Caro
Roberto,
per
cominciare ti ringrazio per la bella serata che abbiamo passato insieme con gli
amici dopo la presentazione di Solstizio,
il 10 ottobre, ma meglio sarebbe dire dopo la lettura delle poesie dal tuo
nuovo, e immagino, sospirato libro, che ci ha sorpreso un po’ tutti, anche se esce
a distanza di ben dodici anni dal tuo ultimo. Non è stato facile raggiungerti.
Un’ora e mezzo c’è voluta. Uno dei tanti strangolamenti del traffico a Roma. Sono tuoi questi
due versi: “E nell’impero del sole cadente / La capitale è di nuovo assediata”.
E poi: “Roma è stanca”. C’era la gran pressione della nuova complicata circolazione
a ridosso dei Fori imperiali e poi via dei Cerchi chiusa per un gran comizio
politico di tre giorni al Circo Massimo. Non devo essere stata l’unica ad
arrivare in ritardo e a voler venire nonostante tutto per festeggiarti. E ce
l’abbiamo fatta in molti, e in particolare Francesca (Benedetti) che leggeva alla
grande, come suo solito (e insieme a lei Verdastro), gareggiando per di più con
Beppe Grillo, che fuori urlava. La politica non ci ha sopraffatto, come
abitualmente fa. E dopo Roma, che tanto ci fa patire, si dispiegava finalmente in
tutta la sua maestà e il suo splendore immutabile, lì nella grande magnifica piazza
di S. Maria della Consolazione, in un dolce clima ancora estivo tra le ombre
silenziose della sera, in quel ristorantino sotto il più augusto dei colli, il Campidoglio,
sul lato di quello che ancora Petrarca chiamava “monte Tarpeio”, lì dove c’era
la parete rocciosa della rupe Tarpea, diventato poi Monte Caprino, luogo di pascolo
per capre. Ci andavo nei miei anni
trasteverini in quella trattoria popolare frequentata da ragazzi e operai dei
dintorni, e che vi ho temerariamente segnalato, pur di sfuggire alla morsa
grillina.
Quanto
tempo è passato, caro Roberto, da quando una mattina sei venuto alla “Sapienza”
a trovarmi, e smarrito mi chiedevi luce sulla strada della tua poesia e,
chissà, anche il modo per iniziare un’eventuale gavetta universitaria. Ti
spinsi a cercare Amelia Rosselli ed Elio Pecora, certa che avrebbe fatto loro piacere
parlare con un giovane promettente e garbato. E così il tuo cerchio si era
chiuso o aperto secondo gli opposti criteri solstiziali che sono ora così tanto
tuoi. Nel frattempo sarà passata metà della tua vita, ora che sei prossimo ai
tuoi cinquanta, nel punto alto della tua bella maturità di poeta, per di più coronata,
come mi dici, dalla promozione a professore ordinario nell’università di Enna,
chiamata, guarda il caso o il solito cerchio solstiziale, Università Kore, la Proserpina
greca a cui hai dedicato un tuo libro che vorrei tanto leggere. Certo la tua
poesia è emblema dell’inabissamento del poeta moderno nel buio, della discesa ad inferos e perfino la tua vita ne è
diventata una rappresentazione plastica, con questa tua discesa, un andare giù, sempre più in giù, prima da
Roma, “la città perduta”, a Palermo, e ora da Palermo andrai a Enna, per
costrizione e ormai credo per scelta, dunque da Roma alla Sicilia, nel profondo
Sud, in un percorso inverso a quello consueto perché il tuo è anche un percorso
da poeta. Abbiamo goduto di spiccioli preziosi di estate ritardata, ti siamo
stati intorno a parlare con te e di te, anche se a un certo punto quella
calamita che è Pier Paolo Pasolini ci ha attirato nella vertigine di una
conversazione sul suo destino di morte, sul tanto e inutile fare di molti
intorno al suo corpo che ancora recalcitra e non è ancora lasciato in pace, troppo
spesso pretesto e trampolino per avventure tutte personali. Ma si sa quanto
l’Italia bastoni i suoi figli, quanto i poeti siano poco amati, forse più a
Roma che altrove. Ne sapeva qualche cosa Amelia Rosselli, la mente un po’
sconquassata. “Questo povero tempo uccide i poeti!”, diceva teatrale Dario
Bellezza, con il suo cappotto nero e il cappellaccio andando per i vicoli di
Trastevere dove lo incontravo, a metà rondine e a metà corvo, forse soltanto
candido albatros.
Ma
veniamo dunque al tuo libro che ho tenuto a lungo con me in questi giorni, l’ho
letto un po’ ogni sera, centellinandolo per inseguire con curiosità e agio il
tuo segreto, la peculiarità dei tuoi versi che sono chiari all’apparenza ma
hanno il fondo oscuro, non per mescolanza ma per accurata stratificazione, a
capire non tanto quello che dici ma come lo dici e come lo vuoi dire, a capire
insomma il tuo atto di distinzione, la strategia che non ci fai vedere subito della
tua poesia. Una poesia solo apparentemente piana ma in realtà, se dovessi
trovare una parola per caratterizzarla, elusiva-eleusina, sia nella linearità
dei significati sia nella natura della sua stessa radice.
Solstizio si intitola il tuo libro che subito si
annuncia nel suo portato cosmologico e temporale: il cosmo nel suo movimento ciclico
perpetuo e il tempo nella sua terribile fugacità. Entro questi due poli si
consuma la circonferenza della tua poesia e uso non a caso una figura
geometrica perfetta, come quella disegnata da Giotto. E se dovessi trovare un
movimento evidente o un’idea prevalente che sovraintenda alle tue poesie,
sempre diverse a partire dalla sillaba-cellula fino alla specifica forma
metrica, mi viene in mente quello di una rastremazione abbacinata e sottilmente
vertiginosa del tuo procedere senza scatti e senza scarti apparenti,
dolorosamente e quietamente, ma anche con un sistematico, martellante
spiazzamento perpetuo dentro ogni sequenza. Ecco, la tua poesia si è assunta il
compito di rastremare le scorie del nostro tempo e del nostro vivere. Il
risultato è un’abbagliante, un’elusiva-eleusina luce gettata nel fondo del pozzo,
un “pozzo sordo” scrivi, a rischiarare movimenti e gesti, frammenti di vita e
di emozioni, allenamenti fisici sempre lenti e in dissolvenza. Come sempre sono in dissolvenza le tue
figure-controfigure, altri io-non io frequentati nella realtà o nell’immaginazione
culturale o storica, altre persone, trapezisti da circo o di memoria biblica, o
magari altri poeti. Ma sarebbe più esatto dire una “luce irreale” come tu
scrivi, e a volte lievemente surreale, gettata su un immenso scrigno
trasparente o un acquario dove le figure, tutte, te compreso, sono più che
altro sagome, che lasciano intravedere una vita al rallentatore, più soffice di
quanto non sia, quasi un sogno dove scivolano uno sull’altro orizzonti e
storni, cieli e case, traghetti e treni. Più che significati e temi prevale nelle tue poesie il tono o
il timbro, che è sempre pacato e apparentemente dimesso, lento e musicale, come
quello di chi è allenato al silenzio e alla solitudine, ha attraversato “la
terra desolata” e, cambiando luogo o mettendosi nei panni di un io diverso, prova
a trovare sollievo senza riuscirci: “Così sospesi, come in un giorno / Di
vacanza, in attesa del dolore / Che svuota la testa”.
Elusivo lo sei anche con i maestri ben
innervati nella tua poesia, che pure ci sono e sono in tanti, come naturale in
un poeta dotto quale tu sei. Dove nasce la tua poesia, mi chiedo, tu che ti sei
occupato di tanti autori e certo molto di Sandro Penna, su cui stai ancora
lavorando, a quel che ne so, ma anche di Saba e Montale. A una lettura
superficiale non sembrano esserci tracce di Penna, che pure parrebbe inevitabile,
e non mi pare che queste tracce siano state rivenute da altri, quasi tu le avessi
meticolosamente cancellate, attenendoti in questo alla consegna del perugino. E
se Penna c’è, certo è dissimulato nel tuo metodico e brillante endecasillabo
sciolto, ricco di enjambement e senza
rime, e che inizia con una inusuale maiuscola anglosassone, quasi a consegnarci
una cifra di modernità della tua poesia. Ma, a ben leggere e rileggere, c’è
anche Penna, come non riconoscerlo nel clima di dormiveglia, tra sogno e
realtà, o nei rumori lontani della città che filtrano in una stanza con le
serrande abbassate, o nell’umore lieve e dolce che impregnano come un profumo tutto
Solstizio, o infine in questi tuoi
due versi: “Sono i ciclisti ad annunciare il giorno, / Un cane abbaia verso la
statale”. E ora che ti scrivo questo me ne convinco ancora di più. In fondo Solstizio è un po’ il libro di “un
viaggiatore insonne” con i suoi fantasmi.
Ma è anche molto altro. Naturalmente altri poeti si affacciano
dissimulati dalla tua consumata abilità, molti non italiani, per lo più
inglesi, a cominciare da Auden, nel tuo riconoscerti (“Sono quello che non ha
valigie da portare”) nella sua vita raminga e solitaria: “Il circolo vizioso
della solitudine: / Eri senza bagaglio”. Il flusso della tua poesia trascina
come in un fiume frammenti mentali, lacerti liquidi di una mente piena di
dolore, o, come ci ha insegnato Wallace Stevens, di un “mondo come
meditazione”.
Spontaneamente mi è venuta la curiosità
di avere tra le mani il tuo quaderno di traduzioni, Gabbie per nuvole, con quel titolo che allude alle grate metriche di
quello che c’è di più bello e puro che è il cielo (o la poesia), quando lo
vediamo passeggiando e ci facciamo accarezzare. Le poesie come gabbie improbabili
di tutto quello che è mobile, liquido, appunto non ingabbiabile. Come dire
cancelli del cielo. Impossibile. Particolarmente belle le due ultime sezioni,
con un umanesimo dolorante ma mai negativo o disperato, che non possono non
farti sentire a me vicino.
“Ti chiedo a voce bassa di tornare”,
scrivi rivolgendoti alla Musa con garbo e senza alzare la voce o strepitare. Si
è strepitato tanto ed è già prezioso il fatto che quel dialogo con la Musa posa
ancora proseguire. È imbronciata,
d’accordo. “Stai girata di spalle e guardi altrove”, osservi, d’accordo, ma
“Qualche margine resta per parlarci”. Siete tu e la Musa “due estinti soli”, ma
ci siete nonostante le reciproche distrazioni, il sole c’è ancora nel suo ciclo
annuale e giornaliero, dal buio alla luce e viceversa. Il sole e la poesia ci
sono, ombroso il primo e solare la seconda in reciproco rovesciamento
solstiziale, e questo ci consola: “Forse non tutto è perduto, forse”.
Tanti
cari auguri, “auguroni”, come mi scriveva Amelia, un abbraccio,
Gabriella Sica
Roma, 10 novembre 2014
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