Il
nome di Narlan Matos circolava già da tempo, in Italia, grazie all’opera di una
rivista come «Fili d’Aquilone», particolarmente attenta alla poesia
latino-americana: si sapeva delle sue raccolte e dei riconoscimenti ricevuti,
che lo attestano tra le voci più promettenti del panorama internazionale.
Mancava ancora, qui da noi, la traduzione organica di uno dei suoi libri, o
l’allestimento di un’antologia che fornisse un’immagine esauriente di questo
autore ancora giovane (classe 1975).
A
questa mancanza rimedia oggi, ancora una volta, «Fili d’Aquilone», nella veste
di casa editrice. Nella collana «I fili» possiamo finalmente leggere una scelta
consistente dalle tre principali raccolte finora pubblicate da Matos, nella
bella e partecipe traduzione di Giorgio Mobili, che firma anche la curatela
dell’edizione. Ci imbattiamo così in un’ampia scelta da Senhoras e senhores. o amanhecer!, il libro d’esordio del 1996, e
ancora da No acampamento das sombras, con cui Matos ha ottenuto
nel 2000 il Premio Xerox de Literatura Brasileira; infine dall’ultima raccolta,
apparsa a una certa distanza dalle prime due, Elegia ao Novo Mundo (2012). Completano questo volume italiano
alcuni inediti, dai quali è tratto il titolo complessivo: La provincia oscura.
Riprendendo
alcune indicazioni del curatore, vorrei evidenziare l’apparente circolarità che
percorre l’intera scrittura in versi di Matos. Mobili sottolinea giustamente la
cesura tra le prime due raccolte, apparse a breve distanza tra loro, e segnate,
ancora novecentescamente, dallo iato tra soggetto e mondo empirico, e la terza
raccolta, che rappresenterebbe, agli occhi del traduttore, un ampliamento dello
sguardo, un dilatamento della percezione verso la dimensione collettiva, o
addirittura storica. È una lettura senz’altro condivisibile, così come è
evidente, in questa anticipazione di inediti, il disincantato ripiegarsi del
soggetto entro i limiti di una «provincia», per di più «oscura»: Eppure,
proprio in questa sezione - che contribuisce a disegnare, per Mobili, una poesia
«stereometrica» nel disegno dello spazio e, in qualche modo, nel suo tornare al punto d’avvio, pur
carica e ricca delle esperienze attraversate e dei doni ricevuti -; proprio qui
il Novecento dei maestri, a cui Matos guarda da sempre con sapiente e reverente
attenzione, sembra infine sgretolarsi. Chiunque si attendesse un cupo
isolamento, un solipsismo coatto, resterebbe deluso. Basterebbero i versi
conclusivi a sconfessarlo: «fu là che imparai – soprattutto a non lasciarmi mai
sfuggire / dalle mani l’irrefutabile uccello verde della speranza». Non è
frequente, in poesia, quell’aggettivo, che nell’originale suona altrettanto
straniante: «insofismável». Il lettore avvezzo alle negazioni e ai dubbi del secolo
scorso non può che restarne sorpreso: Matos se ne serve per allestire una
figura complessa, una metafora il cui primo termine fa da base a un’ipallage.
Il senso profondo è così scolpito e lascia davvero un’apertura inedita, direi
ontologica ancor prima che fenomenica: per il soggetto in sé, e per le nuove esperienze che ancora lo attendono. Ogni poesia di Matos è come un punto di
fuga.
Dunque
è vero, come scrive Mobili, che il poeta Ulisse fa ritorno a Itaca. Ma temo – o
meglio, resto compiaciuto – che si tratti non tanto dell’isola omerica, quanto
di quella agognata da Kavafis: ovvero un luogo che non si configura mai come
meta certa, ma come autentico motore del viaggio che tutti siamo chiamati a
compiere. È questa l’autentica stereometria. Di questo viaggio Matos, di libro in libro, sta scrivendo per noi la
geografia esistenziale.
Narlan Matos, La provincia oscura, a cura di Giorgio Mobili, Edizioni Fili
d’Aquilone, 2016, e. 15.00
Calendario
bisogna
dimenticare marzo
perché
finalmente arrivi aprile
sdraiarsi
all’ombra di gennaio
perché
l’abisso di giugno scompaia
di
chi è questa faccia dietro l’edera?
lontano
il chiaro di luna riposa lieve e bianco
sopra
gigli di assenzio e chimera
resta
ancora l’erba di settembre
e azalee del pomeriggio
e le latitudini del silenzio
non
è la morte che cerco, amica
quando
giungono le tue parole nella brezza
quando
mi offri la frescura della tua pelle
e la
Via Lattea all’improvviso rinasce calma
nelle
rose silvestri del prato
o
quando apri i petali immensi
del
tuo sorriso bello e bianco (un giglio?)
per
la notte della mia esistenza
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