mercoledì 29 ottobre 2014
venerdì 24 ottobre 2014
Nicola Romano su Solstizio
Posto una recensione di Nicola Romano a Solstizio, apparsa in «Quaderni di Arenaria», nuova serie, vol. VI, 2014.
Concettualmente
articolata sulla ciclicità e sull’ambivalenza dei solstizi,
questa nutrita
raccolta di poesie di Roberto Deidier giunge a meglio
comprendere gli
aspetti più nascosti e, quindi, più avventurosi
dell’esistenza,
attraverso una parola che s’impregna del proprio tempo e
delle sue infinite
tensioni, per esprimerlo a pieno dentro composti itinerari
interiori che, con
una puntualità d’osservazione, rivelano la magmatica
condizione
dell’essere che si confronta con la variegata gamma dei contatti
del vissuto. Le sette
sezioni che compongono l’ordito strutturale della
raccolta, in buona
sostanza vanno a formare un unicum che vuole
confrontarsi con un
probabile «luogo» dove assemblare e all’occorrenza
aggiustare le
sensazioni e le memorie, al fine di decodificare la varietà dei
palpiti che
afferiscono alla naturale pulsione del vivere. In tal senso
troviamo Deidier a
giostrare con mestiere tra uomini e cose, offrendo così
ampi spazi meditativi
al dialogo tra l’io narrante e il mondo esterno, un
dialogo che
inevitabilmente permeato da un sottile risentimento mette in
evidenza le
immancabili lacerazioni del quotidiano. Tra saltuari segmenti di
richiami storici o
biblici, il presente sembra a tratti flettersi nel passato per
poi tornare con la
vividezza delle sue inquietudini e delle sue particolari
analogie con il mondo
attuale sempre più intaccato dalle contingenze extraumane.
Molto deliziosi gli
endecasillabi della sezione dedicata a Palermo
sua città adottiva
che, come l’alternanza dei solstizi, sa porgere all’autore
taluni sensi di vuoto e di ricchezza.
Nicola Romano
giovedì 23 ottobre 2014
venerdì 17 ottobre 2014
AILANTO n. 9 - Su Seamus Heaney
Oggi che possiamo leggere nella
sua interezza Morte di un naturalista,
suo lontano libro d’esordio, il cerchio che Heaney ha disegnato lungo la sua
intera vicenda di poeta sembra essersi definitivamente chiuso. Marco Sonzogni,
che di questa edizione firma la traduzione e la nota finale, cita molto
opportunamente alcuni richiami evidenti all’ultimo libro, Catena umana, ricordando spesso, però, che altri e non meno
evidenti richiami percorrono anche le altre raccolte di quest’autore,
componendo dei veri e propri microsistemi semantici, fatti di allusioni,
citazioni, riprese di immagini a distanza. Il movimento conclusivo di questo
percorso, tra i più suggestivi dell’ultimo Novecento, è dunque un perfetto
salto all’indietro, una vorticosa capriola lì dove tutto era cominciato, nei
vibratili anni Sessanta; ma non si tratta tanto di un ritorno all’origine, quanto
del perseguimento di una coerenza interna, del riconoscimento all’interno del
proprio cielo poetico di alcune stelle fisse, che sono tornate in più momenti a
illuminare la notte espressiva di Heaney.
È proprio dal buio, infatti, che
questa poesia prende le mosse. La metafora che meglio la identifica, quella
dello scavo (digging), annuncia
l’attraversamento dell’oscuro e la possibilità, attraverso l’elaborazione della
scrittura, di riconsegnare alla luce del giorno un paesaggio ctonio.
L’impressione è quella di un’ennesima azione orfica, forse un po’ anacronistica
nel cuore di una postmodernità che privilegia piuttosto le poetiche della
superficie, dell’effimero, del superfluo. In realtà Heaney è un poeta
perfettamente allineato al suo tempo e la sua personale impresa non intende
fronteggiare alcun mistero. La materia che viene via via scoperta è appunto
tale, un grumo di rappresentazioni e immagini concrete, sulle quali la penna
(la “vanga”, nella superba metafora che la identifica) interviene plasmando un
piccolo universo parallelo, una dimensione trascendente dove la paura, grande
motore di tutta questa poesia, può essere affrontata, liberata o forse
addomesticata.
All’elusività dei simboli che la
tradizione, anche italiana, gli offre (Pascoli, anzitutto, o il primo Ungaretti
del Porto sepolto) Heaney ha preferito
una densità metaforica che si risolve perlopiù nella descrizione invece che
nell’evocazione. Quasi tutti i testi di Morte
di un naturalista seguono questa scelta, o predisposizione: il poeta sa
bene che la lingua è uno strumento da governare, e pure laddove evoca o
suggerisce (si veda la bellissima Impalcatura,
o la successiva Tempesta sull’isola),
riesce a far emergere con una certa chiarezza la figura che manca e che pure si
forma sotto i nostri occhi. Dietro la promessa coniugale, o il «grande nulla»
che si affacciano dai versi di queste poesie, il lettore può intravedere quel
punto di tensione, da dove la scrittura di Heaney trae la propria origine e la
propria forza: la lingua come energia plasmante, come vortice metaforico che
segue i contorni di ciò che normalmente resta sconosciuto, come nel gioco
enigmistico delle linee da tracciare tra un punto e l’altro. La metafora,
insomma, non come complessità, ma come scioglimento, come dimensione di un buio
senza più paure.
Seamus Heaney, Morte di un
naturalista, trad. di Marco Sonzogni, Mondadori 2014, e. 17,00.
San Francesco e gli uccelli
Quando Francesco predicò l’amore
agli uccelli,
loro ascoltarono, svolazzarono,
scattarono
alti nel blu come uno stormo di
parole
liberate in allegria dalle sue
sante labbra.
Poi una virata, ed eccoli di
nuovo frullare sul suo capo,
piroettare sulle cappe dei
fraticelli,
danzare in volo, per pura gioia
giocare
e cantare, e come immagini
prendere il volo.
Fu la poesia più bella di
Francesco,
vera nel ragionare, lieve nel
tono.
mercoledì 15 ottobre 2014
Ricordo di Piero Bigongiari
Dovevo trovarmi al Teatro Studio di Scandicci, ieri sera, per un omaggio a Piero Bigongiari nel centenario della nascita, ma non ce l'ho fatta. Ho scritto però un breve ricordo che ho inviato a Paolo Fabrizio Iacuzzi, organizzatore dell'evento.
Ho conosciuto Piero Bigongiari
nella seconda metà degli anni Ottanta, non saprei dire con più precisione:
quando, su invito di Maria Luisa Spaziani, veniva a Roma, a piazza Campitelli,
a tenere conferenze per la cattedra di poesia del Centro Montale. Con ogni
probabilità fu Maria Luisa a presentarci. L’ho incontrato meglio, in compagnia
della moglie Elena, a Perugia, alla fine di settembre del 1990, dove li avevo
raggiunti con Elio Pecora in occasione di un convegno su Sandro Penna: ho la
loro immagine precisa, questa volta, nel ristorante dell’albergo La Rosetta, allo
stesso tavolo con Oreste Macrì. Il nostro piccolo carteggio, di cui resta
qualche traccia fra un trasloco e l’altro, era già cominciato. Quell’anno,
infatti, avevo pubblicato una sua poesia in un piccolo quaderno di poeti che
stampavo con l’amica Marina Guglielmi, «Trame». Era il numero tre, datato
maggio, e Bigongiari lo apriva. Gli avevo scritto in gennaio o febbraio,
chiedendogli un testo, e lui, a metà febbraio, aveva cordialmente risposto
ricordandosi di me e della promessa. In quello stesso quaderno appariva, tra le
altre, una poesia di Antonio Riccardi.
Quando lo raggiunsi al tavolo per
salutarlo, mi rispose così: ecco il mio più giovane editore. E in questa veste
insolita mi presentò a Macrì, che subito prese a parlarmi di un suo libro
inedito su Penna, pensando che fossi un editore vero. L’equivoco fu chiarito,
per mia fortuna e non senza sollievo. I tre giorni trascorsi con loro ad
ascoltare gli interventi del convegno, o insieme al ristorante a discutere di
novecento, mentre giudicavamo i piatti che ci venivano proposti, mi
restituiscono ancora di lui un’immagine allegra e cordiale, all’opposto dei
ritratti seri e pensosi che mi aveva fatto Maria Luisa; e lei, al mio ritorno a
Roma, dubitava dei miei racconti: ma è proprio Piero quello che hai conosciuto?
Anche sua moglie condivideva quell’allegria, quel clima di simpatia e di
vitalità che s’era acceso tra noi.
Non lo avrei più rivisto,
purtroppo. Dopo Perugia, i nostri contatti si limitarono alle lettere. Ancora
nel ‘91 mi inviò alcuni degli Sketches
che andava scrivendo in quel periodo, sempre per «Trame»: ne pubblicai uno
nell’ottavo quaderno del giugno ’92. Quell’anno apparve da Mondadori La legge e la leggenda, e avendo avuto
dall’inserto «Spaziolibri» de «La voce repubblicana» la possibilità di scrivere
quel che volevo, mi affrettai a recensirlo. Bigongiari non tardò a rispondermi
che per lui era stata la recensione più bella. Lo racconto perché quel
riconoscimento critico – da un poeta, ma anche da uno dei maggiori studiosi
della modernità poetica – è stato fondamentale per me, una vera infusione di
sicurezza, un incoraggiamento a proseguire nell’occuparmi della poesia altrui.
Quello che sarebbe divenuto, nel tempo, il mio «terzo mestiere».
Cosa potrei proporvi, di lui, se
non qualcosa di cui ho avuto la ventura di essere “editore”? La poesia, se non
ricordo male, fu poi inclusa ne La legge
e la leggenda, ma mentre scrivo non ho il libro con me e non potrei
giurarlo: l’infaticabile e informatissimo amico Iacuzzi potrà confermarvelo. Il
titolo è Spes paenultima dea.
Bigongiari mi scriveva in proposito: «le accludo questa favoletta sperando che
non le dispiaccia». Ma di favole si ha sempre bisogno, e non solo a vent’anni.
Grazie, carissimo Piero.
«Senza speranza, come puoi
campare?»
disse una volta un granchio di
mare
a un suo compagno che andando
sbilenco
punteggiava la spiaggia con la
lenta
grafia delle sue zampe verso una
poco distante duna. Ed ecco a un
tratto
che l’ondata raduna i due
viandanti
e un po’ li travolge, un po’ li
porta
verso la battima sonora. «Vedi,
è questa la speranza: improvvisa
ti distoglie mentre più ti
allontani
da lei» rispose l’altro al
compagno
che rivoltato dall’ondata stava
a zampe all’aria. «Sì, ma essa ti
toglie
talvolta il modo anche
d’allontanarsene,
anche se essa non è mai
l’estrema»
il primo farfugliava tra le
sparse
pozze che luccicavano qua e là
prima che le riassorbisse la
rena.
Spes paenultima dea… In
quell’istante
lassù in alto un aereo della BEA
lascia una striscia sottilmente
bianca
nel sole ultimo, troppo alto pei
granchi,
nebulosa nei suoi recessi
azzurri.
L’uno s’affretta di tralice,
l’altro
attende che lo volti un’altra
ondata.
martedì 14 ottobre 2014
Antonio Fiori su Solstizio
Posto una recensione di Antonio Fiori su Solstizio, apparsa su facebook. Grazie!
Solstizio, l’ultima raccolta poetica di Deidier, è un'autoantologia che sfida il lettore alla ricostruzione di luoghi ed eventi, a riconoscersi pure, ogni tanto, ma anche a stupirsi, impegnarsi a riscrivere la 'propria' poesia Latore di luoghi, età, momenti diversi, è qui lo stesso autore a cercarsi, sin dall’inizio: “Sono fermo non so dove e non ho occhi”. Certo “La vita chiama/ di là dalla parete dell’istante” ma c’è una voce coscienziosa che invita a resistere: “Resta qui” ripete la mia voce”. Una poesia dunque che esita, consapevole di quanta fatica e di quante ferite riservi la vita, del suo dover essere all’altezza del compito.
Il poeta, nella sezione centrale della raccolta - ‘La fossa dei leoni’ - da voce a grandi personaggi biblici, esercizio prezioso per radicare e rinforzare la parola (“partivo senza bagagli di parole”); il risultato, alla fine, è omaggio anche a Lee Masters.
Ma per un ritratto di Roberto Deidier, invito a recuperare sia i luoghi di questa poesia (“la città vista in sogno”, “la città dai fiumi interrati”, Mantova, Palermo – “città del doppio regno” - e ancora stanze, letti, scorci, vedute e “questa casa, sono stato questa casa”), che gli incontri di cui è debitrice, amorosi e non, registrati con mutevolezza di toni e di stile. Affiora ogni tanto Raboni: “Se mai accadesse di trovarmi a scoprire/ Il nome vero del gioco che facciamo/ Fuggirei da te come da troppa luce”; “Per averti dissimulo l’averti”. Ma spesso il verso d’amore è semplice, quasi dimesso: “Sembra dire e intanto fissa un punto/A lei sola noto. Tra il corpo/ E il giorno, dove non sa dormire/ L’esperienza di un’arte proibita.//Quelle labbra serrate ancora sporche/ e lo sbavo del trucco sulla guancia”. E all'improvviso, ancora quella voce, bussola con cui non si discute: “…e una voce conosciuta/ da qualche luogo interno ti richiama”.
Il poeta, infine, nell’ultima sezione, totalmente metapoetica, si riconcilia con la sua Musa, e da un pregresso - “Chiudo la porta e so che non ritorno” - Solstizio si conclude con questo verso umile, rivolto alla Poesia: “Ti chiedo a voce bassa di tornare.”. Ed anche il buon lettore, ultimata la lettura di Solstizio, sente di dover tornare: i sopralluoghi infatti riservano sempre sorprese e nuovi significati.
lunedì 13 ottobre 2014
sabato 11 ottobre 2014
AILANTO n. 8 - Su Marcia Theophilo
Il mondo poetico di Marcia
Theophilo è un cosmo di memorie. Il suo ambiente, la sua dimensione più
autentica è infatti quella della foresta amazzonica, ovvero di un habitat
perennemente assediato, messo in crisi, sfruttato e annientato. Ciò di cui il
poeta parla, canta, è destinato a rimanere sulla pagina nella forma di un
racconto mitico, che non appartiene più al presente o al futuro, e neppure al
passato più prossimo. Giustamente in questo nuovo libro, Amazzonia. L’ultima Arca, si parla di «archeologia amazzonica», di
una percezione della grande foresta condizionata dalla sua incessante
metamorfosi in negativo: delle immagini, dei riti, dei colori, dell’immensa
varietà di animali e di alberi si potrà parlare, d’ora in poi, come se si fosse
trattato di un sogno, di qualcosa che si potrà ricostruire solo attraverso le
congetture dello scavo. Nella specie di ciò che più caratterizza i nostri
desideri, il sogno appunto, Marcia Theophilo esprime invece la sua denuncia.
Non è la prima volta, nella
vicenda di quest’autrice: anzi, tutta la sua poesia è votata, da sempre, al
lamento civile per una felicità edenica, per un modello di cultura che non ha
più spazio nel secolo della globalizzazione. E quella cultura è tutt’uno con
l’ambiente in cui si è prodotta: nella lingua poetica di questi brevi canti,
infatti, non c’è soluzione di continuità tra ciò che appartiene al naturale e
ciò che appartiene all’umano. I suoni del portoghese brasiliano si fondono
inevitabilmente con quelli delle lingue indie, con il loro immenso repertorio
di dèi, di animali, di miti, e tutto ciò giunge all’orecchio europeo come un
mantra magico, come una splendida fusione di ciò che la storia ci riconsegna
attraverso i suoi strati. Anche il plurilinguismo, dunque, riconduce il lettore
verso l’archeologia, mentre i tetri cromatismi della deforestazione prendono il
posto dei mille verdi, e il sole – nuovamente testimone del disastro, com’è in
tutta la tradizione poetica dell’occidente – illumina un paesaggio infernale,
di brace.
Di quell’inferno Marcia Theophilo
registra e riporta le seduzioni e gli inganni e ne affronta nella mimesi della
presa diretta, con l’occhio dell’antropologo che si è fatto poeta, tutto il
triste, tragico carico di mortalità: «Ecco apparire le ombre / la tempesta
lambisce gli animali / uragano». L’arca biblica, strumento di salvezza e di
protezione delle specie, è qui rovesciata di segno, è il mezzo che trasporta
una modernità che uccide, una cultura dominata dall’interesse. Le voci della vita si tramutano in
urla, la distruzione domina e occupa per intero la visione dall’alto del poeta,
nuovi e più drammatici animali meccanici riempiono lo sguardo su un paesaggio
apocalittico. Con questo poema, scandito attraverso duecentocinquantanove
tesissime lasse, ci è stato consegnato l’estremo epicedio di un mondo
simbolico, icona stessa sia di uno
spazio vitale e necessario, sia del resistere della poesia.
Marcia Theophilo, Amazzonia. L’ultima
Arca, prefazione di Walter Pedullà, Passigli 2013, e. 16,50.
Infinite colonne di formiche
colonne interminabili di auto
Uccelli volanti
macchine volanti
Foltissime foreste,
bruciano gli alberi
spogliati delle foglie
I vincitori
rimangono in possesso
Di un luogo devastato.
martedì 7 ottobre 2014
lunedì 6 ottobre 2014
sabato 4 ottobre 2014
Massimo Stella su Solstizio
Posto una recensione di Massimo Stella a Solstizio, apparsa su «il manifesto-Alias» del 28 settembre: Stella è riuscito a raccontare i movimenti interni del libro con il virtuosismo della brevità. Gli sono particolarmente grato per questo, per ciò che dice e per come lo scrive.
venerdì 3 ottobre 2014
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