mercoledì 31 dicembre 2014

Grazia Calanna su Solstizio

Posto la recensione di Grazia Calanna, apparsa su «La Sicilia» del 29 dicembre. Prosit! e auguri



lunedì 15 dicembre 2014

AILANTO n. 12 - Su Attilio Lolini




A soli due anni da Carte da sandwich, apparso nel 2013 da Einaudi, Attilio Lolini ci sorprende con una nuova raccolta di poesie, Bestiario gotico. La sorpresa è proprio in questa rapidità: Lolini appartiene a quella schiera nobilissima di autori appartati, un po’ schivi e un po’ caustici, ironici e sornioni, che dispensano con estrema saggezza – e con parsimonia l’arte della sprezzatura. Di se stesso ha sempre dato una definizione, quella di “vice-poeta”, decisamente in linea con il suo libro precedente: Carte da sandwich si rifaceva a quella serie di titoli all’apparenza sottotono, falsamente minimalistici (ricordo le Poesie per incartare l’insalata di Michele Serra, fra i tanti possibili, ma con un distinguo fondamentale: Serra è un umorista – un moralista? – che in quell’occasione si è prestato alla poesia, Lolini è invece un poeta con una spiccata cifra comica) attraverso cui la poesia ci lancia un indiscutibile segnale di presa di coscienza critica. Parlare del presente, di questo presente, è cosa davvero ardua per chi non scelga la strada del solipsismo lirico, della cronaca sentimentale. E parlare chiaro, in una lingua che non si arrocca dietro facili orpelli retorici o giochi manieristici, ma che riesce ancora a costruire un’immagine plausibile del mondo anche e soprattutto ricorrendo a un istituto desueto come quello della rima (rima che è sempre in Lolini il modo di rendere e chiudere un pensiero, accanto all’immagine) è impresa ancora più difficile.
Lolini però vince sempre la sua scommessa e anche questo Bestiario gotico ne è la felice controprova, anche rischiando qualche effetto straniante. Dagli scenari talvolta asfittici del verso contemporaneo il lettore ha l’impressione di calarsi improvvisamente in una lingua che mima quella di certa poesia fin-de-siècle, tra Otto e Novecento. C’è un certo tono scanzonato, un po’ da poeta maudit e un po’ da osservatore irridente: un Palazzeschi senza liberty, capitombolato all’indietro, un po’ Lucini e un po’ Lautréamont, o Corbière,  non senza qualche eco da Apollinaire; o forse precipitato in avanti, tra le stravolte capriole di una comica del cinema muto. Il tutto, come sapientemente diceva Orazio, per fare secco il futuro ed esorcizzare – come in altri luoghi recenti della poesia di Lolini – anche la vecchiaia, il decadimento fisico, infine la morte. Ma dietro questa traccia personale, la realtà preme da ogni parte, incombe nel pensiero del poeta e si traveste spesso da apologo, da favoletta allegorica (allegorici sono moli di questi titoli, che sembrano talvolta esprimere un enigma, un rebus), e induce l’autore a mimare un’andatura da filastrocca, portata fin quasi sulla soglia del nonsense. E proprio qui, sul limite estremo di questa soglia che Lolini si sforza di non varcare mai, accade che l’allegoria si disveli e che dietro questo bestiario così inquietante, fatto di peli e di grassezza, il passato divenga solo una «mesta fantasia» e il presente torni a parlare in tutta la sua sconcertante tristezza, mostrando il mondo per ciò che è: «vuoto e tondo».

Attilio Lolini, Bestiario gotico, L’Obliquo 2014, e. 11,00.

Destriero

Cantano le ore
con voce afona
e stonata

cantano alla luna
arrotolata

il pianeta s’è fatto trasparente
dentro non c’era niente

se ne va il pensiero
sopra un macilento destriero

porta da qualche parte
la nostra inutile arte.

lunedì 8 dicembre 2014

Dario Bellezza, in attesa dell'Oscar

Uscirà a fine gennaio 2015, negli Oscar Poesia Mondadori, la raccolta completa delle poesie edite di Dario Bellezza, a mia cura. Il volume ci rimetterà finalmente in contatto con una delle voci più significative e controverse della poesia italiana di fine Novecento. Bellezza è rimasto assente dalle librerie per più di un decennio: il precedente Oscar, antologico, curato da Elio Pecora, risale infatti al 2002. Una nuova generazione di lettori potrà accostarsi a queste poesie; sarà interessante verificarne le reazioni, tra vecchi e nuovi tabù e cadute ormai certe paratie ideologiche.
L'Oscar che ho curato comprenderà un'appendice di testi dispersi o inediti. Sicuramente molti amici di Dario sono in possesso di manoscritti o dediche, ma questa non sarà un'edizione critica. Mi sono limitato a raccogliere gli editi, tranne i versi per il teatro, e quanto era stato già pubblicato dal poeta in annuari e almanacchi o in plaquettes meno conosciute. E qualche inedito. Ho dato conto del movimento dei testi da queste prime pubblicazioni ai libri veri e propri. Spero che tutto ciò riaccenda un'attenzione critica che negli ultimi anni è mancata intorno a questa figura.
In attesa del nuovo Oscar, pubblico una variante inedita ritrovata tra le carte dell'artista Liliana Petrovic, amica di Bellezza. Non la troverete nel volume, dove c'è invece la versione definitiva. Si tratta della poesia alle pagine 45-46 di Libro di poesia, apparso nel 1990 da Garzanti.




Visione sacrale anfetaminica con dosi intere
di paranoia abissale coltivata nell’esercizio
impuro della ragione contro la menzognera
realtà prima che mi fece, partorendomi
ad un mondo qualsiasi, ma non mio!
Io allora vago immondo nel mondo, tutto
sembrandomi osceno, bruttamente fasullo,
finzione nevrotica la mia mancando la poesia,
il valore supremo cui sottomisi la vita;
adolescenza perduta e senza immagini, pure
prendendo un treno per Ostia rimanendo mentale,
fra ragazzi erotici e morti totali adulti
pieni di merda e di rancore!

Arrivo dunque al Battistini, fra mare e cielo
sospeso, senza immagini false e seconde
nel loro fine alla cosiddetta realtà
che non esiste. Mi ribello, io, sempre
mi sono ribellato, nello ieratico me stesso
so di avere perso la diplomatica, convenzionale
poesia, ed ora trascinandomi interno
e intero al mio sistema idiota e pellegrino
cerco di svoltare all’angolo con la buccia
di banana della leggibilità manifesta!
Ho perso tutti i sentimenti, lo sregolamento
appartenne a colui che non c’è più, e
descrivere il fuori-dentro è banale,
circonvenzione di incapace, il lettore
di testi di poesia in lingua, corruzione
di minorenne rinviata ogni giorno
nella educazione sentimentale di un reietto
depositario della verità vera di un Millennio.

lunedì 1 dicembre 2014

La Premiata Compagnia delle poete



Esiste, da qualche anno, una compagnia di poete. Anzi, una Premiata Compagnia delle poete. Un ensemble di donne poeta, di diversa nazionalità, che s’incontrano su terreni comuni e allestiscono, tra parola, movimento, gestualità, musica, delle performance, dei veri e propri spettacoli.
Che può significare tutto questo, oggi, che senso può avere una simile operazione? E come si svolge, di fatto, l’attività di questa Compagnia, anche al di là dei progetti e delle intenzioni?
Vorrei tentare qualche riflessione a più ampio raggio, cercando di inscrivere questa esperienza in una prospettiva forse più pertinente di quella della sola poesia performativa. Oggi che la prassi letteraria è sempre più riconosciuta come sistema, anzi come polisistema dinamico, in continuo movimento, è evidente che le sue metamorfosi ricadano su ciascun elemento del sistema, turbandone ciò che riconosco come il suo sonno identitario.
È uno dei grandi paradossi – o delle grandi contraddizioni – a cui accade di assistere. Da un lato ci sono fenomeni centripeti, pur diversi tra loro, come la globalizzazione i flussi migratori; dall’altro, a fronte delle inevitabili trasformazioni dei modelli culturali che tali fenomeni provocano, si avverte l’arroccarsi su posizioni che hanno chiari limiti ideologici e teorici, specie se ne consideriamo la dimensione nazionale, o addirittura infra-nazionale. Da parte mia resto convinto che chi continua a discutere affannosamente di canoni e identità, in letteratura, e dall’interno delle prospettive nazionali, non solo non abbia compreso cosa significhi la libertà per un artista moderno (termine, quello della libertà, che ritrovo felicemente tra le pagine di poetica della Compagnia delle poete: pagine di poetica libera), ma che abbia anche difficoltà a comprendere la complessità del presente e la dimensione pluriculturale in cui ci troviamo. Temo, infine, che questo arroccarsi non permetta di inquadrare la portata effettiva dei problemi posti dalla letteratura odierna e che il modo di trattare tali problemi sia condizionato da visioni non più condivisibili, ormai estranee ai modelli espressivi, comunicativi, ermeneutici della modernità.
Non sussistendo più poetiche normative, com’era nell’età della tradizione, definitivamente pensionata dalle avanguardie (ed essendo Dio morto, nel frattempo), mi chiedo che valora possa avere, oggi, tornare a parlare di canone. I principali attori della discussione sono, perlopiù, presi dal problema di cosa inserire negli aggiornamenti dei loro manuali scolastici. Quanto all’identità, mi sembra che sia completamente trascurato l’aspetto dialogico-narrativo e anche mistificante della questione. L’identità non è una monade, ma un problema che si articola attraverso tre livelli: ciò che si vuole essere, ciò che si vuole mostrare, ciò che l’altro percepisce di noi. Ecco il cuore del problema: l’identità come narrazione all’altro. Senza questo interlocutore non esistono identità, ma monadi destinate a un desolato solipsismo; senza questo interlocutore, ogni rilievo in merito all’identità si rivela una triste tautologia.
Penso, in particolare, alle letterature della migrazione: non dovrebbero più esistere come categoria a sé, ma dovrebbero far parte del polisistema che chiamiamo – seppure impropriamente, considerati i fenomeni a cui ho fatto accenno – “letteratura italiana contemporanea”. Un polisistema decisamente e fecondamente arricchito dagli apporti – di lingua e di immaginario – di autori che hanno scelto l’italiano per esprimersi, pur non essendo la lingua del loro modello culturale di partenza, ma che attraverso questa scelta contribuiscono alla creazione di un nuovo e più ampio modello transculturale.
Siamo trascorsi, negli ultimi cento anni, dall’«Io è un altro» di Rimbaud a «Io è gli altri»; e questa necessaria, inevitabile pluralizzazione – che risponde anche, e non solo, ai movimenti della Storia – si è ulteriormente evoluta in un’affermazione che potrebbe essere proprio la risposta a un processo di narrazione identitaria. Raccontami chi sei: io è più altri, diversi altri.
Credo che questa possa essere la vera fotografia della letteratura attuale, nei cui margini ben si inserisce l’attività della Compagnia delle poete. Leggendo le loro dichiarazioni di poetica (ma temo che, quanto a “dichiarazione”, si tratti di un termine improprio) mi accorgo che dietro deve esserci stata la richiesta implicita di ricondurre il lavoro a tre parole chiave. Cerco di ripercorrerle. Per Mia Lecomte queste parole corrispondono a “casa”, “famiglia”, “libertà”, e preciso che è la terza a sostanziare le prime due. Helena Paraskeva identifica le tensioni della sua scrittura con il vento del Meltèmi, vento dall’azione ossimorica. Jacqueline Spaccini parla di “singolarità”, “insieme”, “gioia”; Sally Read di “lingua”, “vita”, “corpo”. E quest’ultima parola ritorna tra quelle proposte da Brenda Porster: “corpo”, “ponte”, “scoperta”. Ancora “libertà”, ancora “corpo”, e “corridoio” (possibile alternativa di “ponte”) sono nei versi di Laure Cambau. Eva Taylor specifica ulteriormente l’immagine e parla di un ponte Bailey, «quello che sembra provvisorio ma rimane». Candelaria Romero parla di “viaggio”, “compagnia”, “avventura”; Barbara Serdakowski di “senso”, Adriana Langtry di “specchio”, “sponda”, “segno”. Infine Barbara Pumhösel e Melita Richter si rifanno, rispettivamente, alle parole “equilibrio”, “filo”, “sinestesia” e a “Europa”, “paese”, “fuori orario”. Traggo queste informazioni dal libro di Francesco Armato, Premiata Compagnia delle poete, edito da Iannone.
Questo pur rapido elenco di parole-concetto è davvero un sistema. Molto compatto, aggiungereu, in cui le immagini travasano di poeta in poeta ma restano in definitiva ancorate a quel concetto mobile e plurimo di identità da cui ho preso le mosse. Raccontami che sei. Io è un ponte, un corridoio, che chiunque può percorrere  alla ricerca di segni e sensi, spinto da un inarrestabile Meltèmi, che distrugge – o vorremmo che distruggesse – i nostri pregiudizi e le nostre certezze così relative, facendo delle nostre esistenze non dei dogmi ma un bene da condividere, un tesoro da spartire, e che più spartiamo più ci fa ricchi.
Allora l’attività di una Compagnia delle poete non è solo la benvenuta, ma diviene anche necessaria, poiché si fonda sul dialogo, sull’assimilazione, sul contagio. Vorrei che fossero definitivamente trascorsi i tempi – tristissimi – in cui autori provenienti da altre culture, portatori di vitalità e fermenti, sono stati rimossi, come se non fossero mai giunti qui. Penso fra tutti a Juan Rodolfo Wilcock, argentino, che dagli anni Cinquanta alla morte, nel 1978, è vissuto in Italia, ha partecipato al dibattito letterario, ha scritto in più generi libri dominati da un’ironia sapiente. Difficilmente lo troverete nei manuali di letteratura, se non in qualche nota marginale, magari come traduttore di Marlowe e di Joyce.

Questo modo di storicizzare non è più tollerabile, perché, semplicemente, non è vero, non rispecchia la vivacità di quanto accade. Grazie, allora, alla Compagnia delle poete, per il lavoro di ricucitura culturale che vanno compiendo: un segnale fondamentale, che ci viene dalle donne.

venerdì 21 novembre 2014

Aldo Gerbino su Solstizio

Posto una bella recensione di Aldo Gerbino, apparsa oggi, 21 novembre sulla «Gazzetta del Sud».



domenica 16 novembre 2014

Anna Cascella Luciani, I tre tempi (2014)




© Rino Bianchi, 2010




I

per me morire ancora -
prima della morte -
non avrei mai -
immaginato per me -
una tale sorte - una tale
vecchiaia abbandonata -
che io fossi malata
a me era chiaro  -
ma lasciando la mia
via a Roma - no
non pensavo di averne
solo disagio - solo
sofferenza - si stringe
addosso il cappio
della mercanzia del noto
orrore - dolore
deriva - spargimento -
(nel film di Magni, Emilia
sposa di Scipione - 
in dialetto purissimo
la si sente dire "salvamo armeno
li nomi de li superstiti" -
e se ne va in campagna
- a Literno - "porto
la pupa" - da adulta 
ricordata madre
dei Gracchi - tribuni
della plebe - assassinati)

II

la testa di uno
decollato ho sognato
dentro uno scatolone -
un trasloco traslato -
una sovraimpressione -

era la testa di Cristo
non di San Giovanni
e della testa di Cristo
tagliata non s'è sentito
mai - pure era Cristo
- uno dei tanti -
un uomo una donna
numerose infanzie 
e le vecchiaie - nei campi
- profughi dalla Siria
ultimamente - e rifugiati
in Giordania e altrove
sparsi - e i bruciati vivi
presi a calci a pugni 
fratturati - gettati
dentro un forno -
una fornace - (in un blog
l'altro giorno - sul Web
un uomo pareva dire
"può ancora quanto 
ha scritto Franco Fortini
servire a capire
come capire questi
orribili tempi - o come
agire?")


III
Non so - non saprei dire
ma ricordo dei suoi versi
alcuni inviti "O dèi 
inesistenti, proteggete
l'idillio, vi prego" -
e l'infera - costante
slabbratura - l'immedicabile
faglia tra la gioia
che anch'egli avrebbe
voluto intera e la pena 
continuamente chiara
"e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo" -





per Franco Fortini, a novembre, nel 2014

venerdì 14 novembre 2014

Una lettera di Gabriella Sica a Roberto Deidier (a proposito di Solstizio)






Caro Roberto,
per cominciare ti ringrazio per la bella serata che abbiamo passato insieme con gli amici dopo la presentazione di Solstizio, il 10 ottobre, ma meglio sarebbe dire dopo la lettura delle poesie dal tuo nuovo, e immagino, sospirato libro, che ci ha sorpreso un po’ tutti, anche se esce a distanza di ben dodici anni dal tuo ultimo. Non è stato facile raggiungerti. Un’ora e mezzo c’è voluta. Uno dei tanti strangolamenti  del traffico a Roma. Sono tuoi questi due versi: “E nell’impero del sole cadente / La capitale è di nuovo assediata”. E poi: “Roma è stanca”. C’era la gran pressione della nuova complicata circolazione a ridosso dei Fori imperiali e poi via dei Cerchi chiusa per un gran comizio politico di tre giorni al Circo Massimo. Non devo essere stata l’unica ad arrivare in ritardo e a voler venire nonostante tutto per festeggiarti. E ce l’abbiamo fatta in molti, e in particolare Francesca (Benedetti) che leggeva alla grande, come suo solito (e insieme a lei Verdastro), gareggiando per di più con Beppe Grillo, che fuori urlava. La politica non ci ha sopraffatto, come abitualmente fa. E dopo Roma, che tanto ci fa patire, si dispiegava finalmente in tutta la sua maestà e il suo splendore immutabile, lì nella grande magnifica piazza di S. Maria della Consolazione, in un dolce clima ancora estivo tra le ombre silenziose della sera, in quel ristorantino sotto il più augusto dei colli, il Campidoglio, sul lato di quello che ancora Petrarca chiamava “monte Tarpeio”, lì dove c’era la parete rocciosa della rupe Tarpea, diventato poi Monte Caprino, luogo di pascolo per capre. Ci andavo nei miei anni trasteverini in quella trattoria popolare frequentata da ragazzi e operai dei dintorni, e che vi ho temerariamente segnalato, pur di sfuggire alla morsa grillina.
Quanto tempo è passato, caro Roberto, da quando una mattina sei venuto alla “Sapienza” a trovarmi, e smarrito mi chiedevi luce sulla strada della tua poesia e, chissà, anche il modo per iniziare un’eventuale gavetta universitaria. Ti spinsi a cercare Amelia Rosselli ed Elio Pecora, certa che avrebbe fatto loro piacere parlare con un giovane promettente e garbato. E così il tuo cerchio si era chiuso o aperto secondo gli opposti criteri solstiziali che sono ora così tanto tuoi. Nel frattempo sarà passata metà della tua vita, ora che sei prossimo ai tuoi cinquanta, nel punto alto della tua bella maturità di poeta, per di più coronata, come mi dici, dalla promozione a professore ordinario nell’università di Enna, chiamata, guarda il caso o il solito cerchio solstiziale, Università Kore, la Proserpina greca a cui hai dedicato un tuo libro che vorrei tanto leggere. Certo la tua poesia è emblema dell’inabissamento del poeta moderno nel buio, della discesa ad inferos e perfino la tua vita ne è diventata una rappresentazione plastica, con questa tua discesa, un andare giù, sempre più in giù, prima da Roma, “la città perduta”, a Palermo, e ora da Palermo andrai a Enna, per costrizione e ormai credo per scelta, dunque da Roma alla Sicilia, nel profondo Sud, in un percorso inverso a quello consueto perché il tuo è anche un percorso da poeta. Abbiamo goduto di spiccioli preziosi di estate ritardata, ti siamo stati intorno a parlare con te e di te, anche se a un certo punto quella calamita che è Pier Paolo Pasolini ci ha attirato nella vertigine di una conversazione sul suo destino di morte, sul tanto e inutile fare di molti intorno al suo corpo che ancora recalcitra e non è ancora lasciato in pace, troppo spesso pretesto e trampolino per avventure tutte personali. Ma si sa quanto l’Italia bastoni i suoi figli, quanto i poeti siano poco amati, forse più a Roma che altrove. Ne sapeva qualche cosa Amelia Rosselli, la mente un po’ sconquassata. “Questo povero tempo uccide i poeti!”, diceva teatrale Dario Bellezza, con il suo cappotto nero e il cappellaccio andando per i vicoli di Trastevere dove lo incontravo, a metà rondine e a metà corvo, forse soltanto candido albatros.
Ma veniamo dunque al tuo libro che ho tenuto a lungo con me in questi giorni, l’ho letto un po’ ogni sera, centellinandolo per inseguire con curiosità e agio il tuo segreto, la peculiarità dei tuoi versi che sono chiari all’apparenza ma hanno il fondo oscuro, non per mescolanza ma per accurata stratificazione, a capire non tanto quello che dici ma come lo dici e come lo vuoi dire, a capire insomma il tuo atto di distinzione, la strategia che non ci fai vedere subito della tua poesia. Una poesia solo apparentemente piana ma in realtà, se dovessi trovare una parola per caratterizzarla, elusiva-eleusina, sia nella linearità dei significati sia nella natura della sua stessa radice.
Solstizio si intitola il tuo libro che subito si annuncia nel suo portato cosmologico e temporale: il cosmo nel suo movimento ciclico perpetuo e il tempo nella sua terribile fugacità. Entro questi due poli si consuma la circonferenza della tua poesia e uso non a caso una figura geometrica perfetta, come quella disegnata da Giotto. E se dovessi trovare un movimento evidente o un’idea prevalente che sovraintenda alle tue poesie, sempre diverse a partire dalla sillaba-cellula fino alla specifica forma metrica, mi viene in mente quello di una rastremazione abbacinata e sottilmente vertiginosa del tuo procedere senza scatti e senza scarti apparenti, dolorosamente e quietamente, ma anche con un sistematico, martellante spiazzamento perpetuo dentro ogni sequenza. Ecco, la tua poesia si è assunta il compito di rastremare le scorie del nostro tempo e del nostro vivere. Il risultato è un’abbagliante, un’elusiva-eleusina luce gettata nel fondo del pozzo, un “pozzo sordo” scrivi, a rischiarare movimenti e gesti, frammenti di vita e di emozioni, allenamenti fisici sempre lenti e in dissolvenza. Come sempre sono in dissolvenza le tue figure-controfigure, altri io-non io frequentati nella realtà o nell’immaginazione culturale o storica, altre persone, trapezisti da circo o di memoria biblica, o magari altri poeti. Ma sarebbe più esatto dire una “luce irreale” come tu scrivi, e a volte lievemente surreale, gettata su un immenso scrigno trasparente o un acquario dove le figure, tutte, te compreso, sono più che altro sagome, che lasciano intravedere una vita al rallentatore, più soffice di quanto non sia, quasi un sogno dove scivolano uno sull’altro orizzonti e storni, cieli e case, traghetti e treni. Più che significati e temi prevale nelle tue poesie il tono o il timbro, che è sempre pacato e apparentemente dimesso, lento e musicale, come quello di chi è allenato al silenzio e alla solitudine, ha attraversato “la terra desolata” e, cambiando luogo o mettendosi nei panni di un io diverso, prova a trovare sollievo senza riuscirci: “Così sospesi, come in un giorno / Di vacanza, in attesa del dolore / Che svuota la testa”.
Elusivo lo sei anche con i maestri ben innervati nella tua poesia, che pure ci sono e sono in tanti, come naturale in un poeta dotto quale tu sei. Dove nasce la tua poesia, mi chiedo, tu che ti sei occupato di tanti autori e certo molto di Sandro Penna, su cui stai ancora lavorando, a quel che ne so, ma anche di Saba e Montale. A una lettura superficiale non sembrano esserci tracce di Penna, che pure parrebbe inevitabile, e non mi pare che queste tracce siano state rivenute da altri, quasi tu le avessi meticolosamente cancellate, attenendoti in questo alla consegna del perugino. E se Penna c’è, certo è dissimulato nel tuo metodico e brillante endecasillabo sciolto, ricco di enjambement e senza rime, e che inizia con una inusuale maiuscola anglosassone, quasi a consegnarci una cifra di modernità della tua poesia. Ma, a ben leggere e rileggere, c’è anche Penna, come non riconoscerlo nel clima di dormiveglia, tra sogno e realtà, o nei rumori lontani della città che filtrano in una stanza con le serrande abbassate, o nell’umore lieve e dolce che impregnano come un profumo tutto Solstizio, o infine in questi tuoi due versi: “Sono i ciclisti ad annunciare il giorno, / Un cane abbaia verso la statale”. E ora che ti scrivo questo me ne convinco ancora di più. In fondo Solstizio è un po’ il libro di “un viaggiatore insonne” con i suoi fantasmi.  Ma è anche molto altro. Naturalmente altri poeti si affacciano dissimulati dalla tua consumata abilità, molti non italiani, per lo più inglesi, a cominciare da Auden, nel tuo riconoscerti (“Sono quello che non ha valigie da portare”) nella sua vita raminga e solitaria: “Il circolo vizioso della solitudine: / Eri senza bagaglio”. Il flusso della tua poesia trascina come in un fiume frammenti mentali, lacerti liquidi di una mente piena di dolore, o, come ci ha insegnato Wallace Stevens, di un “mondo come meditazione”.
Spontaneamente mi è venuta la curiosità di avere tra le mani il tuo quaderno di traduzioni, Gabbie per nuvole, con quel titolo che allude alle grate metriche di quello che c’è di più bello e puro che è il cielo (o la poesia), quando lo vediamo passeggiando e ci facciamo accarezzare. Le poesie come gabbie improbabili di tutto quello che è mobile, liquido, appunto non ingabbiabile. Come dire cancelli del cielo. Impossibile. Particolarmente belle le due ultime sezioni, con un umanesimo dolorante ma mai negativo o disperato, che non possono non farti sentire a me vicino.
“Ti chiedo a voce bassa di tornare”, scrivi rivolgendoti alla Musa con garbo e senza alzare la voce o strepitare. Si è strepitato tanto ed è già prezioso il fatto che quel dialogo con la Musa posa ancora  proseguire. È imbronciata, d’accordo. “Stai girata di spalle e guardi altrove”, osservi, d’accordo, ma “Qualche margine resta per parlarci”. Siete tu e la Musa “due estinti soli”, ma ci siete nonostante le reciproche distrazioni, il sole c’è ancora nel suo ciclo annuale e giornaliero, dal buio alla luce e viceversa. Il sole e la poesia ci sono, ombroso il primo e solare la seconda in reciproco rovesciamento solstiziale, e questo ci consola: “Forse non tutto è perduto, forse”.
Tanti cari auguri, “auguroni”, come mi scriveva Amelia, un abbraccio,
Gabriella Sica


                                                                                            Roma, 10 novembre 2014
















giovedì 13 novembre 2014

AILANTO n. 11 - Su Paolo Lisi





Non mi piace discutere di poesia per assetti generazionali, eppure avverto tra alcuni miei coetanei, compreso qualche “fratello maggiore”, un doppio e condiviso movimento. Da un lato la necessità di un dialogo con la tradizione, compresa la riscoperta, la ripresa di alcuni “classici minori” e più recenti che sono elevati a modelli; dall’altro una riflessione sulla poesia che si confonde spesso con motivi autobiografici e che si esprime attraverso note di un desolato solipsismo. È quanto accade, almeno in parte, anche nell’ultimo libro di Paolo Lisi, dal titolo emblematico E la colpa rimane, apparso da Passigli con una partecipe prefazione di Francesco Napoli. Ad apertura di volume, infatti, mi viene subito incontro il “classico minore” sotto le spoglie di Angelo Maria Ripellino, con un esergo da Autunnale barocco sui temi dell’indifferenza e del futuro, per quanto riguarda la propria opera: «Non si accorgeranno nemmeno / di quello che hai scritto. / Getteranno i tuoi versi tra gli stracci vecchi». È un viatico volutamente fuorviante, credo, che vorrebbe riportarci su questioni antiche e farci spostare l’attenzione dalla poesia alla sociologia della letteratura. A fare da controcanto, in una inquietante simmetria, è invece l’ultima poesia del libro, quella che dà il titolo, e che – ci avverte Napoli – è stata aggiunta solo in una seconda revisione. Qui Lisi ci racconta le sue colpe, con un tono duramente confessionale e sostenuto, tra cui quella «di aver speso parole quando / c’era solo da ascoltare», e ancora «di aver taciuto / quando invece era necessario / gridare più forte». Ecco dunque che quel doppio movimento a cui accennavo sembra essersi compiuto proprio sulle soglie del libro, in qualche modo incorniciandone le tensioni: ciò che il modello poteva suggerire come estremo canto del cigno diviene qui una questione ben più problematica, che non investe più la durata della poesia (la propria, anzitutto), ma le sue necessità profonde in rapporto all’evidenza di un disagio. Quello di essere fuori tempo e fuori spazio, di essere, in definitiva, inadeguato. Di non aver risposto come forse ci si attendeva.
Quando c’era da gridare il poeta ha taciuto, e quando c’era da ascoltare ha speso parole invano. Qualcosa, nella geometria esistenziale di Lisi, chiaramente non torna. E questo libro ne è per certi aspetti il diario, il regesto, l’elenco possibile per cui la pagina diventa un tesissimo autodafé. Ma non c’è solo questo: «mentre tutto inesorabilmente crolla» e l’asse stesso dei valori su cui la poesia fonda la capacità di riplasmare il mondo è messo a durissima prova, c’è un ulteriore controcanto, che fa di questi versi un piccolo sistema anfibio. Siamo, «inesorabilmente», doppi, abitiamo luce e ombra. È l’amore, l’amore che accade e si ripete «nell’immediato», senza costrizioni di spazio o di tempo. È ciò che consente il dialogo con una figura indefinita, un vago femminino, forse una proiezione, un altro-da-sé, in grado di far generare ancora parole: un motore, insomma, una sorgente anche espressiva, per poter ancora declinare l’assenza e il dolore.

Paolo Lisi, E la colpa rimane, prefazione di Francesco Napoli, Passigli 2013, e. 12.00.

Talenti

Hanno un bel da fare
non si tirano indietro mai.
Non per niente sono giovani
non per niente hanno talento.
Sicuri di sé affrontano
Il mondo. Non cercano padri:
s’infrangono
contro il loro riflesso.

Verso la soglia dei quaranta io
ascolto il mare all’ombra
di un pino. Al riparo,
leggo poesie. Ogni tanto
ne scrivo qualcuna:
più spesso me ne dimentico.

Ho scritto quello che ho vissuto,
ho vissuto quello che ho letto.
Al momento

abito con rigore il mio tempo.

sabato 8 novembre 2014

Qualche appunto su Malaspina di Maurizio Cucchi




All’avvio della Commedia, nel I canto, Dante ci dice che al levarsi del sole si attenua la paura che gli è durata tutta la notte «nel lago del cor». A distanza di secoli, Montale riprende quest’immagine e fa del cuore di Dora Markus, così profondamente inciso dalla Storia, un «lago d’indifferenza». Non so quanto coscientemente l’autore abbia inteso riprendere quell’immagine, ma ho avuto la precisa sensazione che anche per l’ultimo libro di Cucchi sia accaduto qualcosa di analogo: Malaspina, il piccolo lago che dà il titolo al volume, è il lago del cuore, o meglio, è il nome con cui il poeta riconosce, identifica il suo cuore-lago.
La poesia moderna ci ha abituato all’uso frequente di toponimi, di nomi geografici, perfino di semplici strade (chi non ricorda la via Scarlatti di Sereni?), che acquistano uno straordinario potere di evocazione. Così anche un piccolo lago può diventare il nome di una potente metafora, che la tradizione non è ancora riuscita a usurare. Immaginiamo questo lago calmo in superficie, ma profondo, icona di quelle sospensioni felici come di quelle adesioni improvvise che scandiscono il ritmo autentico, percettivo e sentimentale, di tutto questo libro.
Una doppia dimensione, orizzontale e verticale, accoglie queste poesie: la prima contiene luoghi, eventi, persone; la seconda, invece, si riempie di memorie e reinvenzioni, così strettamente intrecciate tra loro nella dinamica compattezza della metafora. Ovvero quella di un io che si espande e si misura con le sponde porose del proprio mondo fenomenico e che insieme si cala, discende dentro se stesso, fino a imbattersi nella propria natura più misteriosa e contraddittoria.

Non sorprende, allora, che anche il berretto a sonagli, così novecentesco, così pirandelliano, sia rievocato in questi versi non tanto per indicare la follia, vera o presunta, ma la scoperta ben più radicale di un’alterità dell’io, della sua resa alla molteplicità delle cose, ai loro intrecci più sconosciuti. Gli emblemi della discesa (l’ennesima descensus ad inferos della modernità lirica) ci sono davvero tutti: il poeta è una specie di archeologo che s’avventura nella cantina della propria memoria. E qui può ritrovare, come emerse dal fondo melmoso di un lago, ombre riconosciute o fittizie, rifrazioni e proiezioni che gli si fanno incontro traversando quell’inusitato spazio metaforico, fattosi comune, condiviso con il lettore: quello spazio dove le verità parlano la lingua di una commedia e la commedia appare infine vera.


martedì 4 novembre 2014

AILANTO n. 10 - Su Alessio Brandolini



Anche nel nuovo libro di Alessio Brandolini, Nello sguardo del lupo, ritrovo tracce evidentissime di un curioso animale letterario, di una creatura fantastica, del tutto inesistente eppure più vera di ogni possibile visione. Parlo di quella sorta di mostro uscito dalla fantasia di Borges, che dichiarava, a sua volta, di averlo ereditato da una leggenda di boscaioli del Wisconsin, abituati alle lunghe solitudini tra i boschi: lo hide-behind. Sua caratteristica è quella di trovarsi sempre alle nostre spalle e di restare perennemente invisibile. Avvertiamo la sua presenza, ma non riusciamo a scorgerlo; appena proviamo a voltarci, lui è sempre più svelto di noi. Il lupo che si muove negli interstizi di queste poesie, che ne popola i versi e ne scandisce il movimento guardingo, ha davvero molto dello hide-behind, se questo, come credo, è la metafora più riuscita di tutto quel grumo di ansie, ossessioni, paure con cui quotidianamente siamo chiamati a confrontarci. Ma, come il suo stesso nome suggerisce, lo hide-behind vive nascosto dietro di noi, ci segue come un’ombra, ma non ci è concesso fronteggiarlo; Brandolini sembra invece essere riuscito lì dove nessuno aveva osato spingersi, deve aver guadagnato in velocità al punto da ritrovarsi davanti al lupo, e di poterne sostenere lo sguardo.
Il problema sorge quando, con assoluta consapevolezza, il poeta intende quello sguardo come il proprio. Anzi, quello sguardo è il suo sguardo, l’«occhio-proiettile» che non sa cessare di correre attraverso indefinite zone oscure, ombrose, dove la città così tanto evocata, fino all’autocitazione (il «Tevere in fiamme», o più indietro «l’alba  a Piazza Navona») indietreggia fino a un paesaggio di muffa. Non so quanto questi ritorni a distanza congiurino alla creazione di un insieme, di un sistema poetico; sarei più tentato di leggerli come delle risalite dalle profondità del tempo e dell’esperienza, che qui vengono a corroborare un impianto decisamente solipsistico. C’è Roma, in tutta la sua maestà: i luoghi sono riconoscibilissimi, dal Gianicolo all’Isola Tiberina, da Fontana di Trevi a corso Rinascimento, dove svetta la cupola borrominiana di Sant’Ivo alla Sapienza, fino alle rovine di Tuscolo; e questa imponente geografia urbana, così monumentale, diviene piuttosto lo scenario di una mancanza, declinata come incontro, come amore, come semplice appuntamento, ma sempre in negativo. Nel pieno della città barocca l’horror vacui si tradisce e lascia scorgere un punto da dove il soggetto può infine contemplare se stesso in tutte le sue contraddittorie manifestazioni, nelle sue aspirazioni disilluse, nel suo non riuscire a trattenere, sotto il «diluvio delle parole», atti e gesti con cui ricostruire un’identità possibile, mentre la realtà si riduce a un susseguirsi di grotteschi.
Il ritmo, specie nelle sequenze in prosa, sembrerebbe suggerire una pulsione vagamente automatique, che talora fa ricordare certe intemperanze di Amelia Rosselli; eppure si assiste a un collage sapiente, al disfarsi, sulla pagina, di un’energia associativa che necessita non solo di recuperare le immagini del passato come metafore ossessive, ma di reintegrarle in una ripetizione di luoghi e di eventi: proprio come se, alla fine, il proiettile avesse necessariamente mancato il suo bersaglio, e l’io si fosse definitivamente riconosciuto nel fuori-centro (anamorfico, barocco) da cui osserva. Da lì, le impronte del lupo, del poeta che si è fatto lupo, ci invitano a seguire un sentiero di cupo ripiegamento; come in una vasta tradizione, l’io-barca (l’altro vettore metaforico del libro) rischia di restare imprigionato nella tempesta, o di giungere in un porto che crolla comunque.

Alessio Brandolini, Nello sguardo del lupo, La Vita Felice, 2014, e. 13,00.


Sfiorito come non mai perché stufo
delle oscillazioni, nell’arido terreno
da mesi senz’acqua, bloccato
dal groviglio che lievita nel cuore.
Una vita oscura e gelida: un seme?

Per trovare la luce ti cali nel pozzo.

venerdì 24 ottobre 2014

Nicola Romano su Solstizio

Posto una recensione di Nicola Romano a Solstizio, apparsa in «Quaderni di Arenaria», nuova serie, vol. VI, 2014.


Concettualmente articolata sulla ciclicità e sull’ambivalenza dei solstizi,
questa nutrita raccolta di poesie di Roberto Deidier giunge a meglio
comprendere gli aspetti più nascosti e, quindi, più avventurosi
dell’esistenza, attraverso una parola che s’impregna del proprio tempo e
delle sue infinite tensioni, per esprimerlo a pieno dentro composti itinerari
interiori che, con una puntualità d’osservazione, rivelano la magmatica
condizione dell’essere che si confronta con la variegata gamma dei contatti
del vissuto. Le sette sezioni che compongono l’ordito strutturale della
raccolta, in buona sostanza vanno a formare un unicum che vuole
confrontarsi con un probabile «luogo» dove assemblare e all’occorrenza
aggiustare le sensazioni e le memorie, al fine di decodificare la varietà dei
palpiti che afferiscono alla naturale pulsione del vivere. In tal senso
troviamo Deidier a giostrare con mestiere tra uomini e cose, offrendo così
ampi spazi meditativi al dialogo tra l’io narrante e il mondo esterno, un
dialogo che inevitabilmente permeato da un sottile risentimento mette in
evidenza le immancabili lacerazioni del quotidiano. Tra saltuari segmenti di
richiami storici o biblici, il presente sembra a tratti flettersi nel passato per
poi tornare con la vividezza delle sue inquietudini e delle sue particolari
analogie con il mondo attuale sempre più intaccato dalle contingenze extraumane.
Molto deliziosi gli endecasillabi della sezione dedicata a Palermo
sua città adottiva che, come l’alternanza dei solstizi, sa porgere all’autore

taluni sensi di vuoto e di ricchezza.

Nicola Romano

giovedì 23 ottobre 2014

venerdì 17 ottobre 2014

AILANTO n. 9 - Su Seamus Heaney



Oggi che possiamo leggere nella sua interezza Morte di un naturalista, suo lontano libro d’esordio, il cerchio che Heaney ha disegnato lungo la sua intera vicenda di poeta sembra essersi definitivamente chiuso. Marco Sonzogni, che di questa edizione firma la traduzione e la nota finale, cita molto opportunamente alcuni richiami evidenti all’ultimo libro, Catena umana, ricordando spesso, però, che altri e non meno evidenti richiami percorrono anche le altre raccolte di quest’autore, componendo dei veri e propri microsistemi semantici, fatti di allusioni, citazioni, riprese di immagini a distanza. Il movimento conclusivo di questo percorso, tra i più suggestivi dell’ultimo Novecento, è dunque un perfetto salto all’indietro, una vorticosa capriola lì dove tutto era cominciato, nei vibratili anni Sessanta; ma non si tratta tanto di un ritorno all’origine, quanto del perseguimento di una coerenza interna, del riconoscimento all’interno del proprio cielo poetico di alcune stelle fisse, che sono tornate in più momenti a illuminare la notte espressiva di Heaney.
È proprio dal buio, infatti, che questa poesia prende le mosse. La metafora che meglio la identifica, quella dello scavo (digging), annuncia l’attraversamento dell’oscuro e la possibilità, attraverso l’elaborazione della scrittura, di riconsegnare alla luce del giorno un paesaggio ctonio. L’impressione è quella di un’ennesima azione orfica, forse un po’ anacronistica nel cuore di una postmodernità che privilegia piuttosto le poetiche della superficie, dell’effimero, del superfluo. In realtà Heaney è un poeta perfettamente allineato al suo tempo e la sua personale impresa non intende fronteggiare alcun mistero. La materia che viene via via scoperta è appunto tale, un grumo di rappresentazioni e immagini concrete, sulle quali la penna (la “vanga”, nella superba metafora che la identifica) interviene plasmando un piccolo universo parallelo, una dimensione trascendente dove la paura, grande motore di tutta questa poesia, può essere affrontata, liberata o forse addomesticata.
All’elusività dei simboli che la tradizione, anche italiana, gli offre (Pascoli, anzitutto, o il primo Ungaretti del Porto sepolto) Heaney ha preferito una densità metaforica che si risolve perlopiù nella descrizione invece che nell’evocazione. Quasi tutti i testi di Morte di un naturalista seguono questa scelta, o predisposizione: il poeta sa bene che la lingua è uno strumento da governare, e pure laddove evoca o suggerisce (si veda la bellissima Impalcatura, o la successiva Tempesta sull’isola), riesce a far emergere con una certa chiarezza la figura che manca e che pure si forma sotto i nostri occhi. Dietro la promessa coniugale, o il «grande nulla» che si affacciano dai versi di queste poesie, il lettore può intravedere quel punto di tensione, da dove la scrittura di Heaney trae la propria origine e la propria forza: la lingua come energia plasmante, come vortice metaforico che segue i contorni di ciò che normalmente resta sconosciuto, come nel gioco enigmistico delle linee da tracciare tra un punto e l’altro. La metafora, insomma, non come complessità, ma come scioglimento, come dimensione di un buio senza più paure.

Seamus Heaney, Morte di un naturalista, trad. di Marco Sonzogni, Mondadori 2014, e. 17,00.

San Francesco e gli uccelli

Quando Francesco predicò l’amore agli uccelli,
loro ascoltarono, svolazzarono, scattarono
alti nel blu come uno stormo di parole

liberate in allegria dalle sue sante labbra.
Poi una virata, ed eccoli di nuovo frullare sul suo capo,
piroettare sulle cappe dei fraticelli,

danzare in volo, per pura gioia giocare
e cantare, e come immagini prendere il volo.
Fu la poesia più bella di Francesco,


vera nel ragionare, lieve nel tono.

mercoledì 15 ottobre 2014

Ricordo di Piero Bigongiari



Dovevo trovarmi al Teatro Studio di Scandicci, ieri sera, per un omaggio a Piero Bigongiari nel centenario della nascita, ma non ce l'ho fatta. Ho scritto però un breve ricordo che ho inviato a Paolo Fabrizio Iacuzzi, organizzatore dell'evento.

Ho conosciuto Piero Bigongiari nella seconda metà degli anni Ottanta, non saprei dire con più precisione: quando, su invito di Maria Luisa Spaziani, veniva a Roma, a piazza Campitelli, a tenere conferenze per la cattedra di poesia del Centro Montale. Con ogni probabilità fu Maria Luisa a presentarci. L’ho incontrato meglio, in compagnia della moglie Elena, a Perugia, alla fine di settembre del 1990, dove li avevo raggiunti con Elio Pecora in occasione di un convegno su Sandro Penna: ho la loro immagine precisa, questa volta, nel ristorante dell’albergo La Rosetta, allo stesso tavolo con Oreste Macrì. Il nostro piccolo carteggio, di cui resta qualche traccia fra un trasloco e l’altro, era già cominciato. Quell’anno, infatti, avevo pubblicato una sua poesia in un piccolo quaderno di poeti che stampavo con l’amica Marina Guglielmi, «Trame». Era il numero tre, datato maggio, e Bigongiari lo apriva. Gli avevo scritto in gennaio o febbraio, chiedendogli un testo, e lui, a metà febbraio, aveva cordialmente risposto ricordandosi di me e della promessa. In quello stesso quaderno appariva, tra le altre, una poesia di Antonio Riccardi.
Quando lo raggiunsi al tavolo per salutarlo, mi rispose così: ecco il mio più giovane editore. E in questa veste insolita mi presentò a Macrì, che subito prese a parlarmi di un suo libro inedito su Penna, pensando che fossi un editore vero. L’equivoco fu chiarito, per mia fortuna e non senza sollievo. I tre giorni trascorsi con loro ad ascoltare gli interventi del convegno, o insieme al ristorante a discutere di novecento, mentre giudicavamo i piatti che ci venivano proposti, mi restituiscono ancora di lui un’immagine allegra e cordiale, all’opposto dei ritratti seri e pensosi che mi aveva fatto Maria Luisa; e lei, al mio ritorno a Roma, dubitava dei miei racconti: ma è proprio Piero quello che hai conosciuto? Anche sua moglie condivideva quell’allegria, quel clima di simpatia e di vitalità che s’era acceso tra noi.
Non lo avrei più rivisto, purtroppo. Dopo Perugia, i nostri contatti si limitarono alle lettere. Ancora nel ‘91 mi inviò alcuni degli Sketches che andava scrivendo in quel periodo, sempre per «Trame»: ne pubblicai uno nell’ottavo quaderno del giugno ’92. Quell’anno apparve da Mondadori La legge e la leggenda, e avendo avuto dall’inserto «Spaziolibri» de «La voce repubblicana» la possibilità di scrivere quel che volevo, mi affrettai a recensirlo. Bigongiari non tardò a rispondermi che per lui era stata la recensione più bella. Lo racconto perché quel riconoscimento critico – da un poeta, ma anche da uno dei maggiori studiosi della modernità poetica – è stato fondamentale per me, una vera infusione di sicurezza, un incoraggiamento a proseguire nell’occuparmi della poesia altrui. Quello che sarebbe divenuto, nel tempo, il mio «terzo mestiere».
Cosa potrei proporvi, di lui, se non qualcosa di cui ho avuto la ventura di essere “editore”? La poesia, se non ricordo male, fu poi inclusa ne La legge e la leggenda, ma mentre scrivo non ho il libro con me e non potrei giurarlo: l’infaticabile e informatissimo amico Iacuzzi potrà confermarvelo. Il titolo è Spes paenultima dea. Bigongiari mi scriveva in proposito: «le accludo questa favoletta sperando che non le dispiaccia». Ma di favole si ha sempre bisogno, e non solo a vent’anni. Grazie, carissimo Piero.

«Senza speranza, come puoi campare?»
disse una volta un granchio di mare
a un suo compagno che andando sbilenco
punteggiava la spiaggia con la lenta
grafia delle sue zampe verso una
poco distante duna. Ed ecco a un tratto
che l’ondata raduna i due viandanti
e un po’ li travolge, un po’ li porta
verso la battima sonora. «Vedi,
è questa la speranza: improvvisa
ti distoglie mentre più ti allontani
da lei» rispose l’altro al compagno
che rivoltato dall’ondata stava
a zampe all’aria. «Sì, ma essa ti toglie
talvolta il modo anche d’allontanarsene,
anche se essa non è mai l’estrema»
il primo farfugliava tra le sparse
pozze che luccicavano qua e là
prima che le riassorbisse la rena.

Spes paenultima dea… In quell’istante
lassù in alto un aereo della BEA
lascia una striscia sottilmente bianca
nel sole ultimo, troppo alto pei granchi,
nebulosa nei suoi recessi azzurri.
L’uno s’affretta di tralice, l’altro
attende che lo volti un’altra ondata.