Non
so se Raffaele Niro, nel congedare la sua raccolta più recente, intitolata L’attesa del padre, avesse presente un
aneddoto ungarettiano, che mi sembra di ritrovare in filigrana ad apertura di
libro. Ogni inizio d’anno, ovunque si trovasse, l’autore dell’Allegria e del Dolore prendeva carta e penna e si costringeva alla scrittura. Si
trattava di una specie di rito magico, di un esorcismo nei confronti
dell’aridità creativa: il primo giorno dell’anno diveniva una sintesi simbolica
dell’anno intero, così che trascorrerlo senza aver scritto una poesia avrebbe
significato un raccolto in versi davvero magro. In questa sua «attesa», che
leggo in senso soggettivo più che oggettivo per il carico di affetto che
trasuda (è il padre che attende sia le nascite imminenti sia i loro sviluppi in
termini emotivi e di crescita), Niro, nel dedicare alla sua figlia minore la
suite d’ingresso, scrive: «la solitudine a gennaio / aiuta a togliere l’erba
cattiva / dal campo dell’immaginazione / per favorire la messa a dimora del
futuro». È un’allegoria della vita morale, ma anche della poesia. Al volgere
dell’anno – tempo inevitabile di bilanci, anche esistenziali - si rende
necessario disinfestare il campo, liberare l’immaginazione dalle zavorre del
vissuto, quando questo non sa farsi materia di poesia. Si deve entrare in un
tempo interiore, agostiniano: il tempo della riflessione, dell’introspezione.
La solitudine è la condizione che lo consente, all’epoca di Agostino come nella
nostra, anche se gli spazi sono resi più difficili. È anche il tempo di
riconoscersi e di misurarsi in una nuova identità: quella paterna, appunto.
Allora
non sorprende che le epigrafi che fanno da viatico a questa raccolta
appartengano proprio a Ungaretti e a Octavio Paz, ovvero a due poeti girovaghi
per antonomasia, per quanto diversi tra loro. Con un sostanziale distinguo,
però: la geografia di Raffaele Niro è una dimensione tutta interna, affettiva. Quanto
si narra nei suoi versi risponde a una condizione sentimentale. Mentre quei due
maestri inseguono l’uno i deserti della modernità e l’altro la sua urbanità
cangiante, Niro sceglie la strada di un possibile spostamento di valori, e si
arrocca nell’altalena incessante di astratto e concreto, aprendo di fatto un
varco («una porta», scrive Paz) al pensiero, nel pensiero dell’attesa. Del
resto, è uno dei modi possibili di declinare il proprio girovagare: «tra le
dita si è incantato il tempo», «il tempo che si crede d’attesa / esce da un
ricordo col profumo di futuro», leggiamo in poesia
d’attesa. Allo spazio, questo poeta ha prontamente sostituito il tempo. Non
è una strategia certo nuova, nella storia della tradizione lirica, della nostra
in particolare: ma Niro aggiunge, di suo, questo proiettarsi nel futuro, questo
fare della memoria non solo uno straordinario vettore affettivo, come ci
insegnava Leopardi, ma soprattutto un cortocircuito per cui il passato si
lancia in avanti. È un’altra, neppure troppo sotterranea allegoria
generazionale, con tutto il carico di responsabilità che possiamo supporre:
«perché l’attesa di un figlio / non si conclude / con la sua venuta al mondo».
Raffaele Niro, L’attesa del padre,
Transeuropa 2016, e. 11,90.
le mani del figlio
le
mani di mio figlio
aprono
l’asola del mattino
con
la disinvoltura della luce
è
lui che cuce l’alba
trasformando
materia scialba
in
un pezzo di universo
che
inizia qualcosa di possibile
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