Ho sempre più di un dubbio,
quando si discute di poesia, sulla categoria di “appartato”. Ci sono, è vero,
autori che vivono discosti, volutamente ai margini di un sistema letterario che
però appare sempre meno riconoscibile e frantumato; così come ce ne sono che
faticano quotidianamente per tenersi sotto il riflettore che si illudono di
avere conquistato. Ciò che conta è solo ciò che può restare, ovvero le poesie
stesse. Ogni poeta autentico, che non scende a compromessi con la propria
scrittura, sa bene, ad ogni apparizione, di lanciare un messaggio in bottiglia
nel vasto e imprendibile oceano della contemporaneità; per questo, forse,
preferisce naturalmente guardare al futuro, a un futuro che vorrebbe sempre più
lontano. È quanto accade anche a Simone Zafferani, classe 1972, una delle voci
più nitide e interessanti della generazione dei quarantenni. Con una breve, ma
densa e partecipe nota di Biancamaria Frabotta, che lo fa discendere
dall’umbratilità del primo Sereni, Zafferani ha appena congedato la sua ultima
raccolta, L’imprevisto mondo. È un
libretto piuttosto agile, che non raggiunge le settanta pagine, qualcosa di più
di una plaquette e qualcosa in meno di un libro; eppure il lettore si ritrova
proiettato in un percorso scandito attraverso sei sezioni, rigorosamente
ordinate, che nulla hanno a che vedere con le felici casualità di tanti piccoli
libri.
Zafferani è un lettore attento, a
sua volta, della poesia contemporanea. La studia, la conosce, la metabolizza
come autore e come critico, anche se in questa seconda veste le sue apparizioni
sono ancora più rare. Ma la sua intelligenza dello scavo gli consente di
stabilire rapporti diretti con quanto viene a contatto; la scrittura, anche
quella lirica (strada dominante nella tarda modernità, seppure difficile e non
priva di rischi, specie in tempi di rigurgiti sperimentali ed éngagement che
trasudano facili ipocrisie), si nutre costantemente di questi confronti, li
cerca come si può guardare a delle matrici stabili, a delle fondamenta su cui,
a nostra volta, costruire un edificio di poesia. L’imprevisto mondo è una conferma. In questa minima enciclopedia
del dolore e della morte, alle cui morse il poeta non sa sottrarsi, siamo
introdotti con il viatico di Wislawa Szymborska, che ci invita ad accogliere lo
straniamento all’insegna della normalità: un «mondo ovvio non esiste affatto,
il nostro stupore esiste di per se stesso». Così la vita si riappropria
dell’imprevisto e ne fa narrazione, racconto, finanche cronaca privata, ma
sempre con lo sguardo e l’attenzione rivolti al coagulo di quell’essenzialità
che trascende ogni esperienza individuale e la riammanta di possibilità di
condivisione. I giorni diventano legna da ardere, «fotogrammi» di dolore da
ammaestrare, da «mettere a posto» nell’equilibrio delle emozioni. Si svolge, in
queste poesie, una fenomenologia del vedere (Emily Dickinson presta il titolo
alla seconda sezione) che si concentra sui dettagli minimi, ma Zafferani elude
la strada del minimalismo aprendoci immediatamente il cammino verso una zona
più intima, dove ritrovare la «vorticosa bellezza» di una lingua depurata,
«bianca come un’ostia»: un grado zero sia dell’esperienza che dell’espressione,
in grado di mostrarci l’imprevisto che ci abita e in cui insieme sostiamo, in
una incessante tensione tra ciò che scorre e diviene (immagini di morte,
immagini d’acqua) e il nostro infaticabile tenerci alla vita.
Simone Zafferani, L’imprevisto
mondo, La Vita Felice, 2015, e. 12,00.
ci sono sogni che spezzano in due
la notte
lasciando l’anima in mezzo a
cucire
i lembi, col rischio di cadere
e l’onere di riportare le prove
nel mondo luminoso dei giusti.
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