«In cerca di tracce / in luoghi sparsi e minimi»: così Maurizio Cucchi, nel nuovo libro La scatola onirica, riprende con coerenza il suo tracciato, ricostruendo nella memoria quell’altrettanto minima «geografia domestica» che dagli spazi della sua infanzia e della sua storia tracimano significati condivisibili. Siamo abituati da sempre, nei suoi versi, a imbatterci in personaggi che di quella ricerca inesausta ipostatizzano tappe e fasi, momenti di speciale condensazione in cui l’immagine umana e quella del paesaggio si rivelano in una sola portanza, in una straordinaria efficacia; a questi due livelli di rappresentazione Cucchi ha più volte aggiunto quello del sogno, che in quest’ultima opera trova una dimensione espressiva più ampia, potendo essere quelle tracce anche «sparse o immaginarie».
Sembra non esserci soluzione di continuità alcuna, in questo libro così variegato e insieme compatto, tra le proiezioni della «macchina onirica», che ci rende, sulla soglia del risveglio, incauti spettatori di noi stessi, e quelle di un’altra dinamica che volentieri accoglie anche rifrazioni del sogno, come l’arte. Un’intera, distesa sezione di questo libro, dedicata a Flavio Caroli, è infatti occupata da ventidue opere di altrettanti artisti, tra Novecento e ipercontemporaneo, che hanno occupato in maniera preponderante la scena delle arti visive, da Jean Fautrier a Julian Schnabel, passando, tra gli altri, per Fontana, Melotti, Bacon, Pollock. Ma, come spesso accade nelle sapienti tessiture testuali di Cucchi, questa densa sezione è anticipata da tre dediche ad altrettanti pittori, come Vincenzo Balena, Toti Scialoja, Giuseppe Salvatori. Si tratta di rapporti, di predilezioni, di scelte di gusto; davvero non saprei tracciare un filo rosso tra tutti questi autori, così diversi tra loro. Eppure, non senza una certa evidenza, tutti insieme vengono a comporre un mosaico di materia dove il sogno riveste una parte non secondaria, spingendosi proprio nei territori di una memoria immaginaria, alla quale Cucchi può infine attingere per rimodulare, nella pastosità della parola poetica, le trame di un linguaggio visuale. La sezione conclusiva, infatti, si intitola «Mente cielo materia» (Materia verticale è già il titolo dei versi per Balena) ed è qui che il poeta riesce nella sintesi di più spinte espressive, agite dal potente binomio di memoria e figurazione; gli stessi titoli di queste poesie estreme potrebbero essere titoli di altrettanti quadri. In questo affascinante cortocircuito di codici si dà corpo - e nello stesso tempo si aggira - al rischio dell’afasia, qui tematicamente rappresentato dal personaggio di Sabatino, emblema di una verve etimologica spinta fino alla desemantizzazione. Nelle immagini dell’arte, e nelle proprie arricchitesi di quelle, Cucchi rinviene una felice sintonia, una antica, ritrovata dicibilità a fronte delle contraddittorietà, delle dissociazioni del presente (rispecchiate nel suo passato) che vorrebbero confinare la parola nei limiti del frammento - ciò che di fatto accade ad altri poeti della sua generazione e non solo - approdando a una dimensione dove etica ed estetica possono infine tornare a dialogare.
Maurizio Cucchi, La scatola onirica, Mondadori, e. 17,00.
Intanto la formidabile macchina assurda
mette in scena, appunto, figure e persone, intrecci
illeggibili all’occhio silente dell’ospite,
che ogni dettaglio accoglie e dimentica,
ma non qualche misero sprazzo di cui,
in pochi minuti di minimo risveglio, vorrebbe
riconoscere origini e senso, prima di accucciarsi,
di abbandonarsi ancora fedele e passivo
al suo destino di spettatore di se stesso.
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