http://www.tp24.it/2017/06/16/cultura/senza-lettura-poesia-siamo-solo-analfabeti-ritorno-parla-roberto-deidie/110397
1. Nel 1989 debutta come poeta sulla
rivista «Tempo presente»: alla sua attività in versi ha sempre affiancato il
rumore sottile della prosa ovvero l’opera di critico e accademico. Quanto
il fare poetico ha influenzato il suo modo di scrivere e intendere la critica
letteraria? E viceversa, il mestiere di critico ha avuto ripercussioni sulle
sue sillogi?
MI hanno rivolto spesso questa domanda, e
mi accorgo che nel tempo le mie risposte sono cambiate. Da ragazzo sostenevo di
coltivare una sorta di schizofrenia, tenendo le due attività ben separate,
considerando l’una una vocazione e l’altra un mestiere. Quando cominciai a
insegnare, intorno ai trent’anni, ripetevo a tutti di sentirmi un poeta
prestato all’università, e in fondo continuo a pensarla così: non ho mai voluto
prendere dimestichezza con certe dinamiche accademiche, con la burocrazia, con
l’esercizio del potere. Semplicemente non m’interessano. Mi piace ancora
leggere, studiare, aggiornarmi, piuttosto, e mantenere un rapporto vivo con gli
studenti. Oggi mi accorgo che la mia scrittura critica si è fatta sempre meno
tecnica e più discorsiva, senza perdere in rigore, ma non saprei dire se questo
sia un effetto della vicinanza della poesia. Quello che posso dire è che i
critici che ho amato di più sono stati tutti poeti: da Auden a Brodskij, a
Walcott, e per restare in casa nostra, Giudici, Fortini, Raboni. Le parole che
mi erano necessarie le ho trovate nelle loro pagine in prosa, non negli
esercizi dell’accademia. Rileggo sempre con profitto le pagine di Brodskij su
Rilke e su Frost, per esempio: per me rappresentano un vertice
dell’interpretazione. Al contrario, la mia attività critica non ha riguardato
solo la poesia: gli affondi più significativi sono dedicati ad autori in prosa
come Calvino. Eppure una lezione di stile e di rigore penso mi sia venuta,
anche da questi prosatori: la poesia non deve nutrirsi soltanto di poesia. Per
il resto è evidente che certe venature di pensiero che percorrono i miei libri
in versi collimano spesso con le mie riflessioni sul lavoro altrui: un poeta
che fa critica non può fare a meno di esprimere una poetica.
2. Qualche mese fa, a seguito di un
articolo di Franco Manzoni su la Lettura n. 270, è scoppiato
un animato dibattito sul verificarsi o meno di un Rinascimento della
poesia nel contemporaneo panorama letterario ed editoriale italiano.
La questione sembra ormai essere stata superata senza, però, alcun tipo di
risoluzione. Lei cosa ne pensa a riguardo? È davvero in atto un Rinascimento
della poesia?
Come vede resto ben lontano da certi
dibattiti. A me sembra piuttosto che da una ventina d’anni si sia alzato un
gran polverone. Da una generazione di pochi e parsimoniosi poeti, come la mia,
si è passati a un ritorno prepotente alla scrittura in versi, col proliferare
di piccoli editori e riviste online. E i giovani corrono a farsi pubblicare il
primo libro. Ma quando tutti sono poeti (basta entrare in facebook per
rendersene conto) nessuno lo è più davvero, e i pochi che hanno qualcosa da
dire faticano a farsi vedere. Aspettiamo che la polvere cali e potremo
riconoscere i libri destinati a durare. Siamo passati a una diversa sociologia,
nel senso che la società letteraria che garantiva certi esordi non esiste più: oggi
mi pare sia in atto una pratica diversa, un mercato del compiacimento, e
nessuno sa più giudicare. Così come nessuno ha più l’autorità per garantire e
promuovere. Insomma, non si fa più gavetta: a vent’anni si può già aver
pubblicato due libri, essere redattori di tre riviste, dirigere una propria
collana e magari millantare una candidatura al Nobel ed essere pure presi sul
serio. È una situazione che si commenta da sé. A soffrirne, soprattutto, è la
lingua della poesia.
3. Per molti la Sicilia è un'isola da cui
partire - e sovente sfuggire - per lei, invece, è stata un luogo di approdo.
Poco più che trentenne lascia Roma per trasferirsi nella città di Palermo, che
arriva a considerare come una sorta di terra promessa. Da dove è
sorto questo sentimento e in che modo tale legame con la terra siciliana
trapela nella sua opera letteraria?
La Sicilia è stata una lenta conquista,
un’esplorazione costante del territorio. Gli incontri non sono sempre stati
felici, invece. Sono venuto qui per lavoro, quando dopo anni di borse di studio
e precariato entrai in pianta stabile all’università di Palermo: allora non
c’erano i voli low-cost e il pendolariato da Roma mi pesava molto. Così decisi
di trasferirmi; presi una prima casa in affitto, dietro il teatro Massimo, poi
un’altra dalle parti di piazza Marina, vicino a quella che infine ho comprato.
Ho cominciato a frequentare gli scrittori palermitani, da Alajmo a Conoscenti
alla Santangelo; Sellerio è divenuto il mio editore per la saggistica. Ho
cercato di ambientarmi, ma non ho mai perso il contatto con Roma, dove torno
appena posso: il mio vero lavoro, la poesia, è rimasto lì. A Palermo, e ad
altri luoghi siciliani, ho dedicato diverse poesie raccolte in Solstizio. Sì, direi che la luce di quel
libro è una luce mediterranea, isolana. Questa potrebbe essere una terra
bellissima, se si cominciasse davvero ad amarla: non parlo di quel che resta
del passato, sarebbe troppo semplice. Parlo del presente, del paesaggio di
oggi, di quel che abbiamo sotto gli occhi, del tanto che si dovrebbe e potrebbe
fare. Ma i siciliani, come lei dice, da qui vogliono solo scappare.
4. Il premio Nobel Odisseas Elitis diceva
che la poesia è «l'unico luogo in cui la forza del numero non ha potere»,
eppure gli ultimi dati Nielsen sulla poesia in Italia e sui suoi lettori ci
descrivono una realtà completamente ribaltata, in cui il numero dei poeti supera
di gran lunga il numero di libri di poesia venduti: è possibile trascurare tale
squilibrio? A cosa lo imputa?
È quello che le dicevo prima, ma stiamo attenti
a non scambiare la causa con l’effetto. A monte di questo fenomeno c’è un
pericoloso, micidiale connubio di dilettantismo e narcisismo. E di
disinformazione. Un tempo avrei imputato la responsabilità anche ai media, che
hanno sempre trascurato una seria informazione sulla poesia; oggi mi rendo
conto che sono oberati di richieste di recensioni e va da sé che non c’è spazio
per tutti, ed è divenuto sempre più difficile scegliere. Io stesso ricevo molti
libri a cui non sempre riesco a stare dietro, nonostante la curiosità; e la
vita a cui spesso siamo costretti sottrae spazio all’ascolto dei poeti, che
richiede attenzione e tempi lunghi. Quanto al mercato della poesia, è ovvio che
sia composto perlopiù di poeti; a chi altro interessa un genere che ci
costringe a tornare fruitori attivi, nell’epoca delle immagini? Un genere che
la scuola ci insegna a odiare, piuttosto che amare? C’è una totale
diseducazione alla lettura, quindi non dobbiamo sorprenderci. Ma senza lettura,
senza poesia, siamo solo degli analfabeti di ritorno.
5. Quest’anno si celebrano i quarant'anni
dalla scomparsa del poeta Sandro Penna. Lei ha curato per i Meridiani Mondadori
un volume - in uscita il 13 giugno – che ne raccoglie le poesie, le prose e le
pagine di diario, restituendo ai lettori la possibilità di riscoprire un
gigante, quasi dimenticato, del nostro Novecento: potrebbe parlarci del lavoro
che ha portato alla realizzazione del meridiano?
È stato un lavoro durato ventisette anni,
fatto di letture, approfondimenti, e naturalmente di esplorazione dell’archivio
del poeta e di ricerche, che mi hanno portato in altre città, soprattutto
Milano. Più mi addentravo in Penna più mi convincevo che dal punto di vista
editoriale qualcosa non mi tornava, sorgeva in me il sospetto che quel Penna non coincidesse del tutto con
l’immagine che il poeta voleva lasciare di sé. La conferma l’ho avuta
ricostruendo la storia delle sue edizioni, nelle cui vicende sono sempre
subentrate, come consulenti o editors, persone esterne. Insomma, Penna non è
responsabile di nessuno dei suoi libri, a parte un’antologia del 1973, che
nessuno ha più tenuto in considerazione. Sono ripartito da lì, con tutte le
cautele possibili. Perché Penna è un gigante, come lei dice, ma anche un
oggetto fragilissimo, che rischia di frantumarsi nelle nostre mani appena
proviamo a stringerlo. In realtà non è mai stato dimenticato, ha sempre avuto
lettori forti e autorevoli: eppure una buona parte della sua fisionomia, e
della sua formazione, restava ancora in ombra. Spero che questo Meridiano aiuti
a definirlo meglio, suggerendo nuovi filoni d’indagine.
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