Anche Mark Strand, con Quasi invisibile, è approdato al
poemetto in prosa. Sorprende e non sorprende, in un autore come lui; un
americano con una densità metaforica europea, ma sempre con quel sostrato di
narratività che caratterizza da sempre le migliori officine poetiche al di là
dell’Atlantico. Ho letto e riletto questo ricco libretto, sinceramente ammirato
per l’inventiva e le bellissime immagini che lo attraversano, ma non ho ancora
compreso se la scelta sia formale, di genere, o entrambi; se, in definitiva, la
prosa abbia naturalmente sostituito il verso, oppure se siamo di fronte a una
vera e propria svolta, a qualcosa di programmatico, a temi che richiedono di
essere espressi solo in questo modo. Dietro la varietà delle immagini, infatti,
si legge la filigrana dell’opera: questo è un libro che si sviluppa intorno a
nuclei tematici – o filosofici, ma resi sempre attraverso immagini: ciò che fa
la differenza tra un pensatore e un poeta, per l’appunto - ben leggibili. Tutto
quello che si racconta in queste micro-sequenze è un paradosso, o è agito,
portato da una realtà paradossale che si affaccia, insieme al soggetto che la
osserva, sul baratro del nulla. Ma non avverto in queste pagine una tensione
nichilistica; si ha invece la netta sensazione che quel nulla sia come
corteggiato, e che infine risulti abitato come la verità che gli si oppone. Che sia, insomma, come il punto dove un
arcobaleno sembra toccare terra.
Ci sono due modi per appropriarsi
della prosa, in poesia. Baudelaire, che ne è stato il padre, arriva al poemetto
in prosa per una sorta di deflagrazione del verso. Ai tableaux dei Fiori del male
sovrappone una cornice, che è anche e soprattutto percettiva, più ampia, e
nasce Lo Spleen di Parigi. Ad Arsène
Houssaye scrive che la prosa gli è divenuta una vera e propria ossessione, un miracolo,
una plastica «duttile e nervosa» che meglio accoglie le pulsioni di anima,
sogno e coscienza, e il movimento autentico delle grandi realtà metropolitane.
È, per lui, la forma della modernità, quando lo sguardo esplode, e gli altri
sensi con esso, e infine esplode anche il verso. Ma può accadere anche un
collasso della forma. In Strand il verso sembra per l’appunto imploso: il poeta
emana tenebra e trova la notte (La
malinconia sepolta del poeta); fantasmi della memoria e memorie fantasmatiche
si scambiano i ruoli in un abilissimo gioco delle parti; il cuore, vuoto,
continua a vuotarsi del vuoto, e in questo modo lo inventa: il soggetto se ne
sta «seduto al buio, a fantasticare, e il vuoto si accresce». Un vuoto
materico, dunque, un’ossessione tangibile: sono le stesse pagine, che proprio
perché vuote si lasciano fissare per ore.
Tutto il linguaggio è proteso
alla creazione del paradosso. È lo stile dell’incertezza e del dubbio, sorretto
da molti «forse», da «si dice», da ammissioni di non sapere, di non conoscere
cause, ed è ancora la lingua a determinare ruoli e identità (si rilegga il
testo d’avvio, dove un banchiere, che potrebbe anche essere un pastore, entra
nel bordello delle cieche, ma l’interlocutrice potrebbe essere una vedova
annoiata e ben vedente): nel discorso tra due anziani sposi «per ogni cosa che
dice c’è dell’altro che non dice», dietro a ogni parola ce n’è immancabilmente
un’altra, anzi, forse ve ne sono centinaia, e sta al lettore trovarle,
pensarle. Ma il pensiero stesso, in queste pagine, è messo a durissima prova: è
solo «neve silenziosa» che non attecchisce, sì che ogni istante viene
ingigantito al punto da sembrare vero. Un certo sofismo eleatico aleggia su
questi poemetti, ma senza alcuna pretesa sistemica: lo sguardo resta sempre
quello del poeta, che raccoglie intorno a sé le immagini più strane e
inusitate, con un ritmo quasi kafkiano, per farci cogliere quanto il presente
sia sempre così distante da noi. Ottima prova di traduzione, come di consueto,
di Damiano Abeni.
Mark Strand, Quasi invisibile,
Mondadori 2014, e. 16.
Nessun commento:
Posta un commento