giovedì 31 dicembre 2015

AILANTO n. 26 - Su Edgardo Dobry





Edgardo Dobry è una delle voci più significative della poesia in lingua spagnola. Argentino di nascita, a vent’anni si stabilisce a Barcellona e lì è rimasto a insegnare. Con la sua madrepatria condivide un carattere particolare, che è quello di volgersi alle grandi tradizioni letterarie europee, sulla scia di autori come le sorelle Ocampo, Bioy Casares, Wilcock, e naturalmente Borges, solo per citarne alcuni. Lo sguardo di quella regione del mondo si fissa in modo naturale alla cultura del vecchio continente, e la vita stessa di Dobry è lì a testimoniarlo.
Il suo interesse per la letteratura italiana, ad esempio, lo ha portato a tradurre autori del calibro di Sandro Penna e Giorgio Caproni; un’attenzione speciale Dobry ha riservato anche alla migliore saggistica nella nostra lingua, da Agamben a Calasso. E la nostra lingua non ha mancato di ricambiarlo: nel 2013 è apparso il volume Cose, e ora la traduzione integrale del suo quinto libro, Contrattempo, per la cura di Francesco Tarquini, che firma anche l’introduzione. A pubblicarlo è la collana «i fili» delle Edizioni Fili d’Aquilone, legate all’omonima rivista online, attiva già da diversi anni soprattutto nella promozione della poesia sudamericana.
Contrattempo è il risultato di un progetto mancato, come spesso accade quando un’opera è pensata prima ancora di essere scritta. Le vie e i processi della scrittura, con buona pace delle neuroscienze, restano ineffabili. Ogni volta che proviamo ad agire programmaticamente, l’idea è destinata a essere sconfessata, in tutto o in parte. Ciò non la sottrae comunque alle dovute attenzioni, e il libro si è avvalso, nel suo farsi, di una prestigiosa borsa della Fondazione Guggenheim (c’è solo da augurarsi che iniziative simili, prima o poi, possano prendere piede anche in Italia), ma, come avverte lo stesso curatore, «in corso di scrittura Contratiempo ha preso a slittare fuori della cornice». Che era, sostanzialmente, quella di un racconto fondato su una sostituzione di persona. Un illustre poeta è invitato a tenere una conferenza, ma a causa del traffico non raggiunge il luogo dove avrebbe dovuto svolgersi l’evento. Così l’organizzatore si sostituisce a lui, improvvisando. Di questo canovaccio iniziale, avverte Tarquini, nulla resta nella soluzione finale del libro. Neppure la necessaria temporalità, il rispetto del susseguirsi cronologico degli accadimenti e delle attese. La struttura di Contrattempo, allora, torna a farsi profondamente argentina. Il tempo si confonde e ritorna su se stesso, al di fuori di ogni ordinaria cronologia, come in un racconto borgesiano. E alla fine l’ambizione poematica, che pone  Dobry in linea con gli esiti della migliore poesia internazionale, da Walcott a Grünbein, almeno in questa circostanza, è come recuperata in un cortocircuito che riporta l’autore verso le proprie origini. Dobry non ha scelto di essere il nuovo Odisseo né di narrare l’ultima fase della vita di Cartesio; il suo moto è sinergico, e una piccola storia che poteva avvenire in qualsiasi metropoli del mondo è invece ribaltata, come decostruita (ma non è questo che fa la poesia di fronte a ogni ipotesi di realtà?) e infine restituita come nella conduzione di una grande metafora, coi necessari disordini delle sue immagini. E allora l’ipotesi che Contrattempo sia un’ allegoria diventa più che un sospetto. Un’allegoria non semplice, che Tarquini ha reso con efficacia.

Edgardo Dobry, Contrattempo, a cura di Francesco Tarquini, Edizioni Fili d’Aquilone 2015, e. 15.00

andromaca assomiglia a un cigno sporco
e dà il nome di Simoenta
a un ruscello, modesto surrogato
del fiume asiatico dove fantasticò
la propria infanzia. Com’è triste
quella lente serpe d’acqua!

Lontano da quel rivo
la natura è sminuita,
non è altro che l’ombra
- non altro che l’ombra – di
quella che trascorse.

mercoledì 30 dicembre 2015

AILANTO n. 25 - Su Andrea Orlandi

Non sono riuscito a trovare una sola informazione, in rete, a proposito di Andrea Orlandi. Il suo libro d’esordio, L’allegria veloce, non appare ancora nel sito del suo editore, Nemapress, una piccola realtà con doppia sede tra la capitale e Alghero. Nonostante giungere a un primo libro, per un giovane poeta, sia oggi certamente più facile rispetto a un ventennio fa, è evidente che la visibilità è ancora tutta da conquistare. Eppure questo libro è l’esito, felice, di un premio letterario, il «Premio internazionale di Poesia 13» del Centro Poesia di Roma, che l’autore ha vinto nel 2014 proprio con la silloge che oggi vede la luce.
Conosco Orlandi da alcuni anni, da quando ha iniziato a frequentare la casa di Elio Pecora, ovvero di un autore che non ha mai cessato di riversare sui più giovani la sua esperienza e i suoi consigli. Di questo carattere testimonia il lavoro di direzione per la rivista «Poeti e poesia», della cui redazione Orlandi è entrato a far parte già da qualche numero. Pecora firma anche la prefazione al volumetto (e annette subito l’«obliquità dello sguardo» e la «sospensione della voce» tra gli aspetti primari della scrittura di Orlandi), siglando così autorevolmente quella che ci auguriamo essere solo la prima tappa di un più lungo percorso.
Il titolo che Orlandi ha scelto è molto intriso del Novecento migliore, e il lettore avvezzo a frequentare la poesia moderna potrà trarne le numerose e mutevoli ascendenze; ma ciò che colpisce è la sua natura così intimamente moderna. A seconda della prospettiva da cui lo osserviamo, infatti, ci appare ora come una contraddizione, ora come una fusione di percezioni diverse: un ossimoro o una sinestesia. Siamo, in ogni caso, nei territori di una modernità che non si è mai del tutto spenta o pacata, e che tende pericolosamente i suoi tentacoli (o le sue lusinghe, come una temibile sirena) ben oltre i confini cronologici che forse con troppa fretta le sono stati attribuiti. Orlandi ora sembra schivare, ora piuttosto assecondare questi pericoli: una luce settecentesca, mozartiana, pervade i suoi versi e li solleva dalle sterili secche del diarismo o del compiacimento elegiaco. Una parvenza intermittente, una certezza numinosa si affacciano da queste pagine come ospiti inquietanti e affascinanti: l’equilibrio è probabilmente un’illusione, una meta fallace piuttosto che irraggiungibile. Eppure una gioia, una gioia un po’ folle, alla Nietzsche, si lascia scorgere lungo tutto il percorso di queste poesie, traducendosi in una inesausta ricerca e affermazione di affettività. E tale è la «battaglia» che ostinatamente Orlandi conduce, fin da bambino, avendo ben presto appreso a tendere il suo arco. E sappiamo quanto questa tensione incarni un rigore assoluto, forse anacronistico, ma di cui il poeta continua a nutrirsi come a una fonte necessaria. Oggi ne leggiamo le prime frecce.

Andrea Orlandi, L’allegria veloce, prefazione di Elio Pecora, Nemapress 2015, e. 10.00

Ho due dèi:
nessuna chiesa li professa,
così ogni giorno rischio di essere solo
come non fossi nato.
Da una parte il dio del mondo,
dall’altra il dio di ciò che manca.
All’uno e all’altro devoto
ti aspetto e preparo la cena.

martedì 29 dicembre 2015

AILANTO n. 24 - Su Alessandro Ricci




Una nuova collana di poesia, a Torino, per le Edizioni Coup d’idée. Si intitola «La costellazione del Cigno», e del cigno ha tutta l’eleganza. Il marchio risponde infatti a una casa editrice d’arte, la cui ideatrice, Enrica Dorna, si è avvalsa di Giulio Paolini per il progetto di copertina. All’eleganza si aggiungono dunque il minimalismo, l’economia e la sobrietà del grande artista concettuale.
Accompagnate da un denso saggio di Stefano Agosti, la collana ha proposto quest’anno le poesie di Alessandro Ricci, in una bella scelta antologica che tiene conto della complessità e delle fasi del percorso creativo di questo autore. Quello di Ricci non è un nome sconosciuto ai cultori della poesia; legato al gruppo di poeti che animavano negli anni Ottanta la rivista romana «Arsenale», e in particolare a Francesco Dalessandro, per un certo gusto della sprezzatura che caratterizzava alcuni di quei poeti, compreso il loro animatore Gianfranco Palmery, Ricci ha pubblicato in vita solo due raccolte di versi. Dunque la confezione grafica non è accidentale, ma rispecchia pienamente un aspetto condiviso: rare e misurate apparizioni, spesso in plaquette o presso editori raffinati e appartati, ma tutt’altro che secondari. Anche le Edizioni «Il Labirinto», presso cui usciva «Arsenale», appartengono a questa specie e continuano a rappresentare ancora oggi la vitalità di quell’esperienza, sotto la guida sapiente di Nancy Watkins. Proprio presso Il Labirinto Dalessandro aveva pubblicato una terza raccolta di Ricci, nell’anno della sua prematura scomparsa, il 2004. Recava un titolo suggestivo, I cavalli del nemico, ma non da meno erano quelli delle altre due sillogi, Le segnalazioni mediante i fuochi (1985) e Indagini sul crollo (1989), prefate entrambe da Roberto Pazzi.
La scelta è stata compiuta e allestita dallo stesso Agosti e approvata ancora una volta da Francesco Dalessandro, con la cura e la coerenza che contraddistinguono il suo lavoro (il suo compito?) di tenere viva l’attenzione verso l’opera dell’amico. Comprende importanti selezioni dalle tre raccolte sopra citate, ma anche un’interessantissima anticipazione da una quarta raccolta, L’Editto finale, apparsa nel 2014. Scrive Agosti nel suo intervento che a caratterizzare la poesia di Ricci è un processo di «attualizzazione della temporalità storica». Semplifico un po’ rispetto alle dense pagine del critico e ai suoi autorevolissimi riferimenti teorici, ma è evidente quanto la presenza dell’antico, in questo poeta, sia di ordine per nulla strumentale, nel senso che egli non si serve dell’antico come tema o peggio come moda, ma se ne lascia attraversare portandolo nel nostro presente. Ogni riferimento storico non resta allo stadio di referente culturale, ma permea dall’interno questa scrittura, la modula incessantemente, ne fa, insomma, uno stile autentico e inusuale in coda al secolo delle sperimentazioni, senza alcuna volontà programmatica, ciò che avrebbe significato limitare il lavoro di Ricci a quello di un epigono o di un neo-classico fuori tempo massimo. Basterebbe a testimoniarlo, proprio sul piano dell’attualità, il ciclo dedicato a Giuliano l’Apostata, per farci accorgere quanto nel moderno batta un cuore antico, e quanto l’antico fosse già, suo malgrado, classico. Opportunamente Agosti richiama Housman e Kavafis. E Yeats (ma vedrei meglio Rilke). Aggiungerei, senza allargare troppo il campo, almeno Herbert.

Alessandro Ricci, I colloqui di Elpinti, con un saggio di Stefano Agosti, Coup d’idée 2015, e. 14.00

Giuliano

Allora Giuliano, dopo
una notte insonne ma non
inquieta, all’alba quando
ogni tenda del campo
gli parve una duna come
ben oltre le sabbie,
infinite a perdita d’occhio, lisciate
dal levante che le invadeva, le issava
in un mare di chiaro:
                                           là:
percorrendo piano il perimetro
senza il contegno del capo,
rispondendo con un sorriso
al saluto quasi commosso
delle guardie di turno,
insonnolite all’ora del cambio
- saluti e sorrisi così simili
a quel lontano silenzio vibrato
nell’aria ferma, così diversi
dall’uso, così
nuovi -, pensò alla consapevolezza
e ai sussurri, a quella morbida
e rassegnata complicità,
pensò alle navi
che s’era bruciato alle spalle
i cui fumi forse si mescolavano
al velo gentile dell’enorme
giornata che si gonfiava,
ad altri pochi momenti,
in un solo ricordo adunati,
invadente ma non spietato,
senza rimpianti.
                                  Poi,
pensando a tutti
i suoi uomini che di lì a poco la tromba
avrebbe svegliati, si disse piano
che suoi erano pure l’errore e la colpa
del destino che li attendeva, ma non
del suo, cui mancava
appena qualcosa,
un gesto,
per la piena armonia.

lunedì 28 dicembre 2015

Un pomeriggio a Frascati

Raggiungo finalmente Frascati in un pomeriggio freddo di fine novembre, dopo aver superato gli incagli del traffico, e già preoccupato di arrivare in ritardo. L’appuntamento è importante: dovrò incontrare gli studenti che hanno letto e discusso il mio libro Solstizio, e che dovranno votarlo per la finale del Premio Antonio Seccareccia. Non è tanto l’esito di quella votazione a tenermi in ansia, quanto il fatto di dover dialogare con loro, rispondere a tutte le loro domande. Le domande dei giovani non si possono eludere, e non è mai garantito che siamo in grado di rispondere a tutte, che sappiamo in fin dei conti farlo. Le loro attese superano le nostre, che hanno già conosciuto battaglie e disincanti; il loro modo di leggere il mondo è assoluto, ma in questo ancora ci somigliano. Chiederanno come ho cominciato, quando, dove; cosa significa per me fare poesia; cosa significa farlo oggi, nel nostro confuso presente. Ma dovrò ricordargli, e ricordare a me stesso, che ogni presente è confuso, e che a volte neppure la coperta del tempo è abbastanza lunga da coprire le nostre disillusioni o da proteggere le nostre speranze e le nostre verità.
Entro in una vasta sala delle Scuderie Aldobrandini, sotto un’alta capriata; in cima alle scale mi viene incontro, ironico come sempre, Aldo Nove, che mi rimprovera bonariamente il ritardo e mi annuncia ridendo l’esclusione dalla terna dei finalisti. Poco oltre Alberto Toni scoppia in una gran risata. Ci conosciamo da molti anni, seguiamo il nostro reciproco lavoro: più che una competizione mi sembra una rimpatriata tra vecchi amici. Il clima cordiale però non stempera la mia ansia e davanti a me si apre una platea piena di studenti e insegnanti. Mi accoglie Andrea Caterini, che modererà l’incontro, anche lui visibilmente in difficoltà; già, perché su quelle sedie stanno anche bambini delle elementari, e la loro presenza rende l’impresa ancora più difficile. Dovrò insistere sul massimo di sincerità, non nascondere loro proprio nulla.
E infatti, puntuale, arriva la domanda. Che senso ha la poesia, come ci difende dall’aggressione della realtà. Recito una battuta consueta, per me: se mai la poesia dovesse servire a qualcosa, serve a non diventare servi. Non è solo un gioco di parole, che comunque cattura la loro curiosità; devo infatti insistere e dimostrare che la poesia, che è esattezza, precisione, sintesi, tiene sempre alto e vigile il livello della nostra coscienza. Al termine dell’incontro, Rita Seccareccia mi viene incontro e mi dona una ristampa delle poesie del padre. Apro a caso, e trovo una risposta anche per me: «Son passati degli anni con niente, / e nessuno sapeva più nulla / d’un piccolo seme gettato / per caso, per giuoco alla terra».

Devo averli convinti. Il pomeriggio seguente Arnaldo Colasanti mi annuncia la vittoria del premio.