende il recente patto con la divinità e ne fa occasione di discesa tra le proprie ombre. La seconda delle quattro sezioni che compongono il libro, Nelle stanze senza fuoco, ribadisce nel titolo l’assenza dell’elemento a cui si riferisce ed è introdotta, ancora con una metonimia che passa attraverso la citazione, da uno degli effetti del ripiegamento, il pianto. Odisseas Elitis lo riecheggia proprio da una dimensione famigliare, affettiva. Il pianto ottunde la vista, prelude a una dimensione di oscurità. Infatti sono «Le strade sporche della / notte» a rappresentare un «passato / vile come un’ombra», che insegue il soggetto con l’inaudita e perseverante fedeltà di un cane. Nella povertà di questa luce appena accennata, nell’«indistinto pudore» che lascia scorgere i segni dell’abbandono, una vita intera è dismessa e insieme con essa il suo doppio filiale; il pianto invita al compianto.

«Ora il tempo / è un nome senza colpa». Come la passione spezza in due la Storia, così la morte spezza il legame fisico e la memoria delle azioni, la frantuma in mille rivoli, in un caleidoscopio impossibile da ricomporre in una sola figura. L’avverbio di tempo scandisce la terribilità di un presente che segue un passato sempre più indicibile, se non per le prismatiche rifrazioni della lingua della poesia. Getsemani è dunque il libro del dolore e del lutto, dell’espiazione definitiva, e soprattutto della proiezione tra le due rappresentazioni, padre e figlio, di uno stesso soggetto. E come nelle Scritture è solo il secondo che può dare voce al primo, qui si ripete la stessa dinamica, per cui l’identità è data dalla comunanza del logos che solo può oggettivare, sul piano dei significati, la responsabilità da una parte e il compito dall’altra. Il dio esiste e si rivela nella debolezza del figlio, infine nella sua accettazione del male («eterna resa»); lì una condanna a morte efferata, qui il lungo consumarsi del corpo, che lascia a chi resta una sete insoddisfatta.

 

mercoledì 23 agosto 2023

Tre poesie di Giona Ferrarese

L'amica Bianca Tarozzi mi segnala un giovane poeta, che non conoscevo. In effetti è al suo esordio. Ho ricevuto queste poesie che accolgo molto volentieri nel mio blog e nelle quali ritrovo una freschezza triestina, che mi fa pensare a poeti amati come Giotti e Saba. Ci sono i paesaggi di quella riviera, accennati in pochi tratti, in immagini minime ed essenziali; muri silenziosi - ma quanto eloquenti - che si contrappongono al viavai frenetico delle strade su cui insistono; la presenza di Ulisse e del suo nomadismo, che contrasta con la quiete di una panchina nel primo testo. C'è in queste poesie una capacità di messa a fuoco che si allontana decisamente dall'iperletterarietà e dal neo-ermetismo, maldigerito, di tanta poesia circolante. C'è un tono giusto del pathos e quel tanto di confidenziale che irretisce, nella sua felice ingenuità, il lettore. «E andando per via sorgono parole / in questa città di vento e lieve sole». Trieste e i suoi poeti sono tutti qui. Nel suo ultimo libro, Gli specchi della poesia, un lettore d'eccezione come Luciano Anceschi ribadiva che in poesia, più che il nuovo insiste l'ovvio. Non il banale, ma ciò che ci riguarda, più intimamente, al punto da non  riuscire più a vederlo. Ho ritrovato nei versi di Ferrarese la capacità di restituire quest'appartenenza disconosciuta, questo patrimonio di affetti e reazioni a cui ci abituiamo e che non sappiamo più ricaricare di senso.

Per via, le parole


Strade: asfalto di veloci passanti

automezzi, la mattina i clacson

il caos di giornate Triestine.

La quiete è nei muri, leggo di Ulisse,

seggo in una panchina, è con me Saba,

ancora naviga la via per la poesia

leggo pagine e perdo il segno

il vento giocoso fanciullo,

l’onda che culla i pensieri.

E andando per via sorgono parole

in questa città di vento e lieve sole.


Riva


Una piccola scintilla, un lampione di riflesso

su terreno di cadenti piogge, i sospiri di aspettative

si esprimono in fiati al freddo, sotto cielo, aspetto

che si consoli presto di prime luci, il mare riprende

colore nella sua canzone, l’intrecciarsi di note

ora è un’allegria, un’altra notte è stata vinta

sulla riva l’alba di felice intenzione.



Cercare


Un’isola in mezzo alle nebbie, isolato alla luce,

l’orizzonte incupito cancellato a tratti di matita

il mio vero volto celato dal cerone, e suona…

una singola melodia a ripetizione, colpo di scena:

ho sprecato il mio dolore, posso solo immaginare

gli istanti, qui un raggio di sole, il riflettore puntato,

l’istinto mimetico, ragazzo soldato senza una voce.


Bussola puntata verso Itaca, non ancora partito

sabbia di Ogigia, sulla mia pelle mani che non amo,

mi sento solo in questo letto, esco presto all’alba

per trovare un fiato, un grido, accendere un falò

inviarti segnali di fumo per dire che sono vivo

la mia voce ti raggiunga, lei che tesse mi aspetta

abbandono questo scoglio, da te torno da uomo.


mercoledì 2 agosto 2023

Per Anna Cascella Luciani

 



Una volta erano le madeleines, dentro scatole oblunghe di legno sottilissimo. Le prendeva da Castroni a Cola di Rienzo, quando ancora abitava in Prati, all’ultimo piano di un edificio in via Silvio Pellico, coi gatti e i libri di letteratura inglese e americana. Era una piccola casa, dove andavo a trovarla quando traducevo Auden e m’imbattevo in difficoltà continue, ma era un pretesto; infatti passavamo sempre a parlare d’altro, o meglio, di altra poesia. Di quella che facevamo, di quella che leggevamo.

Quelle scatole finivano per contenere foglietti, appunti, matite e gomme, o addirittura le posate; poi il sole le consumava. Un’altra volta era un piccolo dono, avvolto in qualche carta preziosa: una matita, una penna, un bloc-notes, un quadernino rilegato. Dall’Inghilterra mi aveva portato una fotografia di Auden, quando ormai avevo smesso di tradurlo, ma era un ricordo da preservare tra noi, il segnale di una vecchia intesa. Dall’Irlanda fece ritorno con un altro quaderno, raccomandandomi di riempirlo di versi.

Il più delle volte, però, si annunciava con un biglietto, dentro una busta. Non una lettera, ma un semplice foglietto con poche righe di saluto. Solo dopo, in un secondo momento, arrivava la telefonata per sapere se lo avessi ricevuto. A quel punto avevo già capito come avrebbe funzionato tra noi; dovevo accettare di non capire se il biglietto fosse il vero oggetto o solo uno dei tanti stratagemmi per ricordarmi il suo affetto, un modo per scusare una telefonata infinita.

In quelle buste, che conservo in un cassetto, ci sono brevi frasi, citazioni dai poeti, nomignoli che si divertiva ad affibbiarmi. La sua continua attestazione di bene e di amicizia era anche il sintomo della sua necessità di sentirsi a sua volta amata, ricambiata. Per molti anni tra noi sarebbe andata così, superando le spigolosità del carattere, le reciproche prese di posizione, a cui, come in un duello tattico, non potevamo assolutamente rinunciare. Le pause, tra noi, hanno sempre avuto una durata inconsistente. Si ricominciava con le telefonate, sempre più lunghe, e ancora con i biglietti. Ci fu un periodo in cui ne trovava con delle immagini di fragole (credo che si divertisse a girare per le cartolerie del centro, nei lunghi pomeriggi di solitudine) e ne spediva sempre più, al punto che le fragole si fecero ricorrenti nelle nostre conversazioni. Bisognerebbe chiedere ai bambini e agli uccelli che sapore hanno le ciliegie e le fragole, avrebbe scritto addirittura Goethe, e probabilmente ci sentivamo così, un po’ bambini e un po’ uccelli. Lei era tutt’uno con la leggerezza della sua poesia, una leggerezza pensosa, nervosa, come i suoi ritmi.

C’era anche, però, il lato delle doléances. Se la prendeva con gli editori, che non le rispondevano o non accettavano di pubblicarla; sdegnava i poeti che invece licenziavano libri (forse troppi e con troppa facilità, a suo dire) ma non per invidia, sentimento che non le apparteneva; era invece un profondo senso del proprio valore di scrittrice e quindi di giustizia e di misura. Non l’aiutava, quel suo carattere così indipendente e forse un po’ gattesco; ne ho subito anch’io i graffi quando, per ben due volte, mi sono adoperato perché riuscisse a vedere le sue raccolte stampate presso editori di qualità. Alla fine, per un inesistente cavillo contrattuale o per un capriccio mascherato da malinteso mandava a monte il lavoro di mesi e i faticosissimi negozi. La verità era più semplice: doveva avere lei la totale regia delle sue scritture. Anche a costo di sbagliare, anche a costo di perdere occasioni che mai più si sarebbero ripresentate.

Da quando Franco Fortini e Natalia Ginzburg l’avevano accolta nel primo dei volumi einaudiani dedicati ai Nuovi poeti italiani (era il 1980), lei si sentiva un’autrice dello Struzzo. E se sotto quell’icona non poté più pubblicare fu anche, temo, per insistenze e pretese che nessun editore avrebbe mai potuto accogliere. Spesso le sue proposte eccedevano le misure consuete di un volume di poesie; si presentava con faldoni di pagine e pagine, con testi molto ampi; talvolta pretendeva di pubblicare due raccolte in un solo volume. Alla fine, con piccole ma preziose sigle, riusciva a congedare brevi sillogi. Ricordo però la sua felicità quando ebbe il premio Laura Nobile, da una giuria presieduta dallo stesso Fortini, che restò, fino alla morte, il suo interlocutore privilegiato, accanto a Giovanni Giudici: Vanni Scheiwiller avrebbe stampato Tesoro da nulla e fu una gran festa. Fu, dopo anni di travagli ma di intenso lavoro di scrittura, un inatteso risarcimento. Durò un istante, però. Mi aspettavo che quel libro la consegnasse alla storia della poesia di fine secolo, a cui senz’altro apparteneva. Non ci fu, invece, quella lunga durata di attenzioni che avrebbe meritato. E neppure ci fu il riconoscimento da parte degli editori maggiori. Ne soffrì, come ne soffrì Giovanna Sicari e questo destino oscuro di marginalizzazione e malattia le avrebbe accomunate. 

Dopo la scomparsa della madre ne volle prendere il cognome, aggiungendolo a quello, importante, della famiglia di adozione. Era il bisogno di un completamento, di un viaggio a trecentosessanta gradi intorno alla sua complessa identità. Ne rimasi perplesso, all’inizio: quel tassello che si aggiungeva, pur importante, sminuiva la forza di quelle vocali in a che erano l’insegna del suo nome, come lo erano state per Anna Achmatova. E poi diffidavo delle poetesse dai doppi cognomi e mi tornavano alla memoria certi perfidi versi di Palazzeschi. Per me, di fatto, è rimasta come l’ho conosciuta al nostro primo incontro, e come la leggo, ora che non c'è più e dovrò rinunciare a quelle nostre conversazioni di ore, in quello sbiadito volume del 1980, nel libro di Scheiwiller e in Piccoli campi, che Riccardo Lupo volle stampare con un’introduzione di Giudici. Anna Cascella, che sempre ritrovo aprendo quel cassetto pieno di carte colorate e di fragole che non odorano, ma che hanno il sapore di una lunghissima, intatta amicizia.

mercoledì 19 luglio 2023

A Roma il 25 luglio per Tito Balestra

Ricorre quest'anno il centenario della nascita di un poeta importante quanto ingiustamente trascurato dalla critica e dalla storiografia: Tito Balestra.

Due libri da Garzanti: Quiproquo nel 1974 e postumo, nel 1979, Se hai una montagna di neve tienila all'ombra, entrambi accompagnati da risvolti di Attilio Bertolucci.

Balestra fu amico di poeti come De Libero, Gatto, Penna, incontrò numerosi galleristi e artisti, di cui divenne collezionista.

Oggi la sua collezione è custodita presso la Fondazione a lui intitolata, in Romagna, a Longiano, suo paese d'origine.

Parleremo di lui, presentando la recente riedizione dei due libri per La nave di Teseo, il 25 luglio a Roma, all'Accademia di San Luca.




martedì 27 giugno 2023

Per Giorgio Ghiotti






Giorgio Ghiotti, con Ipotesi del vero (LiberAria), fa un regalo ai suoi lettori, perché ci consegna due libri in uno: il primo, che dà il titolo all’intero volume, e il secondo intitolato L’andare e l’addio. Eppure ciò che a prima vista potrebbe apparire un’operazione di pura convenienza editoriale, si mostra poi sotto un’altra impressione: ovvero che questi non sono due libri così distinti, ma due realtà complementari. Sono le due macro-sezioni perfettamente consequenziali di un unico progetto. Non so quanto Ghiotti ne sia stato consapevole; ma se non a un vero e proprio progetto, certamente l’autore si è lasciato guidare in un percorso. Chiarirò a breve da chi.

Ci sono diverse linee tematiche che legano questi due libri tra loro. Vorrei parlare di quella più evidente, che è il collante più forte: la memoria. Una memoria che Ghiotti declina e intende sia come memoria privata, sia come memoria letteraria. Anzi, per lui si tratta a ben guardare di un’unica dimensione; la frequentazione della poesia passata e di quella presente (ma si tratta di categorie di servizio, la poesia non ha tempo, è sempre squisitamente inattuale ovvero attuale sempre) è per Ghiotti, naturalmente e semplicemente, abitare la propria casa, sentirsi nel clima più autentico, stare a proprio agio. La poesia è davvero il suo ubi consistam, senza sminuire gli altri suoi aspetti (il narratore, l’editore, il recensore), ma ribadendo che – come già per Pasolini – essa è lo spazio assoluto che permea di sé anche il resto.

La memoria, come ci ricorda Leopardi, è un formidabile filtro deviante rispetto a ogni nostro passato, vero e presunto, immaginato (finzionato, vorrei dire) o vissuto. Questo perché ogni atto di memoria è agito da una fondamentale corrente affettiva, e questa corrente passa, trascorre senza soluzione di continuità tra i due libri e li cementa. Mi viene da pensare che la prima macro-sezione sia ispirata a un amore inteso come lo intendevano i latini con la parola per me più bella del loro vocabolario: cura. Cura vuol dire (riporto proprio quello che trovo nel vocabolario, alla lettera): pensiero, sollecitudine, amministrazione, ricerca, opera, amore. Vorrei solo aggiungere un altro termine per me essenziale ma che è nella fisionomia culturale di Ghiotti: studio. Perché studium, per l’appunto, vuol dire passione, desiderio, amore, insomma cura.


Dunque possiamo spiegarci il titolo Ipotesi del vero. La memoria, in questi versi, trasuda affettività, cura. Tutte le declinazioni del concetto esprimono in pieno ciò che è della personalità di Ghiotti, ciò che lui fa con la poesia altrui e propria. E se quell’affettività devia la realtà del passato – che non esiste più di fatto – allora quel vero che ne possiamo trarre e conservare è l’ipotesi che più ci somiglia. Somiglia a noi, intendo, a lui. La prima parte, il primo libro, è l’esercizio della memoria come cura, ovvero come recupero, conservazione di un vero che corrisponde a una precisa costellazione chiamata Roma.


Questo è il libro del ritorno di Ghiotti nella sua città, nella città dei poeti, dopo la parentesi milanese. E, neppure troppo in filigrana, ci sono pressappoco tutti. Non voglio qui cedere al gioco dei nomi e dei riconoscimenti delle citazioni, il lettore avvezzo alla poesia saprà riconoscere quanto passa, qui, della poesia, soprattutto quella a partire dagli anni settanta. Questo è dunque il segmento della cura; e la cura agisce a livello testuale proprio cavalcando quell’onda affettiva. In questi testi c’è Ghiotti e ci sono tratti che Ghiotti assimila dal di fuori, da un alter ego plurimo che è quella costellazione romana. Nella seconda parte, invece, la cura si fa consegna. È l’altra parte, complementare, del processo amoroso: recupero e consegna, ciò che un tempo si chiamava tradizione. Ecco la complementarità; e infine, aggiungerei, anche l’omogeneità tra i due libri, nel senso che Ghiotti non riproduce, ovvero non imita. Alla fase dell’imitazione, che è un processo di appropriazione, segue piuttosto quella dell’emulazione, che è un processo proprio di reinvenzione affettiva. Così il testo, da una pagina all’altra, atteggia alcuni tratti che Ghiotti da lettore ha già fatto suoi, ma che adesso deve ricreare a suo modo, alla maniera che è indiscutibilmente sua. Per fare un esempio, il ritmo nervoso, scandito non dalla punteggiatura ma dai trattini (la vera punteggiatura di Emily Dickinson) che Anna Cascella ha fatto suoi, diventano qui una vera e propria reinvenzione di Ghiotti, quasi un colpo di teatro. Ancora, sentiamo una sicura cadenza montaliana come si trasforma in un’immagine che non può essere che di Ghiotti, per poi riassumersi in un nuovo correlativo che è un altro espediente di recupero mnestico:

 

Il vento che proviene dal salone

fa il paio con il canto dell’acquaio

e io non ho memoria e se mi sporgo

dal bordo del lenzuolo giù dal letto

interrogo quel paio di pantofole

che certo, potreste essere mie, la taglia

è giusta, eppure m’insospetto e mi fa voglia

di andare al fondo al modo degli oggetti

di attendere qualcuno, essergli forma

[…]

 

Potrei fare altri esempi, ma credo che a questo punto l’atteggiamento di fondo del libro sia chiaro. Ipotesi del vero è dunque un grande atto d’amore per Roma, città di poesia ancor prima che realtà metropolitana. Possiamo evincere come Ghiotti moduli – ormai con una certa sapienza – questa sua affettività da un’altra retorica (nel senso più alto e tecnico) del movimento linguistico, ovvero la variazione. Roma ha una e mille anime e altrettanto diversi sono i suoi poeti. Cosa li accomuni è impossibile a dirsi, nonostante i tentativi fatti ma poco esaustivi, come è impossibile racchiudere questa città in una sola definizione, in una formula onnicomprensiva. Roma è complessa, molteplice, sfuggente. Così a ogni testo è come se Ghiotti si sia incamminato in un quartiere diverso, recuperando immagini da tradurre in versi, ma ben sapendo, come ogni autentico viaggiatore, o meglio viandante, che nel suo sguardo scorrono le immagini di chi ha percorso quelle stesse strade prima di lui. Dunque è un viandante immaginario, nel senso che recepisce un immaginario e lo sovrappone al suo.


Questa poesia appare dunque doppiamente riconoscibile, nei suoi segni e in quelli ripresi dal passato/presente. Ipotesi del vero non fa che continuare e corroborare un percorso coerente, di cui un’altra tappa essenziale è rappresentata dalla raccolta La città che ti abita, edita da Empirìa (altro pezzo di quel passato che ci sta lasciando). Direi però che fin dall’esordio, dall’Estinzione dell’uomo bambino Ghiotti abbia saputo cogliere, con insolita lucidità, quel nesso centrale tra memoria e infanzia, intesa come atteggiamento percettivo e non come età, come momento umano. Piuttosto quel momento, dilatato nel tempo e nello spazio come solo la poesia sa fare, è divenuto, se non l’alba di un mondo, l’alba di una città ancora viva: 

 

Io vado da dove tu vieni,

dove bambini gorgogliano

al fondo di fontane

come specchi parlanti di brame,

e i sogni sono camicie che non puoi

lavare. […]

 

Ipotesi del vero è un autentico esercizio di intelligenza del cuore. L’infanzia è «la diga che non tiene», scrive Ghiotti, e non perché tracimi nostalgia del passato; se proprio di nostalgia vogliamo parlare è piuttosto una nostalgia del futuro, come quella di Penna, come quella di Dante nel Purgatorio. Infatti una certa luce purgatoriale ammanta queste poesie; «qui» (ma quanto è ampio questo deittico, che cosa indica davvero?) «è quasi primavera». Siamo allora condotti, con estrema cura, come presi per mano, verso una soglia dove nulla è finito perché ancora tutto accade. Nulla chiediamo alla poesia se non questo accompagnarci.

sabato 17 giugno 2023

«Ipotesi del vero». Le nuove poesie di Giorgio Ghiotti a Roma

È apparso da LiberAria il nuovo libro di poesie di Giorgio Ghiotti.

Lo presentiamo, con Giulia Caminito, alla Libreria Spazio Sette di Roma, venerdì 23 giugno.




venerdì 16 giugno 2023

Il 22 giugno Palermo per Sciascia e Guccione

È appena apparso da Olschki il volume Ladri di luce, a cura di Lavinia Spalanca. In diversi saggi si ricostruiscono i rapporti tra lo scrittore l'artista.

Presenteremo il libro giovedì 22 a Palermo. Alle 16:00, Aula Fioretti, Viale delle Scienze. ed. 4.









lunedì 17 aprile 2023

Annelisa Alleva su «Tempo d'opera» di Alberto Toni

 Quasi un terrore antico





 

 


 

 

            Conoscevo Alberto Toni da anni, e con lui sua moglie Patrizia, a cui ha dedicato tanti versi e l’intera raccolta Poesie per Patrizia

            Ci scambiavamo i libri, conoscevamo le nostre case, parlavamo insieme di poesia, ci incontravamo alle letture.

            Io leggevo le sue raccolte, ma non le capivo fino in fondo. Non capivo l’origine di quell’ansia che traspariva dalla sua persona, una specie d’impazienza di vivere, un nervosismo misto a fierezza che non riusciva a non tradire, seppure il suo sguardo dietro gli occhiali e tutta la sua persona esprimessero benevolenza nei confronti degli altri.

            Quando ho letto la bella e intensa introduzione e postfazione di Roberto Deidier a quest’ultima sua raccolta, Tempo d’opera, e poi ho avuto modo di parlare con sua moglie Patrizia, ho saputo che, dietro la sua scomparsa improvvisa, c’era un problema che aveva un’origine lontana, e che questa esperienza di malattia aveva provocato in lui un’eterna idiosincrasia con i medici e un motivo d’inquietudine.

            Dopo averlo appreso la sua poesia mi è apparsa più chiara.

            Chiaro il momento della giornata che ricorre più spesso qui: l’alba, che annuncia il mattino:

 

Le cinque: si apre il mattino e primo il merlo,

poi il tordo sassello prima luce e la cincia.

 

L’ultima linea di fuga è per me di domani,

al sole del primo mattino (p.70)

 

amore quando volgevamo lo sguardo

al primo mattino senza fretta. (p.92)

 

Ne parla anche una dedica:

 

A mia sorella Alba (p.90)

 

che in questo contesto potrebbe apparire una fratellanza anche simbolica.

            Elemento fondamentale di questa poetica è il tempo, che è stato scelto molto a proposito per il titolo della raccolta: Tempo d’opera

            Il tempo qui è protagonista:

 

Saresti così gentile, chiedo, saresti così gentile

da ricordarmi la vita, tutto il tempo che ho trascorso, (p.19)

 

e il leccio capirà

che c’è un tempo per tutti e il tempo è caro, (p.21)

 

Tutto adesso, perché giusto

è il tempo. E non c’è tempo,

se non nel restare, mondo. (p.27)

 

All’universo dico: è il tempo del ramo e dell’ultima semina,

qualcosa che verrà, e meno stanco di adesso, (p. 29)

 

Tu prendila come l’idea stessa del tempo […]

Lo spazio è limitato come il tempo. (p.41)

 

Ritornava, se ritornava, dentro il suo tempo,

giovane nel suo tempo, inconsumato, la breve vita, (p.45)

 

Dovevi forse saperlo

e ti è sfuggito tra le mani, un tempo d’opera e le mani

che cercano di dirlo, (p.54)

 

            Il tono è inesorabile, il ritmo sincopato, reso incalzante dalle virgole che si susseguono:

 

Quel bel ricordo, teniamolo quel bel ricordo,

riprenditi la vita, sentivo, tra quante ne abbiamo, (p.104)

 

            Lo stato fisico è quello del battito incontrollato, lo stato d’animo – quello del terrore, timore, tremore, turbamento, ansia, tensione:

 

E la paura che prende, quasi un terrore antico, (p.31)

 

Certe volte cade in mezzo alla stanza un battito incontrollato

del cuore, un vento spazza anche gli ultimi. (p.54)

 

Ma al battito, che dire,

bastava un niente per lui, riaccendersi, (p.55)

 

Non altro che questo: un timore strano,

insolito, strappato alle maglie del giorno.

[…] Ma d’un tratto, proprio nel mezzo

del giorno riecco nel furore adamantino,

tremore andato perso, ritornato in tempo

magari per qualche istante fino a sera. (p.72)

 

Preso, io, da furore, o chiuso e impenetrabile, (p.74)

 

A me bambino questa frase

provocò ansia e da allora

ti guardo per capire, (p.76)

 

Vieni domani e portami

nuove cose da leggere, sai

temperare l’ansia con eleganza. (p.104)

 

Avevamo altre domande,

tremori che ora so tra strade antiche

una via d’uscita, (p.79)

 

un’aria mi cresce dentro,

un motivo, lo sconosciuto ardore, ma

di lato, speciale, come un timore lento

e inafferrabile di parole pronte all’uso. (p.101)

 

            Alberto era amico di Giovanna Sicari. Avevano studiato insieme a Lettere, preparato esami insieme. Erano coetanei, e si erano confessati entrambi di essere poeti, di scrivere. Si dicevano: pensa quando in libreria ci saranno anche i libri nostri, col nostro nome inciso in copertina…

            Roberto Deidier a un certo punto sottolinea questa comunanza, che include anche se stesso, quando scrive “di un incessante addestrarsi alla poesia”, cioè della poesia come esperienza, rigore, coerenza, ragione di vita.

            In questa raccolta c’è sicuramente un’eco dei versi di Giovanna Sicari, soprattutto della sua ultima raccolta, uscita pochi giorni prima che morisse: Epoca immobile. Anche qui, nel titolo, c’è un riferimento preciso al tempo.

 

non tremavamo all’ombra dell’idea, del destino veloce,

della sfida ogni giorno e della passione. Tu lo sapevi?

 

            Proprio nell’ultima poesia della raccolta è presente il tema in comune con Giovanna degli uccelli, simbolo della vita che si perpetua, risorge anche dopo di noi, e l’accettazione del dopo di noi che questa apertura comporta:

 

Che sia la prima aria fresca del mattino

e il canto gioioso degli uccelli, (p.106)

 

            Alberto amava la pittura e amava il verde, inteso come giardino, natura, salvifica in tutte le sue sfumature:

 

Stamattina amavamo il verde

lungo via Nomentana, (p.79)

 

Tutto questo verde della salvezza non è consumato? (p.95)

 

Mi resterebbe un passo di verde antico (p.99)

 

un verde chiaro chiaro

che non mi attira. (p.105)

 

 

            Del verde è la morbidezza, che il poeta inseguiva:

 

Ho sempre inseguito un tempo così, morbido e di pastello.

Erano i platani del Lungotevere, (p.60)

 

Diamoci quel tu morbido.

La fierezza è ancora viva

e porto scarpe morbide. (p.76)

 

Passano, e vita è dedicarsi con amore, piano

che vita nel suo farsi è tenerezza, (p. 86)

 

            Il tema della morbidezza, e così anche quello del verde, si legano istintivamente alla fragilità, alla tenerezza e al sentimento amoroso:

 

Ecco, con te rose, non una volta

e tenerezza […]

Là ti cercavo con l’indice allo stremo,

tra le forme mutevoli del nostro amato verde. (p.88)

 

            Patrizia è sostegno, colei che tiene tutto insieme, e Alberto la vede come la tessitrice di un senso più profondo e salutare dell’esistenza, una paziente e costante Penelope. 

 

Vedo non vedo nel cucito la trama piccolina delle tue mani. (p.75)

 

Prendimi, su, raccogli la mia tenera ombra e l’ombra della preda

tutte le cose viste,

prendile, per me solo,

prendile nel tuo palmo,

tagliale senza paura,

poi servono, ti dirò, a non dimenticare. (p.91)

 

E sopportava, lei, con sopportazione

di madre, non un gesto che potesse tradirla. Lei

tra le antiche rose della città dei primissimi passi. (p.95)

 

tu mi resti accanto a ricucire,

a riprendere in mano il filo nuovo del discorso,

a stare. (p.99)

 

Dimmi tu, fammi da sostegno,

riaprimi nella stanza dopo tutto

il tempo. Ti stringo forte come

a non perdere niente, (p103)

 

Vieni domani e portami

nuove cose da leggere, sai

temperare l’ansia con eleganza. (p.104)

 

            Il dipinto di Enrico Luzzi in copertina: due paia di scarpe maschili che s’inseguono su sfondo giallo senza la persona che le calzi, sono un’immagine viva di quel che deve capitare, con il contributo di tutti quello che restano e che possono diffondere le parole di chi è scomparso, a un poeta. Continuare a camminare, anche senza che il corpo sia vivo, con la propria opera.


Alberto Toni, Tempo d’opera, a cura di Roberto Deidier, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2022.

 

                                                                                                          Annelisa Alleva

                                                                                                          Roma, 14 aprile 2023