sabato 29 aprile 2017

AILANTO n. 42 - Su Francesco Iannone



Non so quanto – e fino a che punto – la poesia di Francesco Iannone, vincitore del premio «Subiaco Città del Libro», sia pienamente ascrivibile a una condizione lirica. Possiamo estendere la denotazione di genere, e farvi rientrare tutto quanto non sia visibilmente sperimentale, ovvero non scorra lungo quel versante di ricerca “oggettiva” o più propriamente linguistica che torna a nutrire, fuori tempo massimo, il più recente avanguardismo, ma anche in questo caso la sua scrittura desta più di una perplessità, risultando davvero poco riconducibile ad altre esperienze coeve, soprattutto spigolando all’interno della sua generazione. A condurre il lettore verso regioni altre da quelle del dispiegamento dell’io, del ripiegamento solipsistico, della facile elegia o del diario intimo, contribuisce anzitutto una certa gamma lessicale, un linguaggio che potremmo dire di frequenza, e che si presta alla creazione di immagini originali, scarsamente o per nulla rilevabili nelle esperienze dei suoi coetanei.
Parlo del linguaggio della fiaba. Nella neppure troppo vasta «planimetria» dei versi raccolti in Pietra lavica, apparso lo scorso anno da Aragno, si dispiega un tessuto di particolare densità metaforica. Ci imbattiamo in «bambini», in «nani», in «giganti», in una «vecchia» che «semina il grano», in «uccelli» che beccano insistenti «il centro / di qualcosa». E intorno a queste immagini aleggiano continuamente il «mistero» e il «miracolo». Ce n’è abbastanza, credo, per circoscrivere un territorio espressivo compiuto e riconoscibile, che guarda al vasto retaggio dell’infanzia, recuperando lacerti ancora in grado di costruire un possibile discorso intorno al tema dominante dell’amore. Tema che appare e scompare, con insolita energia carsica, e che si lascia declinare in modo obliquo, anche quando viene chiamato espressamente sulla scena del testo, scontrandosi con il suo antagonista, la «solitudine»: «Il mio bene / è un portone che geme / chiuso a chiave / nel suo secolo di solitudine», scrive Iannone avviandosi verso la fine del suo libro.
Il verso precipita sulla pagina da una zona di inespressività, ammantandosi di un certo ermetismo; e le metafore frequenti rinviano a una sicura scrittura di tensione, di cui partecipano oggetti magici, caricati di ulteriori valori simbolici. Divengono insomma emblemi, o enigmi, che delimitano un fraseggio breve, oracolare. Nel repertorio delle immagini compaiono anche «Dio» e gli «angeli», ma non sono quelli delle Scritture: somigliano invece a quelli dei proverbi, che delle fiabe condividono la stessa marca antropologica. Iannone ha trasfigurato una tematica tipicamente lirica come quella amorosa e l’ha portata su un altro piano; ha lavorato su una simbolizzazione arcaica che rinvia alle immagini della terra, perfino alla durezza e alla lucentezza di quanto ne fuoriesce (di qui il titolo). Così la vita intera può mostrarsi come un «gesto paziente / della maturazione» e un paesaggio di «neve» diventa il grande foglio bianco su cui raccontare l’improvviso bagliore di una consapevolezza.

Francesco Iannone, Pietra lavica, postfazione di Giovanna Rosadini, Aragno 2016, e. 10.00


Ricevo sul cranio questa pioggia
l’acqua decide sentieri fra i miei capelli  e le ciglia
la mia domanda è un albero altissimo
che io vedo precisamente
sdraiato nel suo sorso di cosa diffusa e calma.

Spezzi il pane l’uomo dalle mani grosse
condivida la sua fame con me.