domenica 21 agosto 2016

AILANTO n. 34 - Su Maria Clelia Cardona



Quando accade di leggere le poesie di Maria Clelia Cardona, la prima impressione è sempre quella di una certa patinatura classica. In questa direzione si sono spesso mossi i suoi interpreti più attenti, da ultimo Giovanni Tesio, che firma la densa postfazione alla nuova raccolta, Di fiato e di fuoco, apparsa nelle Edizioni Coup d’idée nella bella collana «La costellazione del Cigno», curata da Stefano Agosti. In effetti anche in questi versi recenti la presenza dell’antico e del mito (ché di questo si tratta, e non sempre vengono a coincidere con questa o con quella idea di classicità) si conferma come un tratto non secondario della poesia di Cardona; ma sarebbe già sufficiente l’epigrafe da Eliot («Non voglio sentir parlare della saggezza dei vecchi, bensì della loro follia»), tratta da East Coker, uno dei celeberrimi «quartetti», a suggerire qualche altra ipotesi, o per lo meno a calibrare il giudizio.
Eliot è sempre una spia interessante, quanto insidiosa per ogni interprete: ma è evidente che con lui siamo posti di fronte a una modernità critica, forse già agonizzante nel momento del suo massimo splendore, ammesso che di questo si tratti: il Novecento ha una luce tutta sua, un po’ infera, fatta di bagliori, di intermittenze, di lampi di guerra. Una luce di trincea, sotterranea (vale la pena ricordare che l’ultimo libro di racconti di quest’autrice, del 2013, si intitola Sottoroma). Eppure questo carattere, ctonio e sulfureo, ha consentito al «secolo breve» di affacciarsi dentro se stesso come forse nessun altro secolo prima. Non è un caso che alla citazione eliotiana faccia seguito un'altra proprio dall’Inferno. Siamo nel canto di Ulisse. Insomma, a volersi davvero conoscere (o ri-conoscere, che è l’arte vera del poeta), ci si imbatte inevitabilmente nell’antico e nel mito. La conoscenza, di sé e dell’altro-da-sé, è forse il vero leitmotiv del libro. Come Eliot strumentalizza l’antico, lo fonde con il moderno, inseguendo i propri flussi analogici e atemporali, così Cardona evita di rivestirsene, e affronta direttamente il cuore della questione, neppure attualizzandola, ma portando alla scoperto un’attualità insita nella domanda che tutti ci siamo posti: perché Ulisse è ripartito? O meglio: chi o cosa può averlo indotto a quella decisione che per Dante si rivelerà estrema e fatale, facendo per sempre di lui il più presuntuoso tra gli eroi? E in questa nuova tragedia che si annuncia, quale sarà il ruolo di Penelope?
Proprio a lei Cardona cerca di dare voce. Penelope, la più silenziosa tra le protagoniste omeriche, finalmente può innalzare, da parte sua, Il poema del non ritorno. E può farlo, come scrive il poeta, riconoscendo il «canto della non ragione». È una scrittura al negativo, la sua; l’ammissione di una distanza, il tarlo dell’estraneità. Ulisse è destinato come sempre a «intenebrarsi» (bellissima immagine che mette a fuoco tensione e destino di questo personaggio), quella che persegue è una conoscenza che guarda al fondo e non alla complessità della natura, non all’orizzontalità del mondo fisico. Che, altrettanto inevitabilmente, si riduce a un sistema di simboli. Con questa consapevolezza, proiettata nell’animo di una donna il cui stato è andato già ben oltre la delusione, Cardona riconosce l’«entropia» dei rapporti amorosi, disposta perfino ad ammettere le insidie dell’infinito quando si tramuta in un’ossessione, e dunque in una cella. In questa «follia» un po’ nietzscheana che pervade la sua Penelope riconosciamo un possibile punto di fuga, e forse un riscatto, una salvezza anche nell’ironia, che è certo estranea al mito se non in forma di beffa. Odisseo è davvero diventato il «nessuno» da aspettare: niente più di un calembour.

Maria Clelia Cardona, Di fiato e di fuoco, postfazione di G. Tesio, Edizioni Coup d’idées 2016, e. 14.00

Chissà verso dove

Ora
di te più non so, che come sempre
t’intenebri  e ti chiama e disegna
quel profilino d’ombra che eri.
Oh, disperso, vagolante fra le cianfrusaglie
dei miei pensieri – come sempre ci distrae
il dolore per poi meglio afferrarci di sorpresa –
un alcione marino che si posa sul davanzale
e subito se ne vola
chissà verso dove.