C’è
qualcosa che non torna, immancabilmente, nelle geografie letterarie più
recenti, soprattutto quelle della poesia; e se quelle geografie si restringono
a una generazione di autori la situazione non cambia, qualcuno o qualcosa si
sarà sottratto comunque all’attenzione dei compilatori di manuali o di
frettolose e tendenziose antologie. Tra i nomi della generazione degli anni
Sessanta, per esempio, è mancato a lungo quello di Renato Nisticò, oggi
pienamente riscattato dall’apparizione della sua seconda raccolta, Attenti caduta metafore, nella preziosa
collana di poesia dell’editore Donzelli. La prima, intitolata Regno mobile, risale al lontano 2001.
Il
nuovo libro ha una struttura forse poco italiana, nel senso che non appare
organizzata in sezioni, ma lascia liberamente fluire i temi dal testo d’avvio a
quello di chiusura, non senza una certa specularità. Il poeta, nell’incipit, si
presenta sotto le spoglie di un dio nascosto e la sua condizione appare essere
quella della maturità: «Sono diventato adulto / son diventato grande», dice
Nisticò, come a suggellare la fine di quella lunga, variegata Bildung di cui Regno mobile, e anche il romanzo L’Arcavacante erano stati l’espressione, ora ironica ora sospesa
tra residui di incanto e delusioni. Ma «attenti», come suggerisce il titolo,
perché lo scarto metaforico è sempre in agguato per sorprendere e spiazzare il
lettore. Così quel secondo aggettivo, «grande», vuole riferirsi non solo
all’anagrafe, ma anche a una condizione di pervasiva smisuratezza: dalle sue
altezze, il dio perde la percezione delle «cose della terra», e allora anche la
conquista della maturità si rivela una facile illusione, un nascondersi a se
stessi. Il poeta è infine un «triste» ma «vivace impostore», come recita
l’ultimo verso della raccolta: «L’età cade muta», ed è significativa
quest’asserzione dopo un vasto dispiegarsi di risorse locutive, finanche di un
tentativo di Discorso agli italiani,
dove la passione non scade mai in facile retorica.
Nisticò
ha il dono di sospendere il linguaggio in una zona del poetico dove ogni
significato sembra ancora compiersi, e dunque tutto diventa risorsa, per lui, e
nulla rischia di usurarsi. Le sue immagini sembrano ancora pregne di quel
candore che rinvia a uno sguardo adolescente, alla freschezza e vivacità di un
perenne presente: «Qui da noi di una storia / del futuro non se ne fanno
niente», scrive in L’avo futuro.
Quanto al passato, la sua rievocazione non è mai oscurata dalla malinconia,
perché «La vita è una, non ammette altro da sé», suggerisce severamente
l’autore come a circoscrivere un suo recinto, una sua condivisa ontologia. In
questa immanenza, di cui l’occhio si è nutrito incessantemente e che non cessa
di reinventarsi nella lingua della poesia fino a farsi «cristallo di durata»,
Nisticò ci aiuta invece a comprendere che il grande tema di fondo, il vero
antagonista è proprio il tempo, richiamato sotto ogni possibile specie, a
partire da quella della finitudine, se «vita mortale, verso l’inverno vai» (Le vecchie). Non so fino a che punto
questo carattere di meditazione sul fluire della vita sia un tratto che
accomuna questo libro all’opera di diversi poeti del meridione, né vorrei che
sembrasse riduttivo, nei confronti di un libro così mosso, così ricco delle sue
necessità, stabilire un confine tematico così netto. Ma se «L’acqua è allora
una durata», si chiede guardando la pioggia, allora un filo non troppo segreto
da Eraclito a Brodskij lega Attenti
caduta metafore a qualcosa che ha a che fare anche con una morale del
tempo, non solo con il suo manifesto consumarsi. Dietro la fanciullezza delle
immagini si riconosce una corda civile che proprio verso la fine tende a
rivelarsi con più nettezza, presentandosi come un memento e come un invito.
Renato Nisticò, Attenti caduta metafore, Donzelli 2017, e. 14.00
La
luce si nasconde dietro il suo apparire:
rivelazione
di una troppo vivida estate
che
ha partorito in te
un
certo tipo di sguardo, bieco e ridente:
I
maestri non lo sanno che cos’è la luce:
se
possono, ti ripetono formule
risapute…
Tu
dici È la ragione dei ciechi
è il
nero degli occhi che accresce
lo
splendore dei possibili volti
Io
dico È il popolo d’immediati rancori
che
si rivolta nell’opacità della lente
oscura
Non
è chiara la luce