Scrive
Biancamaria Frabotta, nella densa prefazione a La città che ti abita di Giorgio Ghiotti, che «sono così pochi i
poeti nativi di Roma nella nostra precarietà di esuli, di emigrati, di
spatriati, che quando ce ne capita uno è meglio non lasciarselo sfuggire». È
vero, la capitale è più una città di poesia che di poeti; per questo, «quando
ce ne capita uno», non vengono a mancare attenzione e curiosità, e quasi mai ne
restiamo scontenti. È anche il caso di un talento precocissimo come quello di
Ghiotti, che a ventitré anni (l’età in cui un altro enfant prodige, Valerio Magrelli, esordiva con Ora serrata retinae) congeda la sua seconda opera in versi, dopo Estinzione dell’uomo bambino del 2015.
Una distanza ravvicinatissima tra le due prove suggerisce una certa contiguità
tematica ed espressiva, puntualmente colta nelle osservazioni della prefatrice,
a cui rimando. È come se, di tappa in tappa, Ghiotti stia circoscrivendo, nella
forma della poesia, un universo affettivo, amicale, domestico, quello a lui più
prossimo, cercando di attingervi quell’essenzialità in cui far confluire
necessità comuni, piccole verità condivise, condotte alla disamina del tempo.
Proprio «cuore» e «tempo», quest’ultima nelle sue svariate declinazioni, sono i
termini che più ricorrono in queste nuove poesie.
«Certo,
il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà.
Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto». Così Manzoni,
nell’ottavo capitolo del suo romanzo. E veniamo al centro della questione che
fa da filo conduttore ai testi di Ghiotti. Non so se avesse presente questa
frase, in cui l’affettività si misura con la temporalità, fra passato e futuro:
la poesia non conosce presente, del resto. Perché «cuore» e «tempo», in questo
libro, intrattengono un rapporto dialettico. Si affrontano, si scontrano,
prendono coscienza l’uno dell’altro. E lo fanno attraverso un susseguirsi
scenico, di sequenza in sequenza, come se fossimo chiamati ad assistere a delle
brevi pièces, che i personaggi di una
vita, per quanto esigua, vengono a recitare su un palcoscenico di
micronarrazioni. Ma è davvero esigua una vita di ventitré anni, quando il mondo
affettivo che vi si dispiega appare così inevitabilmente ricco, agito da grandi
dolori come da minimi sussulti, e soprattutto da continue scoperte? In un
panorama di giovani e dottissimi versificatori, che forzano la scrittura verso
una maturità fittizia, ancora lontana dal compiersi, Ghiotti è l’ultimo poeta
bambino in grado di stupirsi della vita, e di raccontare il proprio stupore con
l’esattezza della grazia. In filigrana ritrovo qualcosa di Penna, le sue
avversative, il suo fraseggio, ma senza epigonismo: in filigrana, appunto, come
a dimostrare l’esercizio di una lenta assimilazione. E la ricerca di varchi del
primissimo Montale.
Anche
Ghiotti è un lettore dotto, prima che poeta e narratore. Il miglior Novecento
si raccoglie dietro le sue parole e sarebbe poco utile provare a tirar giù altri
nomi, che stranamente (come accade spesso alla poesia romana) non
apparterrebbero neppure agli immediati dintorni dell’urbe. Quando si mettono
cuore e tempo in una stessa poesia, si muovono ampie tradizioni, e alla fine,
tra i due, nessuno vince, perché non esiste che un «sentimento
del tempo». Ma per Ghiotti questo non s’identifica tanto nella «tragedia
dell’infanzia» che pure Frabotta rievoca in apertura, quanto nel perdurare di
un’adolescenza che brucia e brucia, come vuole il suo etimo (adolesco) portandoci verso nuove forme e
nuove acquisizioni. E lasciando, nella cenere, la traccia di quel che siamo
stati. Ha ragione Ghiotti: c’è un «lordo» e c’è un «netto», nei nostri bilanci
affettivi, un tempo pensato e un tempo vissuto, qualcosa che si perde, e altro
che si salva per sempre.
Giorgio Ghiotti, La città che ti abita, prefazione di Biancamaria Frabotta, Empirìa
2017, e. 12.00.
Vorrei
trattenerli per intero, ora, i ponti
interminabili
di agosto, le sagome indistinte
di
urla fuori dalle scuole, gli archi
spalancati
sulle piazze, il riposo dei cortili
per
lui che mai del tempo ha fatto scorta
e
quello speso dietro a un farsi e disfarsi
di
giorni chiamarlo per nome, ritrovare
nel
suo farmi battaglia d’allora
lo
spiraglio oltre il silenzio di adesso.
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