sabato 3 novembre 2018

AILANTO n. 55 - su Michele de Virgilio





La poesia è «una rossa signora / scorta per caso / nella fretta di un’ora» e viene a dirci cose ovvie. Le cose, cioè, da cui siamo talmente circondati, e a cui siamo talmente abituati, da non riuscire a scorgerle più, e a non dirne.  Il vero mistero della poesia è in questo, lo ripeteva da ultimo un lettore d’eccezione come Luciano Anceschi in un saggio importante e non facile, Gli specchi della poesia. Traggo questi versi dal libro di Michele de Virgilio, Tutte le luci accese, che con una prefazione di Paolo Di Paolo raccoglie le poesie scritte tra il 2011 e il 2017. De Virgilio è un poeta del Sud, lo ribadisce più volte: per quanto stereotipo, il suo territorio, ancora una volta causa di delusioni e desolazioni, di fughe e partenze coatte, si offre come una metafora potente, al di qua però di quanto è accaduto dall’altra parte del regno borbonico, ovvero oltre il faro di Messina, dove la metaforicità, come ci insegna una lunga e felice tradizione, è davvero spinta al massimo. De Virgilio invece si trattiene all’interno di un territorio tutto personale, compreso tra gli affetti familiari, gli amori, le esperienze di lavoro (è tecnico della riabilitazione psichiatrica e dunque frequenta e conosce a fondo i percorsi della mente) e i viaggi. In questo quadrato perfetto, dove nessun lato sembra predominare sull’altro, si sostanzia la sua scrittura, prende corpo (è proprio il caso) la sua poesia, nella forma di quella «rossa signora». Allegoria o allucinazione? Non importa, il risultato non cambia: la fisicità è una componente essenziale in questo libro, dove il corpo è paesaggio esattamente come il paesaggio si fa corpo. Il Sud «è una sala da parto immensa».
Si disegna, come giustamente suggerisce il prefatore, una sorta di mappa geografica, composta di luoghi e città, di acque che percorrono inesorabilmente gli ambienti carsici di una mente fertile, disposta ogni volta ad assorbire l’osservato, a reinventarlo e dunque a farlo esistere. Per questo la memoria ha un ruolo primario in questa scrittura: ne è l’autentico motore, ma non nel senso proustiano, conservativo, di recupero di un «tempo perduto», quanto di un costante riplasmare il paesaggio. La poesia, ricordava Paz, non è l’esperienza, ma la metafora di un’esperienza. E ogni metafora è un ricordo. È questo, direi, il vero tratto “meridionale” di de Virgilio, ciò che lo accomuna, per esempio, alle scritture di un Gatto o di un Bodini. Dunque anche le allegorie o le allucinazioni fanno parte di questo percorso: la «vita», termine chiave per questo poeta, si fa «limpida» quando la bellezza esclude il mondo, ovvero quando comincia il lavoro della scrittura. Quando la poesia agisce, quando l’autore preme «il pulsante dello scrivere» per illuminare «i sottoscala del cuore».
Tutte le luci accese potrebbe allora tradursi con “tutti i motori della poesia accesi”, come con la visione di un paesaggio composito e felice. Certo, c’è anche lo «scontento» che si registra nell’ultima sezione, ma sappiamo che fa parte del gioco. Sostanzialmente de Virgilio è un poeta felice. E consapevole: «Io viaggio per non diventare cieco», recita l’epigrafe iniziale da Josef Koudelka. E allora questa fisiologia della visione, che sa farsi insieme introspezione e invenzione, ci riporta, con tutta la freschezza di questi versi, al moto originario della poesia, al suo guardare il mondo con uno sguardo ancora fanciullesco, mentre ci si interroga se il futuro sarà «un tuono / o un faro spento».
Michele de Virgilio, Tutte le luci accese, pref. di Paolo Di Paolo, Ladolfi 2018, e. 10.

Ultima preghiera
                                       ad A.M.
Tu che mi guardi,
che mi raccomandi di non fare tardi,
provocami la fede, cospargi
di baci nobili i miei giorni di luce
elettrica,  dimmi chi sono,
da dove vengo.
Se il mio futuro è un tuono
o un faro spento.

giovedì 1 novembre 2018

AILANTO n. 54 - su Anthony Hecht




Per le cure di Moira Egan e Damiano Abeni, con un’introduzione del suo maggior esegeta, Joseph Harrison, l’editore Donzelli pubblica una corposa antologia di uno dei più importanti poeti statunitensi del secolo scorso, Anthony Hecht.  Nato a New York nel 1923, scomparso a Washington nel 2004, Hecht è stato certamente tra i testimoni più attendibili dei rapporti storici all’interno delle culture occidentali, essendo vissuto, tra l’altro, in Italia grazie a un lontano Prix de Rome. Ciò nonostante, il suo nome non è certo tra i più riconosciuti, nel nostro panorama editoriale  della poesia angloamericana, forse dominato da un’eccessiva attenzione per le origini (Whitman e Dickinson), per i modernisti (Pound, Williams, Stevens, Marianne Moore), gli autori Beat. Sporadiche, in passato, le apparizioni di poeti ormai classici come Berryman o Cummings, e di altri come Creeley, Olson, Crowe Ransom, Penn Warren, Ashbery. Perfino di Lowell. Le più recenti e autorevoli antologie risalgono già a più di un decennio e ancora molti nomi importanti, affermatisi nell’ultimo scorcio del Novecento, mancano all’appello, soprattutto tra le donne, ancora confinate alla triade Plath-Sexton-Bishop: meritoria, quindi, l’attenzione che la collana di poesia di Donzelli riserva ai poeti d’oltre Atlantico, a partire da Mark Strand fino a Philip Schultz.
Non so se una certa resistenza sia dovuta alla nostra maggiore affiliazione, nella prima metà del secolo breve, alla poesia soprattutto francese e spagnola, che tanto accese gli entusiasmi degli ermetici; mentre quella di lingua inglese restava più in disparte. La costruzione come architettura del testo e una certa dose di fantasioso intellettualismo nella realizzazione delle immagini ci hanno reso a lungo più figli di Valéry e di Lorca che di Frost. Così la tradizione narrativa e fluente della ballata americana ha dovuto attendere proprio la sua decostruzione in ambito beat per potersi paradossalmente far riconoscere e apprezzare, pur isolandosi a una certa distanza dalle soluzioni cercate dai nostri poeti; non a caso anche nell’ambito dei traduttori, tra i quali mi piace ricordare la felice eccezione di Roberto Sanesi.
Le ore dure è il titolo di quella che con ogni probabilità resta l’opera maggiore di Hecht, e che i curatori hanno scelto per questo florilegio italiano. Non era impresa da poco quella di rappresentare la complessità di un autore come Hecht nello spazio di un unico volume, ma lo sforzo degli editori è stato ampiamente ripagato. L’immagine che ne viene è quella di un poeta che padroneggia al massimo livello le strutture sintattiche della sua lingua, riplasmandole a suo piacimento; di un vero virtuoso della metrica (ciò che rende ancora più arduo il compito del traduttore), che esercita sapientemente il proprio orecchio così come tende il proprio sguardo alle altre modalità della rappresentazione, come la pittura. Questa capacità di sondare a tutto campo le potenzialità della lingua fa di Hecht un abilissimo inventore di metafore, di analogie, di suggestioni per cui il mondo empirico si mostra come un unico, potente serbatoio di immagini. Perfettamente consapevole della responsabilità dell’espressione, di ogni espressione, Hecht atteggia la sua scrittura secondo il rigore che gli viene dalla vita, anzitutto, come dalla frequentazione di autori profondamente ispirati da un proprio codice morale, come Tate o, più lontano, George Herbert. In questo modo ci viene mostrata, con lucido aplomb, la fenomenologia del dolore, portata sul piano di un’epifania in negativo, che nulla può rivelare oltre se stessa; ovvero oltre le immagini che la memoria sa recuperare, senza aggiungere un grammo di senso che non sia già nel cuore stesso dell’immagine, nel suo farsi portare allo scoperto, in una mis à nu spesso straziante.
Anthony Hecht, Le ore dure, a cura di M. Egan, D. Abeni, introduzione di J. Harrison, Donzelli 2018, e. 17.

Da L’uva
E tutte quelle piccole borse di vitrea trasparenza,
quei grappoli di pianeti, porgevano la guancia orientale
alla luce del sole, ciascuna con un morbido
gonfiore meridiano dove la luce più sottile
misteriosamente scemava nell’ombra,
ai freschi recessi, ai tranquilli e tristi azzurri
che facevano da cuscino al Beau Rivage.
E mentre guardavo riuscivo quasi a vedere la luce
spostarsi lentissima su quelle semplici superfici,
e a sentire il sole che si muoveva sulla mia pelle
come un ghiacciaio caldo. E mi è sembrato di capire
nel mio sangue il significato del tempo siderale
e ho capito che la mia piccola vita era giunta all’apice.