lunedì 2 maggio 2016

AILANTO n. 30 - Su Vivian Lamarque


Il tema dell’orfanità ha attraversato, in maniera ora più evidente, ora più tangenziale, la poesia di Vivian Lamarque, nelle forme di un rapporto difficile soprattutto con la figura materna, incarnata da una «madre biologica» e da una madre adottiva, non senza qualche sfasatura di ruolo. Con le nuove poesie di Madre d’inverno, appena apparse nello Specchio mondadoriano a vent’anni esatti da quelle raccolte in Una quieta polvere, l’autrice affronta direttamente la questione e tenta di dirimerla, con un piglio che per certi aspetti potrebbe definirsi petrarchesco. Questo libro, infatti, si attesta come una sorta di canzoniere in morte, dove però le due figure materne sono rievocate con i toni che non vogliono essere quelli della celebrazione, ma della verità minuta, della realtà quotidiana, come è, da sempre, nello stile di Lamarque: dove è proprio l’osservazione minimalista, e la suadente musica in rima che spesso la scandisce, a riportare all’attenzione verità ben più grandi. Ammesso che esistano in questo piccolo ma complesso universo di figure famigliari.
Con la sapienza della maturità, e con la sua lente che riesce finalmente a mettere a fuoco gli eventi del passato, sia prossimo che distante, Vivian Lamarque affronta la perdita delle due madri nella chiave a lei non inconsueta del ritratto, la cui cornice è costruita attraverso una precisa modulazione del tempo; ed è questo l’elemento di novità del libro, e quanto di originale è condotto all’interno di un filone tematico assai caro al nostro Novecento migliore. «Sei tu che resti, o tempo, e io che vado», cita il poeta dal petrarchista Gongora, e potrebbe essere questa la vera epigrafe del volume, la sua più autentica chiave di accesso. Lamarque usa il tempo come una cornice digitale, che muta rapidamente le immagini oppure le ingrandisce o le allontana, inventando un tempo ulteriore, tutto suo, dove memoria e sentimento (che avrebbero fatto la felicità di un altro petrarchista, Leopardi, la cui eco si avverte neppure troppo sotterraneamente di testo in testo) congiurano insieme nell’invenzione di una prospettiva. La prima sequenza, la più prossima alla cronologia, ci introduce in una stanza d’ospedale, nel letto della madre morente. Avvertiamo tutti i sintomi della fine imminente, declinata perfino attraverso i nomi delle medicine, ma quando questa infine giunge, l’autrice rinuncia a raccontarla e ne fa invece una splendida, disarmante metonimia. Si legga Siberia: «Poco prima a casa sentivo / un gelo una Siberia / mi ero fatta un tè. Bollente / mi si era rovesciato sul ventre, / sulla mano, sullo squillo del telefono /già in giro per l’aria». La morte giunge come notizia attraverso uno dei suoi connotati, il gelo, in aperto contrasto con il calore della bevanda; ed è sintomatica anche la quasi rima bollente:ventre, che a quella notizia oppone, per un istante, il luogo della nascita.
Questa prima sezione, la più prossima alla madre-in-vita, occupa una porzione minima del libro, il cui resto, in una forma volutamente asimmetrica, è invece occupato dal ricordo, ampliato anche alla seconda figura materna, la «madre l’altra», e a una serie di presenze/assenze di ambito sempre famigliare o amicale. A questo passato prossimo ospedaliero segue dunque un secondo tempo, quello del passato che ritorna nel dopo-morte (e infatti la figura materna vi si aggira come un «fantasma». Il terzo tempo è quello che potremmo definire di un ipotetico dell’irrealtà, e coinvolge la madre biologica.  Il quarto tempo è quello della consapevolezza della propria finitudine, una sorta di futuro prossimo; infine il quinto è un passato corale, dove la visuale, finora contenuta tra i due fuochi materni, si amplia verso altre figure importanti nella vita dell’autrice. Eppure, tra tutti, l’unico vero tempo, l’unico che sembra avvicinarsi alla sostanza del presente, è quello del «basta», quello che finalmente sigla la rinuncia alla condizione dell’orfana, affidandosi ai sobbalzi di ciò che verrà.

Vivian Lamarque, Madre d’inverno, Mondadori 2016, e. 19.00


Basta orfanità

                             a me stessa
Basta basta noi, già vecchi
con le nostre vecchie storie
di orfanità!
Siamoci noi a noi stessi padri
di tutte le mancate età, così
come fanno i fili d’erba
spuntati da fili già falciati
e con questo?

Oggi padre non ti assillerei più con i miei “perché”…
Perché non torni dunque?
(Alberto Savinio)

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