sabato 30 dicembre 2017

AILANTO n. 51 - Su Marco Sonzogni



Per un lettore e un interprete acuto di Montale come Marco Sonzogni (ricordo, qui, i due recenti volumetti per Archinto: La speranza di pure rivederti… e, in questo 2017 ormai al termine, «Il guindolo del Tempo». Montale, Clizia e il pegno) potrebbe sembrare scontato che il passaggio nella scrittura in versi comporti – se non l’emulazione – qualche riferimento, sul piano della citazione, dell’imitazione, dell’affettuosa, omaggiante parodia. In effetti qualche segnale di queste pratiche si ritrova nelle pagine della sua ultima raccolta, Passaggi. Poesie e prose poetiche, in cui l’autore riunisce il lavoro creativo degli ultimi tre anni, dal 2014 al 2017. Il volume è apparso nella collana «Labyrinty» per una sigla che ha fatto la storia della poesia italiana del primo Novecento, Montale compreso; all’editore Rocco Carabba di Lanciano si deve, infatti, una sfortunata edizione di Ossi di seppia, perlopiù finita distrutta in un incendio che colpì il magazzino dove erano custodite le copie.
C’è dunque, nelle vicende di Sonzogni, una sorta di transfert montaliano, avviatosi proprio con le sue ricerche sul rapporto tra il poeta e Irma Brandeis, la studiosa ebrea americana che avrebbe dovuto portarlo a insegnare negli Stati Uniti, senza riuscirvi. A colei alla quale era destinato il nome di Clizia, Montale aveva promesso un «pegno», un «amuleto» finora mai rinvenuto, sulle cui tracce Sonzogni si è avviato con successo. Ma come Montale restò in Italia, avviandosi a una fitta attività di giornalismo culturale, il suo giovane esegeta ha invece compiuto un lungo, vero viaggio, fino agli antipodi (insegna letteratura italiana a Wellington). Così i temi della dislocazione, della distanza geografica e affettiva ricorrono nei suoi versi, intrecciandosi – ma poche volte, a dire il vero – con il fantasma di Montale e con alcuni dei suoi attacchi e chiuse più famosi: «Non distorcere ti prego l’ombra con cui sfioro / il tuo pensiero»; «Puoi tu non crederti sorella?».
Si tratta di brevi apparizioni, di segnali di voluta, esibita vicinanza di lettore, piuttosto che di una vera e propria contaminazione. La scrittura di Sonzogni, già matura, procede autonomamente per raccontare, piuttosto, ciò che nella vita di Montale non è più accaduto (e verrebbe di dire, col senno di poi, che non sarebbe mai potuto accadere). Treni e stazioni popolano queste poesie, in una sorta di vortice motorio, di incessante spostamento nel tempo e nello spazio, tra memoria e presente. Caparbiamente, come ogni vero poeta, Sonzogni sa che la sua sola casa è la lingua che lo abita. Così il componimento finale ci affida a un dialetto lombardo: «sono sicuro che la mia casa è qui», nell’identità delle parole, nel loro suonare affettivamente. È una certezza che non si può non condividere e che appartiene, da sempre, alla storia della poesia: fuori di quella lingua la vita preme con le sue urgenze, donando al poeta «occasioni» di scrittura, portandolo nella dimensione assoluta del «qui e altrove», dove le immagini si affastellano senza condensarsi. Perché questo accada, Sonzogni sa che deve fermarsi nella propria lingua, lui che è anche un abile traduttore (ricordo il “meridiano” di Seamus Heaney). Solo lì, fondando e rifondando ogni volta il proprio stile, tutti gli ingredienti della poesia, dalle Ipotesi ai Lasciti trovano finalmente espressione, simili modo; ovvero nel modo in cui la vita stessa vorrà riportarci al punto della sua origine.

Marco Sonzogni, Passaggi. Poesie e prose poetiche (2014-2017), prefazione di Matteo M. Vecchio, Carabba 2017, e. 13.00.


Che già solo cercarti
smuove, scalfisce, strappa.

E non so sparare. Guardo
da terra, in pectore guado.

Quando la misura scappa

io rinculo e tu riparti.

sabato 11 novembre 2017

AILANTO n. 50 - su Renato Nisticò



C’è qualcosa che non torna, immancabilmente, nelle geografie letterarie più recenti, soprattutto quelle della poesia; e se quelle geografie si restringono a una generazione di autori la situazione non cambia, qualcuno o qualcosa si sarà sottratto comunque all’attenzione dei compilatori di manuali o di frettolose e tendenziose antologie. Tra i nomi della generazione degli anni Sessanta, per esempio, è mancato a lungo quello di Renato Nisticò, oggi pienamente riscattato dall’apparizione della sua seconda raccolta, Attenti caduta metafore, nella preziosa collana di poesia dell’editore Donzelli. La prima, intitolata Regno mobile, risale al lontano 2001.
Il nuovo libro ha una struttura forse poco italiana, nel senso che non appare organizzata in sezioni, ma lascia liberamente fluire i temi dal testo d’avvio a quello di chiusura, non senza una certa specularità. Il poeta, nell’incipit, si presenta sotto le spoglie di un dio nascosto e la sua condizione appare essere quella della maturità: «Sono diventato adulto / son diventato grande», dice Nisticò, come a suggellare la fine di quella lunga, variegata Bildung di cui Regno mobile, e anche il romanzo L’Arcavacante erano stati l’espressione, ora ironica ora sospesa tra residui di incanto e delusioni. Ma «attenti», come suggerisce il titolo, perché lo scarto metaforico è sempre in agguato per sorprendere e spiazzare il lettore. Così quel secondo aggettivo, «grande», vuole riferirsi non solo all’anagrafe, ma anche a una condizione di pervasiva smisuratezza: dalle sue altezze, il dio perde la percezione delle «cose della terra», e allora anche la conquista della maturità si rivela una facile illusione, un nascondersi a se stessi. Il poeta è infine un «triste» ma «vivace impostore», come recita l’ultimo verso della raccolta: «L’età cade muta», ed è significativa quest’asserzione dopo un vasto dispiegarsi di risorse locutive, finanche di un tentativo di Discorso agli italiani, dove la passione non scade mai in facile retorica.
Nisticò ha il dono di sospendere il linguaggio in una zona del poetico dove ogni significato sembra ancora compiersi, e dunque tutto diventa risorsa, per lui, e nulla rischia di usurarsi. Le sue immagini sembrano ancora pregne di quel candore che rinvia a uno sguardo adolescente, alla freschezza e vivacità di un perenne presente: «Qui da noi di una storia / del futuro non se ne fanno niente», scrive in L’avo futuro. Quanto al passato, la sua rievocazione non è mai oscurata dalla malinconia, perché «La vita è una, non ammette altro da sé», suggerisce severamente l’autore come a circoscrivere un suo recinto, una sua condivisa ontologia. In questa immanenza, di cui l’occhio si è nutrito incessantemente e che non cessa di reinventarsi nella lingua della poesia fino a farsi «cristallo di durata», Nisticò ci aiuta invece a comprendere che il grande tema di fondo, il vero antagonista è proprio il tempo, richiamato sotto ogni possibile specie, a partire da quella della finitudine, se «vita mortale, verso l’inverno vai» (Le vecchie). Non so fino a che punto questo carattere di meditazione sul fluire della vita sia un tratto che accomuna questo libro all’opera di diversi poeti del meridione, né vorrei che sembrasse riduttivo, nei confronti di un libro così mosso, così ricco delle sue necessità, stabilire un confine tematico così netto. Ma se «L’acqua è allora una durata», si chiede guardando la pioggia, allora un filo non troppo segreto da Eraclito a Brodskij lega Attenti caduta metafore a qualcosa che ha a che fare anche con una morale del tempo, non solo con il suo manifesto consumarsi. Dietro la fanciullezza delle immagini si riconosce una corda civile che proprio verso la fine tende a rivelarsi con più nettezza, presentandosi come un memento e come un invito.

Renato Nisticò, Attenti caduta metafore, Donzelli 2017, e. 14.00

La luce si nasconde dietro il suo apparire:
rivelazione di una troppo vivida estate
che ha partorito in te
un certo tipo di sguardo, bieco e ridente:

I maestri non lo sanno che cos’è la luce:
se possono, ti ripetono formule
risapute…

Tu dici È la ragione dei ciechi
è il nero degli occhi che accresce
lo splendore dei possibili volti

Io dico È il popolo d’immediati rancori
che si rivolta nell’opacità della lente
oscura

Non è chiara la luce

mercoledì 6 settembre 2017

AILANTO n. 49 - su Giorgio Ghiotti



Scrive Biancamaria Frabotta, nella densa prefazione a La città che ti abita di Giorgio Ghiotti, che «sono così pochi i poeti nativi di Roma nella nostra precarietà di esuli, di emigrati, di spatriati, che quando ce ne capita uno è meglio non lasciarselo sfuggire». È vero, la capitale è più una città di poesia che di poeti; per questo, «quando ce ne capita uno», non vengono a mancare attenzione e curiosità, e quasi mai ne restiamo scontenti. È anche il caso di un talento precocissimo come quello di Ghiotti, che a ventitré anni (l’età in cui un altro enfant prodige, Valerio Magrelli, esordiva con Ora serrata retinae) congeda la sua seconda opera in versi, dopo Estinzione dell’uomo bambino del 2015. Una distanza ravvicinatissima tra le due prove suggerisce una certa contiguità tematica ed espressiva, puntualmente colta nelle osservazioni della prefatrice, a cui rimando. È come se, di tappa in tappa, Ghiotti stia circoscrivendo, nella forma della poesia, un universo affettivo, amicale, domestico, quello a lui più prossimo, cercando di attingervi quell’essenzialità in cui far confluire necessità comuni, piccole verità condivise, condotte alla disamina del tempo. Proprio «cuore» e «tempo», quest’ultima nelle sue svariate declinazioni, sono i termini che più ricorrono in queste nuove poesie.
«Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto». Così Manzoni, nell’ottavo capitolo del suo romanzo. E veniamo al centro della questione che fa da filo conduttore ai testi di Ghiotti. Non so se avesse presente questa frase, in cui l’affettività si misura con la temporalità, fra passato e futuro: la poesia non conosce presente, del resto. Perché «cuore» e «tempo», in questo libro, intrattengono un rapporto dialettico. Si affrontano, si scontrano, prendono coscienza l’uno dell’altro. E lo fanno attraverso un susseguirsi scenico, di sequenza in sequenza, come se fossimo chiamati ad assistere a delle brevi pièces, che i personaggi di una vita, per quanto esigua, vengono a recitare su un palcoscenico di micronarrazioni. Ma è davvero esigua una vita di ventitré anni, quando il mondo affettivo che vi si dispiega appare così inevitabilmente ricco, agito da grandi dolori come da minimi sussulti, e soprattutto da continue scoperte? In un panorama di giovani e dottissimi versificatori, che forzano la scrittura verso una maturità fittizia, ancora lontana dal compiersi, Ghiotti è l’ultimo poeta bambino in grado di stupirsi della vita, e di raccontare il proprio stupore con l’esattezza della grazia. In filigrana ritrovo qualcosa di Penna, le sue avversative, il suo fraseggio, ma senza epigonismo: in filigrana, appunto, come a dimostrare l’esercizio di una lenta assimilazione. E la ricerca di varchi del primissimo Montale.
Anche Ghiotti è un lettore dotto, prima che poeta e narratore. Il miglior Novecento si raccoglie dietro le sue parole e sarebbe poco utile provare a tirar giù altri nomi, che stranamente (come accade spesso alla poesia romana) non apparterrebbero neppure agli immediati dintorni dell’urbe. Quando si mettono cuore e tempo in una stessa poesia, si muovono ampie tradizioni, e alla fine, tra i due, nessuno vince, perché non esiste che un «sentimento del tempo». Ma per Ghiotti questo non s’identifica tanto nella «tragedia dell’infanzia» che pure Frabotta rievoca in apertura, quanto nel perdurare di un’adolescenza che brucia e brucia, come vuole il suo etimo (adolesco) portandoci verso nuove forme e nuove acquisizioni. E lasciando, nella cenere, la traccia di quel che siamo stati. Ha ragione Ghiotti: c’è un «lordo» e c’è un «netto», nei nostri bilanci affettivi, un tempo pensato e un tempo vissuto, qualcosa che si perde, e altro che si salva per sempre.

Giorgio Ghiotti, La città che ti abita, prefazione di Biancamaria Frabotta, Empirìa 2017, e. 12.00.

Vorrei trattenerli per intero, ora, i ponti
interminabili di agosto, le sagome indistinte
di urla fuori dalle scuole, gli archi
spalancati sulle piazze, il riposo dei cortili
per lui che mai del tempo ha fatto scorta
e quello speso dietro a un farsi e disfarsi
di giorni chiamarlo per nome, ritrovare
nel suo farmi battaglia d’allora
lo spiraglio oltre il silenzio di adesso.

lunedì 4 settembre 2017

AILANTO n. 48 - Su Raffaele Niro



Non so se Raffaele Niro, nel congedare la sua raccolta più recente, intitolata L’attesa del padre, avesse presente un aneddoto ungarettiano, che mi sembra di ritrovare in filigrana ad apertura di libro. Ogni inizio d’anno, ovunque si trovasse, l’autore dell’Allegria e del Dolore prendeva carta e penna e si costringeva alla scrittura. Si trattava di una specie di rito magico, di un esorcismo nei confronti dell’aridità creativa: il primo giorno dell’anno diveniva una sintesi simbolica dell’anno intero, così che trascorrerlo senza aver scritto una poesia avrebbe significato un raccolto in versi davvero magro. In questa sua «attesa», che leggo in senso soggettivo più che oggettivo per il carico di affetto che trasuda (è il padre che attende sia le nascite imminenti sia i loro sviluppi in termini emotivi e di crescita), Niro, nel dedicare alla sua figlia minore la suite d’ingresso, scrive: «la solitudine a gennaio / aiuta a togliere l’erba cattiva / dal campo dell’immaginazione / per favorire la messa a dimora del futuro». È un’allegoria della vita morale, ma anche della poesia. Al volgere dell’anno – tempo inevitabile di bilanci, anche esistenziali - si rende necessario disinfestare il campo, liberare l’immaginazione dalle zavorre del vissuto, quando questo non sa farsi materia di poesia. Si deve entrare in un tempo interiore, agostiniano: il tempo della riflessione, dell’introspezione. La solitudine è la condizione che lo consente, all’epoca di Agostino come nella nostra, anche se gli spazi sono resi più difficili. È anche il tempo di riconoscersi e di misurarsi in una nuova identità: quella paterna, appunto.
Allora non sorprende che le epigrafi che fanno da viatico a questa raccolta appartengano proprio a Ungaretti e a Octavio Paz, ovvero a due poeti girovaghi per antonomasia, per quanto diversi tra loro. Con un sostanziale distinguo, però: la geografia di Raffaele Niro è una dimensione tutta interna, affettiva. Quanto si narra nei suoi versi risponde a una condizione sentimentale. Mentre quei due maestri inseguono l’uno i deserti della modernità e l’altro la sua urbanità cangiante, Niro sceglie la strada di un possibile spostamento di valori, e si arrocca nell’altalena incessante di astratto e concreto, aprendo di fatto un varco («una porta», scrive Paz) al pensiero, nel pensiero dell’attesa. Del resto, è uno dei modi possibili di declinare il proprio girovagare: «tra le dita si è incantato il tempo», «il tempo che si crede d’attesa / esce da un ricordo col profumo di futuro», leggiamo in poesia d’attesa. Allo spazio, questo poeta ha prontamente sostituito il tempo. Non è una strategia certo nuova, nella storia della tradizione lirica, della nostra in particolare: ma Niro aggiunge, di suo, questo proiettarsi nel futuro, questo fare della memoria non solo uno straordinario vettore affettivo, come ci insegnava Leopardi, ma soprattutto un cortocircuito per cui il passato si lancia in avanti. È un’altra, neppure troppo sotterranea allegoria generazionale, con tutto il carico di responsabilità che possiamo supporre: «perché l’attesa di un figlio / non si conclude / con la sua venuta al mondo».

Raffaele Niro, L’attesa del padre, Transeuropa 2016, e. 11,90.


le mani del figlio

le mani di mio figlio
aprono l’asola del mattino
con la disinvoltura della luce

è lui che cuce l’alba
trasformando materia scialba
in un pezzo di universo
che inizia qualcosa di possibile

martedì 15 agosto 2017

A proposito del Libro degli amici



Ciò che a prima vista appare come una semplice raccolta di ricordi, una serie di rievocazioni, non tarda a rivelarsi come un oggetto complesso e difficile. Più ci si addentra nelle pagine di questo Libro degli amici, edito da Neri Pozza, più si colgono il disegno, la struttura profonda che lo animano. Il genere a cui appartiene, quello della memorialistica, lo comprende fino a un certo punto; non si tratta, in ogni caso, di un genere principe delle nostre lettere, anche se vanta esempi più che illustri, soprattutto – questo è interessante – nel secolo dei lumi. Penso a Goldoni, a Vico, a Casanova, ad Alfieri, solo per citarne qualcuno tra i più evidenti.
Dunque, nella nostra tradizione dev’esserci stato – e forse c’è ancora -  un legame tra ricordo e ragione, anche se l’autobiografia, o la biografia di per sé, spesso simulano o dissimulano una certa finzionalità, ovvero una propensione al racconto. Del resto, come ci insegna Leopardi, fingere, che deriva da fictio, vuol dire mettere in moto un racconto del pensiero, nel pensiero: io nel pensier mi fingo.
Sono questioni che ci introducono al primo dei quattro termini che ci vengono incontro dal Libro degli amici e che potremmo così individuare: ritratto, tempo, memoria, cornice. Partiamo dal primo. Quella del ritratto è una lunga storia che tutti conosciamo, tra arte e letteratura, ma quello su cui non si riflette mai abbastanza, anche di fronte al più realistico dei ritratti o a una fotografia, è ciò che l’autore intende illuminare attraverso il suo dosaggio della luce. Un ritratto è sempre una prospettiva, soprattutto se tra il ritrattista e il suo soggetto s’insinua un latro concetto cardine, su cui, invece, da sempre si è riflettuto: quel gemello dell’amore che risponde all’amicizia. Questo è davvero, in ogni senso possibile, Il libro degli amici. Lo si avverte dalla confidenza, che qui non è questione di tono, quanto di modi della descrizione. C’è, dietro questi ritratti, un collante comune, una dimensione sola e unica: Roma. Leopardi annotava nel suo zibaldone che «In un luogo piccolo vi sono partiti, amicizia non v’è. Amicizia non può essere che in città grandi, o pur fra persone lontane» (8 luglio 1829). E in precedenza aveva sottolineato che l’amicizia è «fra uguali» (3 novembre 1821), e che la differenza di età e di esperienza non sono elementi a sfavore, al contrario: «È oggidì meno verisimile l’amicizia fra due giovani che fra un giovane e un uomo di sentimento già disingannato del mondo e disperato della sua propria felicità» (20 gennaio 1820). La ritrattistica di Pecora si muove esattamente su queste linee, e nella maggior parte dei ritratti questa è stata la realtà delle cose. Dei dieci ritratti maggiori di questo libro, solo i rapporti con Dario Bellezza e con Amelia Rosselli possono considerarsi tra coetanei, e quello con Bellezza è stato tutt’altro che facile.
Uno studioso che scriva di un autore mirerà, per quanto possibile, al massimo di obiettività, ma per un autore che parli di un altro autore il tasso di soggettività è sempre più alto. Si finisce inevitabilmente per dire qualcosa di sé. «Il ritratto appartiene al ritrattista», avverte Pecora fin da subito, il che vuol dire che i suoi sono anche degli autoritratti per interposta persona, delle proiezioni, delle rifrazioni, da parte di chi, nell’amicizia, scorge soprattutto l’amore: «Spesso si è trattato di un vero innamoramento. [… ] Chiamo amici quelli che nomino ed evoco in queste pagine. Per lunghi o per brevi periodi di tempo ci siamo parlati, accompagnati, cercati, trovati».
Tempo. È un tempo lineare, biblico, quello di Pecora. Sembrerebbe non tornare più indietro: questa società culturale qui riunita, tutta insieme, sembra muoversi come dietro un velo. Sembra, appunto.  Pecora sa che tra il tempo lineare e quello ciclico della natura e del mito sta un altro tempo: l’infinito che torna nel finito. Un evento, nella nostra vita votata alla finitudine, può ripresentarsi infinite volte. È l’ipotesi che Nietzsche, autore carissimo a Pecora, definiva come l’«eterno ritorno dell’uguale». Se provo a spostare la metafora dall’ambito filosofico a quello letterario, chiedendo aiuto a un altro autore caro a Pecora, ma distante anni luce da lui, questo tempo della rievocazione si chiarisce ulteriormente. In chiusura dei suoi suggestivi, straordinari saggi su Dante, Borges, richiamando il canto di Ugolino e il celebre verso «poscia, più che il dolor, poté il digiuno» (su cui ancora dopo sette secoli si affannano gli esegeti), afferma che l’ambiguità di quel verso (Ugolino ha mangiato o no i suoi figli?) è in verità un falso problema, e che proprio nella sospensione di quell’ambiguità Dante ha voluto consegnarci la figura del conte della Gherardesca; il quale, a ogni nostra lettura, torna sulla scena a recitare per noi la propria tragedia. Come Paolo e Francesca, come gli altri personaggi: riapriamo le loro pagine, ed essi si rianimano per noi.
Dunque ciò che caratterizza un testo letterario da tutti gli altri sarebbe proprio ciò che i teorici chiamano il suo ri-uso; e il ri-uso rende il tempo finalmente reversibile, il tempo della cosiddetta realtà e quello percepito; il tempo dell’esperienza e il tempo interiore di Agostino e poi di Petrarca. Allora si spiega che l’attenzione del ritrattista non colga tanto gli aspetti fisici, a cui Pecora è davvero poco o per nulla interessato (tranne di fronte alla bellezza conclamata di Anna Amati e di Elsa de’ Giorgi); lo appassionano di più i caratteri, gli umori, le psicologie. E, naturalmente, gli ambienti. Tutti i grandi ritratti si muovono “in situazione”, non ci sono mai primi piani, ma scene che si svolgono all’aperto o nel chiuso domestico.
Memoria. È finanche ovvio scomodare Proust. Perché Il libro degli amici è anche una «ricerca del tempo perduto». Non del tempo perso, che non si rende mai reversibile, ma di quello trascorso nell’affetto: questo ritorna sempre, in queste pagine. Perché la memoria è un potentissimo filtro affettivo. Anche quando siamo noi a provocarla, c’è sempre una forte componente involontaria. La memoria pesca dove vuole lei, basta inzuppare una madeleine ed ecco che la ricerca del tempo perduto prende avvio e la nostra vita – o meglio, il ricordo della nostra vita – prende forma nella nostra mente e si sostituisce al presente, lo sospende.
Siamo davvero noi i registi di tutto questo, come vorrebbe Pecora? Sì, ma fino a un certo punto. Forse, più che i registi, siamo i provocatori, o i provocati. Alcuni di questi ritratti nascono da occasioni, e l’occasione è, da sempre, un formidabile vettore espressivo, per Pecora. Lo ha ricordato di recente Roberto Galaverni sul «Corriere della sera», citando quest’autore come «capace di notevoli poesie d’occasione». L’occasione provoca la memoria. Accade per Wilcock, il cui ritratto si lega a un lontano convegno di studi; per Francesca Sanvitale, il cui ritratto fu scritto per la prestigiosa rivista «Belfagor», come un precedente ritratto di Penna.
Pecora torna su quelle pagine, le riscrive, le aggiorna. Le consegna all’unità del libro. Così veniamo all’ultimo termine, cornice.
La struttura del Libro degli amici è chiara. Una breve premessa, in corsivo, che dà voce all’autore piuttosto che al narratore; poi un ampio capitolo introduttivo, dove scorrono molti personaggi tra arte, musica, letteratura, scienza. Seguono i dieci ritratti maggiori. Ancora una brevissima apparizione dell’autore in corsivo, quindi un altro ampio capitolo conclusivo, assai disincantato. È una vera costruzione a cornice, che incastona le dieci narrazioni più ampie in un ambiente ancora più ampio. Solo che, al contrario di quanto accade nella nostra tradizione di cornici (pensiamo a Boccaccio o a Basile), abbiamo qui un unico narratore interno, un po’ come la Sherazade delle Mille e una notte. Eppure, come i narratori del Decameron, Pecora ha scritto da una condizione di isolamento, quasi forzato da una malattia di stagione. Gli ingredienti della struttura a cornice sembrano esserci tutti e come in ogni opera incorniciata, a chiusura del libro si avverte l’esigenza di proseguire: i racconti sono finiti ma se ne vorrebbero ancora, tanti altri ancora. Perché di quel mondo, spazzato via dalla caducità come dalla rivoluzione digitale, che ha radicalmente mutato anche la natura dei nostri rapporti e la nostra capacità di averne e soprattutto di mantenerne, sentiamo in chi è rimasto sospeso tra vecchio e nuovo una potente malinconia.
Pur avvertendone i limiti, che solo un uguale poteva puntualmente registrare sottraendo questi personaggi al loro stesso mito, per farne di nuovo umani in carne e ossa; pur avvertendo questi limiti, quel mondo si attesta come qualcosa di unico, che solo la forza della letteratura torna oggi a restituirci attraverso le parole di Elio Pecora. Allora ricordare non è più soltanto una necessità,ma un imperativo, in «troppi anni senza lasciare tracce», leggiamo, in chiusura, tra amarezza e gratitudine.

lunedì 7 agosto 2017

AILANTO n. 47 - Su Maria Borio




Non c’era bisogno che Maria Borio, nel licenziare con L’altro limite la sua prima prova organica, scrivesse nella nota finale che queste scritture fanno parte di un più ampio progetto: l’idea della costruzione si avverte fin dalle prime pagine, nel disegno del libro si intuiscono le tracce di una sinopia, di un vasto affresco mobile, però, che somiglia più a un work in progress. Del resto, ogni progetto che non risponda a tale movimento, in letteratura è destinato a sconfessarsi. Così quella che potrebbe sembrare una plaquette, un’anticipazione di qualcosa che deve ancora compiersi, si mostra in realtà con la tenuta di un libro, per quanto aperto, sospeso su un’incessante tensione proiettiva. C’è, quasi sempre, uno «schermo», o un susseguirsi di scene come dietro una quinta teatrale. L’autrice ci avverte che quello schermo è il «grande vetro» dietro cui sintetizza la reificazione del «mondo digitale», e questa è la vera novità: Maria Borio congeda il mondo della poesia analogica, per restare nella metafora tecnologica, che appare come relegato dietro il velo di quello schermo, e da lì proietta, o si lascia proiettare, le nuove immagini. Insomma, la scrittura si è fatta digitale non perché è mutato il suo supporto, ma perché quella è la sua nuova, ancora indefinibile sostanza.
(Non so se “reificazione” sia il termine esatto. Presuppone ancora una visione dalla parte di una realtà analogica, una capacità critica che invece il poeta affida ora alla melmosità delle sue parole, o di cui, probabilmente, non vuole essere più consapevole. Questa mi sembra la prima opera davvero digitale, in poesia, affacciata su un presente impietoso).
Non sorprende, allora, anche una certa metatestualità, un riflettere interno più sui modi che sulle ragioni della poesia. Ad esempio la questione della forma, che passa dall’ambito della realtà a quello della pagina, come problema che non si risolve in un ritorno alla Gestalt, perché digitale vuol dire anche virtuale, e ogni processo poietico finisce per coincidere con se stesso, in una crescente autoreferenzialità. Si mostra per ciò che è, un continuo decostruire e ricostruire il mondo, a patto di riconoscere, appunto, che quella realtà non è fatta solo di esperienza; o meglio, il concetto stesso di esperienza si è inevitabilmente corroso e ampliato, e ciò che viene dallo «schermo» è altrettanto opprimente e concreto di quanto è ancora possibile sperimentare attraverso gli altri sensi, che non siano la vista e l’udito. Spesso in questi versi, che campiscono come cellule isolate in un potente e inarrestabile fluire analogico, e che non riesco più a chiamare poesie nel significato tradizionale, perché la costruzione nega la forma, come a circuirla, a blandirla per poi disfarsene, non senza una certa crudeltà, è proprio la scrittura, nel senso più ampio e moderno, a dominare. Non potrebbe essere altrimenti, perché in questo primo libro, o tappa, necessariamente doveva agire la foga della ricerca e della definizione. E con il problema della forma doveva altrettanto porsi quello del soggetto, forse qui inteso più come prospettiva, come luogo da cui osservare e raccontare, piuttosto che come entità lirica. E dunque, come il primo uomo che si affacci su questa landa ancora indecifrabile, il poeta va ri-nominando le «cose». Maria sa bene che in poesia questo termine non significa nulla, che spesso è un espediente, avrebbe detto Verlaine, di bassa cucina. Ma proprio esasperandolo ne fa il veicolo di una semantica nuova, di una lingua che si sta plasmando, ed è ancora di là da venire.

Maria Borio, L’altro limite, LietoColle 2017, e. 13.

Sembra quasi che tu non abbia vissuto
tutti gli anni sconnessi
dopo la rivoluzione, o l’ipocrisia
ingenua di invecchiare
- forse questa gabbia,
la sicurezza, o un pezzo
di vita come carne comprata.
Se sapessi quale filo invisibile,
quale corda tesa e bugiarda…
anch’io sotto l’alluvione
sotto al peso incalcolabile?
anch’io vorrei smettere di dirmi
io.