venerdì 4 novembre 2016

AILANTO n. 36 - Su Narlan Matos





Il nome di Narlan Matos circolava già da tempo, in Italia, grazie all’opera di una rivista come «Fili d’Aquilone», particolarmente attenta alla poesia latino-americana: si sapeva delle sue raccolte e dei riconoscimenti ricevuti, che lo attestano tra le voci più promettenti del panorama internazionale. Mancava ancora, qui da noi, la traduzione organica di uno dei suoi libri, o l’allestimento di un’antologia che fornisse un’immagine esauriente di questo autore ancora giovane (classe 1975).
A questa mancanza rimedia oggi, ancora una volta, «Fili d’Aquilone», nella veste di casa editrice. Nella collana «I fili» possiamo finalmente leggere una scelta consistente dalle tre principali raccolte finora pubblicate da Matos, nella bella e partecipe traduzione di Giorgio Mobili, che firma anche la curatela dell’edizione. Ci imbattiamo così in un’ampia scelta da Senhoras e senhores. o amanhecer!, il libro d’esordio del 1996, e ancora da No acampamento  das sombras, con cui Matos ha ottenuto nel 2000 il Premio Xerox de Literatura Brasileira; infine dall’ultima raccolta, apparsa a una certa distanza dalle prime due, Elegia ao Novo Mundo (2012). Completano questo volume italiano alcuni inediti, dai quali è tratto il titolo complessivo: La provincia oscura.
Riprendendo alcune indicazioni del curatore, vorrei evidenziare l’apparente circolarità che percorre l’intera scrittura in versi di Matos. Mobili sottolinea giustamente la cesura tra le prime due raccolte, apparse a breve distanza tra loro, e segnate, ancora novecentescamente, dallo iato tra soggetto e mondo empirico, e la terza raccolta, che rappresenterebbe, agli occhi del traduttore, un ampliamento dello sguardo, un dilatamento della percezione verso la dimensione collettiva, o addirittura storica. È una lettura senz’altro condivisibile, così come è evidente, in questa anticipazione di inediti, il disincantato ripiegarsi del soggetto entro i limiti di una «provincia», per di più «oscura»: Eppure, proprio in questa sezione - che contribuisce a disegnare, per Mobili, una poesia «stereometrica» nel disegno dello spazio e, in qualche modo, nel suo tornare al punto d’avvio, pur carica e ricca delle esperienze attraversate e dei doni ricevuti -; proprio qui il Novecento dei maestri, a cui Matos guarda da sempre con sapiente e reverente attenzione, sembra infine sgretolarsi. Chiunque si attendesse un cupo isolamento, un solipsismo coatto, resterebbe deluso. Basterebbero i versi conclusivi a sconfessarlo: «fu là che imparai – soprattutto a non lasciarmi mai sfuggire / dalle mani l’irrefutabile uccello verde della speranza». Non è frequente, in poesia, quell’aggettivo, che nell’originale suona altrettanto straniante: «insofismável». Il lettore avvezzo alle negazioni e ai dubbi del secolo scorso non può che restarne sorpreso: Matos se ne serve per allestire una figura complessa, una metafora il cui primo termine fa da base a un’ipallage. Il senso profondo è così scolpito e lascia davvero un’apertura inedita, direi ontologica ancor prima che fenomenica: per il soggetto in sé, e per le nuove esperienze che ancora lo attendono. Ogni poesia di Matos è come un punto di fuga.
Dunque è vero, come scrive Mobili, che il poeta Ulisse fa ritorno a Itaca. Ma temo – o meglio, resto compiaciuto – che si tratti non tanto dell’isola omerica, quanto di quella agognata da Kavafis: ovvero un luogo che non si configura mai come meta certa, ma come autentico motore del viaggio che tutti siamo chiamati a compiere. È questa l’autentica stereometria. Di questo viaggio Matos, di libro in libro, sta scrivendo per noi la geografia esistenziale.

Narlan Matos, La provincia oscura, a cura di Giorgio Mobili, Edizioni Fili d’Aquilone, 2016, e. 15.00

Calendario
bisogna dimenticare marzo
perché finalmente arrivi aprile
sdraiarsi all’ombra di gennaio
perché l’abisso di giugno scompaia

di chi è questa faccia dietro l’edera?
lontano il chiaro di luna riposa lieve e bianco
sopra gigli di assenzio e chimera

resta ancora l’erba di settembre
                  e azalee del pomeriggio
                  e le latitudini del silenzio

non è la morte che cerco, amica
quando giungono le tue parole nella brezza
quando mi offri la frescura della tua pelle
e la Via Lattea all’improvviso rinasce calma
nelle rose silvestri del prato
o quando apri i petali immensi
del tuo sorriso bello e bianco (un giglio?)
per la notte della mia esistenza


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