Edgardo Dobry è una delle voci
più significative della poesia in lingua spagnola. Argentino di nascita, a
vent’anni si stabilisce a Barcellona e lì è rimasto a insegnare. Con la sua
madrepatria condivide un carattere particolare, che è quello di volgersi alle
grandi tradizioni letterarie europee, sulla scia di autori come le sorelle
Ocampo, Bioy Casares, Wilcock, e naturalmente Borges, solo per citarne alcuni.
Lo sguardo di quella regione del mondo si fissa in modo naturale alla cultura
del vecchio continente, e la vita stessa di Dobry è lì a testimoniarlo.
Il suo interesse per la
letteratura italiana, ad esempio, lo ha portato a tradurre autori del calibro
di Sandro Penna e Giorgio Caproni; un’attenzione speciale Dobry ha riservato
anche alla migliore saggistica nella nostra lingua, da Agamben a Calasso. E la
nostra lingua non ha mancato di ricambiarlo: nel 2013 è apparso il volume Cose, e ora la traduzione integrale del
suo quinto libro, Contrattempo, per
la cura di Francesco Tarquini, che firma anche l’introduzione. A pubblicarlo è
la collana «i fili» delle Edizioni Fili d’Aquilone, legate all’omonima rivista
online, attiva già da diversi anni soprattutto nella promozione della poesia
sudamericana.
Contrattempo è il risultato di un progetto mancato, come spesso
accade quando un’opera è pensata prima ancora di essere scritta. Le vie e i
processi della scrittura, con buona pace delle neuroscienze, restano
ineffabili. Ogni volta che proviamo ad agire programmaticamente, l’idea è
destinata a essere sconfessata, in tutto o in parte. Ciò non la sottrae
comunque alle dovute attenzioni, e il libro si è avvalso, nel suo farsi, di una
prestigiosa borsa della Fondazione Guggenheim (c’è solo da augurarsi che
iniziative simili, prima o poi, possano prendere piede anche in Italia), ma,
come avverte lo stesso curatore, «in corso di scrittura Contratiempo ha preso a slittare fuori della cornice». Che era,
sostanzialmente, quella di un racconto fondato su una sostituzione di persona.
Un illustre poeta è invitato a tenere una conferenza, ma a causa del traffico
non raggiunge il luogo dove avrebbe dovuto svolgersi l’evento. Così
l’organizzatore si sostituisce a lui, improvvisando. Di questo canovaccio
iniziale, avverte Tarquini, nulla resta nella soluzione finale del libro.
Neppure la necessaria temporalità, il rispetto del susseguirsi cronologico
degli accadimenti e delle attese. La struttura di Contrattempo, allora, torna a farsi profondamente argentina. Il
tempo si confonde e ritorna su se stesso, al di fuori di ogni ordinaria
cronologia, come in un racconto borgesiano. E alla fine l’ambizione poematica,
che pone Dobry in linea con gli
esiti della migliore poesia internazionale, da Walcott a Grünbein,
almeno in questa circostanza, è come recuperata in un cortocircuito che riporta
l’autore verso le proprie origini. Dobry non ha scelto di essere il nuovo
Odisseo né di narrare l’ultima fase della vita di Cartesio; il suo moto è
sinergico, e una piccola storia che poteva avvenire in qualsiasi metropoli del
mondo è invece ribaltata, come decostruita (ma non è questo che fa la poesia di
fronte a ogni ipotesi di realtà?) e infine restituita come nella conduzione di
una grande metafora, coi necessari disordini delle sue immagini. E allora l’ipotesi
che Contrattempo sia un’ allegoria
diventa più che un sospetto. Un’allegoria non semplice, che Tarquini ha reso
con efficacia.
Edgardo Dobry, Contrattempo,
a cura di Francesco Tarquini, Edizioni Fili d’Aquilone 2015, e. 15.00
andromaca
assomiglia a un cigno sporco
e dà il nome di Simoenta
a un ruscello, modesto surrogato
del fiume asiatico dove
fantasticò
la propria infanzia. Com’è triste
quella lente serpe d’acqua!
Lontano da quel rivo
la natura è sminuita,
non è altro che l’ombra
- non altro che l’ombra – di
quella che trascorse.
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