domenica 10 aprile 2016

I poeti-voragine e i poeti-appiglio

A cosa può corrispondere, in poesia, un romanzo di formazione? Alle peripezie, all’educazione sentimentale di un adolescente, alle sue prove di vita, cosa può sostituire un poeta maturo se non il carosello delle proprie letture, degli incontri che lo hanno plasmato, e forse aiutato a misurarsi con se stesso nel tempo?
Ho tra le mani una plaquette di Nicola Romano, poeta di Palermo, intitolata Voragini ed appigli, apparsa recentemente per le edizioni Pungitopo. Ci sono, dunque, quegli abissi di senso nei quali a volte la poesia ci invita a precipitare, ma ci sono anche gli «appigli», ovvero le presenze che compongono una privatissima costellazione di versi, con i quali tornare a confrontarsi. La struttura del volumetto è questa: una citazione di due versi, e a seguire una poesia che si rapporta con questi ora in forma di commento, ora di imitazione, oppure di completa riscrittura. La dinamica intertestuale è fitta e variata, a volte la citazione è poco più, o poco meno, di un pretesto. Altre volte si fatica a ricomporre il rapporto tra poesia ed esergo, talmente è forte l’intervento dell’autore rispetto alla sua fonte; ma questo è un inganno ottico, una precisa anamorfosi rispetto a quello che sembra l’intento profondo del libro, che è tutto nel titolo. Ci sono poeti che spingono sull’orlo di quell’abisso, sembra suggerire Romano, e allora guardate che ne può venir fuori. E ci sono i poeti da “appiglio”, quelli la cui funzione – ammesso che la poesia ne abbia una - è quella di accompagnare, evidenziare, finanche siglare certe esperienze. Non importa in quale istante della nostra vita ci siamo imbattuti in loro: la capacità di aprire «voragini» o di offrire «appigli» sembra mantenersi intatta, la loro azione è costante. Un poeta non smette mai di formarsi: il suo, suggerisce Romano, è davvero un apprendistato a vita.

Toti Scialoja

Non sorprende, allora, che nel pieno della maturità abbia convocato i suoi “stati generali”, e li abbia come sottoposti a un’amorosa e intensa verifica. Bisognerà riconoscere che tutti sembrano aver tenuto, sia i poeti-voragine che i poeti-appiglio (evito intenzionalmente gli elenchi e lascio piuttosto al gusto e alla sensibilità del lettore il compito di ricomporre le due squadre). È un atto d’amore, ma anche, credo, di severità con se stessi, pure se in qualche caso recepiamo una deriva ludica (si veda, ad esempio, il testo reinventato “alla maniera di” Toti Scialoja); un po’ come in una fotografia di gruppo, dove Romano, fuori campo, regge l’obiettivo cogliendo dietro i sorrisi di circostanza personalità e umori. E come in ogni foto di gruppo, c’è sempre chi gioca: ma quella fotografia, nel suo insieme, altro non è che il mosaico attraverso cui l’autore si autorappresenta, per interposta persona.

Alfonso Gatto


Meditando sulla parola poetica, e sulla sua consistenza negli anni del post-Novecento, Romano mette sulla scena del suo personale teatro una ricca serie di attori. Ci sono figure conterranee, come Goliarda Sapienza, Basilio Reale, Lucio Piccolo, e altre che sono ormai ben assestate nel pantheon della lirica moderna. Qualche figura più appartata o meno nota (Giacomo Giardina, Angelina Lanza) viene a completare questo folto gruppo dove finalmente tornano visibili molti poeti del Sud, ingiustamente trascurati, come Gatto, Bodini, Carrieri. 

Vittorio Bodini

Ma chi avvertisse soprattutto un’atmosfera da «luna dei Borboni» coglierebbe solo in parte la misura di questo libretto, che si conclude, non a caso, con 40 haiku che poco o nulla condividono della struttura originaria di questa forma. Il paesaggio, in Voragini ed appigli, è una presenza in secondo piano. È piuttosto il variare della luce e del clima, nel passare delle ore e delle stagioni, a scandire gli spazi di queste poesie. E anche nella sezione conclusiva al paesaggio si sostituisce il pensiero: sono aforismi in forma di haiku, dense e dolorose riflessioni sul presente. Caduta la maschera, il poeta-fotografo si pone finalmente davanti all’obiettivo nei panni di un uomo che di quel Novecento sì è ampiamente nutrito, traendone una capacità di visione critica che di libro in libro non lo abbandona.

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