La vita come apparenza, le
percezioni deviate da una sorta di schermo tra il soggetto che pretende di
vivere e di esperire la sua realtà. Non è un tema nuovo, né originale,
ampiamente esplorato dal nostro Novecento migliore (Montale docet), ma ancora
fertile, se Marco Vitale ne fa uno dei nuclei del nuovo libro, Diversorium, apparso a dieci anni da Canone semplice. Vorrei partire da qui,
dalle evanescenze di cui Vitale è maestro, dai suoi effetti umbratili, dalle
luci fittizie e ingannevoli che spesso accompagnano i suoi versi, per tentare
di circoscrivere un microcosmo affettivo profondamente turbato dalle perdite,
dall’oscillazione tra appartenenza e distacco: una vita sentimentale
continuamente in bilico, i cui equilibri, tutt’altro che fragili però, dimostrano
una capacità di resistenza e di saldezza, al di là della parete dell’effimero e
delle sue seduzioni. Keats, che di precarietà affettive se ne intendeva, la
chiamava «capacità negativa». Ma questo poeta non si limita a decifrare i
segnali del transeunte e a registrarne la finitudine; la sua poesia ci aiuta a
comprendere che dietro la labilità dell’esistenza e delle relazioni che la
sostengono c’è una debolezza ancora più forte, che solo in parte coinvolge i
destini individuali, e che riguarda, più a fondo, quella comune condizione di
sospensione, di cosciente non-sapere, di indefinito arrendersi a un moto
tellurico, imprevisto e imprevedibile, la cui ineffabilità è forse la materia
più autentica di questo libro.
Vitale sceglie una precisa
prospettiva, un preciso punto di osservazione: il «diversorium», ovvero la
locanda della notte di Natale, dalla quale si resta inevitabilmente esclusi. Ma
non è lì, nella confusione, nel pieno del locale, che accade ciò che è
veramente importante, almeno per quella notte. «La vita – scrive il poeta in
nota – è quella cosa che accade mentre ci occupiamo d’altro». È proprio questa
diffrazione, paradossalmente, a smuovere un diverso approccio a quella vita;
piuttosto che rappresentare una possibile distrazione (altro felice tema
novecentesco, che Vitale sembra tratteggiare nei reportage dei suo viaggi e che
invece elude abilmente), il trovarsi altrove rispetto al fulcro degli eventi
agita ben altri fantasmi, e il mondo apparente, quel mondo che il primo Montale
poteva filtrare attraverso Schopenhauer, diventa un concretissimo amalgama di
figure, la cui densità affettiva è prova indiscussa del loro esserci, e non
solo del loro esserci state. La poesia supera la perdita? Forse sì, se abbiamo
ancora l’energia di evocare, e non tanto per magia di scrittura, quanto per
materializzare un vissuto che ancora urge, e nel suo urgere chiede
inevitabilmente di essere vero.
Vitale fa ricorso all’elegia, o
adombra i suoi versi di una certa solennità, di una vetustà a cui concorre la
sapienza retorica, un artigianato ben collaudato, eppure questa distanza anche
nel tempo della scrittura non ipoteca affatto e non limita l’energia con cui consapevolmente si rivolge al passato e
filtra il presente, per farne ancora una volta materia di un insidioso
trascorso. C’è sempre una «patina» tra il soggetto e la vita, e forse è proprio
la poesia, che di quella vita fa inesorabilmente vissuto, ad abbatterla con la
severità serena di chi sa di dover procedere «through a thousand miles of dead
grass», come recita l’epigrafe iniziale da Pound.
Marco Vitale, Diversorium, Il
Labirinto, 2016, e. 12.00.
A volte una poesia è soltanto un
piccolo
commento su una foto
un soffio fatto di niente come
dire
guarda, come sorridevate
qui quando la luce
dorava un giorno senza fine,
guarda
come eravate giovani, che buffi
gli abiti di allora. Dove siete?
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