sabato 20 febbraio 2016

AILANTO n. 28 - Su Silvio Ramat



Ellis Island era il luogo, tristemente famoso, di passaggio obbligato, di smistamento e selezione, nonché di quarantena, per tutti coloro che tra Otto e Novecento hanno sperato, da immigrati, di costruirsi una vita negli Stati Uniti. Del tutto normale, quindi, che si prestasse a diventare un’efficace metafora letteraria (ricordo, poco più di una decina d’anni fa, un allestimento operistico di Giovanni Sollima su libretto di Roberto Alajmo). Nella reinvenzione di Silvio Ramat, un poeta che ha avuto una lunga esperienza d’insegnamento universitario come uno dei massimi conoscitori della poesia moderna e contemporanea, grazie alla caduta di una «l», diventa oggi il titolo di un’opera ibrida, di un prosimetro, idealmente scritto a quattro mani con una collega, Elisabetta (Elis, appunto) con la quale avvia una folta corrispondenza in versi e in prosa.
Elis Island è dunque l’ultima fatica di Ramat. I due protagonisti vivono lontani e non si incontrano, ma rievocano, nel loro corrispondersi, eventi del loro passato comune, letture distanti e ancora fertili, ossessioni, finanche canzoni. Tutto un mondo condiviso si riaffaccia nelle loro missive: è lui che le scrive in versi, stabilendo un patto fin dal principio; lei si presta al gioco e risponde in prosa. Anche Elis ha insegnato all’università, ha diviso la sua vita fra viaggi e continenti, così che l’intesa tra i due si fa profonda, empatica. Lui scrive da un luogo mai nominato né specificato: immaginiamo una clinica, un sanatorio, dove è rinchiuso per una lunga convalescenza, non sappiamo neppure in seguito a cosa. Nulla, insomma, ci viene detto di quanto è accaduto, ma solo di quanto accade di lettera in lettera, di risposta in risposta. Neppure Elis ne è a conoscenza, e seppure ogni tanto lasci trapelare qualche accenno di curiosità, sa che deve stare nel suo ruolo.
Non c’è in realtà alcun mistero, o reticenza. Forse, al massimo, un residuo di pudore, di educazione e di civiltà che sembra rinviare, non senza qualche malinconia, a ben altri tempi. Il luogo non detto, dove avviene ogni tanto qualche strana apparizione di medici o infermieri, sui quali il racconto si limita appena ad accennare, non è il mancato protagonista alla Mann di questo libro, ma ne è soltanto il pretesto. Protagonista è invece la scrittura, nella sua azione, nel suo stesso farsi. È quello il canale posto in evidenza. È quella l’«isola» sul cui terreno i due corrispondenti possono infine ritrovarsi, rievocando liberamente i loro trascorsi e riaffermando così le rispettive identità. Il testo si muove dunque dall’interno verso l’esterno dove si trova Elis, ma anche dall’interno dei loro passati verso un presente difficile e confuso. I loro ricordi e le loro reciproche introspezioni si fanno materia del narrato, lo sostanziano, in un preciso gioco delle parti al quale i due protagonisti rimangono fedeli per tutto il libro. Solo la guarigione, infine intravista, consente l’arrivo della fine: e come nulla ci viene detto del prima, nulla ci viene detto del dopo. La corrispondenza si interrompe quando la quarantena della scrittura non è più un obbligo e l’isola del prosimetro può essere abbandonata da entrambi. Con il suo consueto stile colloquiale e musicale, Ramat ha congedato un’opera di grande suggestione, abbracciando una vasta geografia anche sentimentale.

Silvio Ramat, Elis Island, Mondadori, 2015, e.15.00

XIX.
Amica tentatrice, se rimuovi
cenere e macerie dall’edificio
di un’adolescenza fin troppo lunga,
sappi che nel ballo – malgrado avessi
un buon orecchio, dicevano – mai
vinsi nelle movenze una goffaggine
ch’era anche timidezza…
                                               Consapevole
di questo limite, al cambio del disco
mi mettevo nell’angolo più in ombra
della sala (di solito eravamo
in casa di una compagna di scuola)
e lì, in piedi, atteggiandomi a infelice,
aspettavo qualcuna, un cor gentile,
che mi rinfrancasse, gesti e parole.
Feste così ormai non se ne dànno
ma, sotto un’altra pelle, la mia vita
è goffa come allora e ha quell’affanno.

martedì 9 febbraio 2016

L'olio della poesia. Incontro con Biancamaria Frabotta




Il Salento è tornato di moda, da più di un decennio ormai, e questa moda sembra non volersi arrendere al tempo. Segno della qualità di un territorio, e delle iniziative che ne sostengono la vita culturale. Sarà la pietra bianca delle chiese e dei palazzi, la luce che vi si riflette e si irradia nelle varie fasi del giorno; sarà la limpidezza delle acque, la salute del paesaggio, le tradizioni e la taranta, o il risvolto dei recenti film di Ozpetek che lì sono stati ambientati, ma questa regione non smette di sorprenderci e di invitarci. Anche per quello che riguarda la poesia. A Manduria era attivo un editore “storico” come Lacaita, che molta parte ha avuto nella promozione delle officine degli anni Settanta; e da almeno un ventennio il testimone è passato a Piero Manni, che con Anna Grazia D’Oria pubblica una rivista come «L’immaginazione», tra le più libere e interessanti del panorama letterario, oltre a diverse collane dove la poesia è preponderante. Proprio a lui è affidata l’edizione delle plaquette che traggono origine da una manifestazione forse unica nel suo genere, e che rinvia a eventi di altri tempi, come il premio «Antico fattore» negli anni trenta (lì dominava il Chianti): L’olio della poesia.
Accade a Serrano di Carpignano Salentino. A cominciare dal 1996, infatti, ogni anno poesia e tradizione agricola si coniugano nel segno dell’olivo. Un poeta è invitato a incontrare il pubblico, e torna a casa con una buona scorta di ottimo olio locale. Ha iniziato Sanguineti, e si sono succeduti, tra gli altri, Luzi, Raboni, Magrelli, De Angelis, Cucchi, fino a Biancamaria Frabotta, della quale oggi abbiamo l’ultima plaquette, Per il giusto verso. Scrive il curatore Massimo Melillo nella nota introduttiva che la «poetica di Biancamaria Frabotta è oggi una delle testimonianze del valore sempre più attuale dell’agire letterario», e non potremmo che essere d’accordo. Insisterei proprio su quell’«agire», che da sempre caratterizza e forse condiziona la vita creativa di quest’autrice, nel segno di una presenza, di una partecipazione e di un impegno, fin dal suo esordio, di estrema caratura morale. E civile, naturalmente. Sia che il suo sguardo si affacci sugli eventi della storia, grande o piccola, sia che ripieghi nella quotidianità della vita domestica e amicale, da sempre la sua poesia non si è sottratta a farsi punto di osservazione, prospettiva critica sulle cose del mondo. Frabotta ha saputo tenersi distante dal facile cronachismo, dal minimalismo intimistico, dal diarismo che spesso hanno segnato, come limiti, molte delle esperienze poetiche dei suoi compagni di strada, nonché di quelle più recenti. Oggi un testo come Il rumore bianco si conserva nella sua piena attualità, e ci auguriamo di poterlo presto rileggere in un Oscar da tempo annunciato. La patina dello stile, questo cancro che corrode la scrittura, qui sembra non essersi posata, e la forza di quelle poesie si è mantenuta intatta.
Ci sono poeti che appaiono sulla scena con un loro preciso e indistinguibile bagaglio linguistico, a cui restano fedeli. Due esempi diversissimi, ma evidenti: Penna e Raboni. E ci sono poeti che nel tempo conquistano una loro fisionomia, che crescono nella storia e ne registrano i dolori. Biancamaria Frabotta appartiene a quest’ultima specie. La sua scrittura è davvero cresciuta, ha conquistato nuovi spazi, ha inglobato nuovi temi, restando coerente con un mandato interiore. Ha ampliato le sue maglie, così che un mondo ha potuto entrarvi e riuscirne trasformato dallo sguardo del poeta. E dietro ogni immagine, noi possiamo cogliere una precisa metafora del viaggio che abbiamo compiuto, di quello che ci aspetta, in quella straordinaria empatia che solo la poesia sa costruire. Prendiamo i versi intitolati Il silenzio della bicicletta:

Sembra che tocchi il pedale
le nascoste radici dei pini
la strada stretta fra i campi
la fossa al bordo degli ulivi
lo sterco di cavalli, o di mucche
il nostro andare fra alti e bassi.
Ascoltiamo, fra i toni di verde
il silenzio della bicicletta.
“Siamo alla frontiera e dietro
me non c’è nessuno”.
Parlavo senza pensare se tu
mi udivi, nella quieta volata
fra vetrine scintillanti di ali.
Ci aspetta una prova di guerra
di parole taglienti scambiate
efficienti, già pronte ad agire.
Ascoltiamo, come su un’isola
il silenzio delle biciclette.
L’infinito aculeo della pace perduta.

Anche qui la situazione evocata travasa dal privato allo storico. Basta un’immagine veloce, una pennellata rapida, come una pedalata, e gli spettri della storia tornano ad affacciarsi intorno a una minaccia incombente. Il linguaggio sta per farsi ostile, ma questa dimensione è solo annunciata. Intanto la «pace perduta» è un dolore che non cessa e che non ha misura. Un «infinito aculeo». Quella che potrebbe sembrare una fuga è invece un incontro prossimo e drammatico, a cui non è dato mancare.

Nella plaquette Frabotta ha voluto inserire, come «omaggio», quattro traduzioni da Emily Dickinson. Non mi ero ancora imbattuto in questa fisionomia dell’autrice, ma non resto sorpreso più di tanto: queste versioni non mancano di notevole sintonia con il suo orizzonte creativo. Lo dilatano nel tempo, a ritroso. Come scrive Antonio Errico nella nota conclusiva, le parole di Biancamaria Frabotta «hanno la verità dentro ogni sillaba, sono le rughe di tutta la vita».

mercoledì 3 febbraio 2016

Antigone. Quando si parla di poesia civile


Constant, Antigone presso il corpo di Polinice


Ogni volta che le parole di Antigone mi risuonano dal passato, non posso fare a meno di legare quella pietà alla potenza di una parola, la cui eco inevitabilmente si spande oltre la volontà di una sepoltura e viene a significarmi quanto del moto affettivo ricade sul coraggio del rifiuto e sulla opportunità di sottrarsi al comando. Opportunità è un termine spesso ambiguo, che nella modernità ha assunto anche il colore oscuro del guadagno personale; è opportuno ciò che concorre alla difesa dello steccato e degli interessi individuali, nei quali quasi mai si inverano quelli della collettività. Con il suo gesto Antigone si pone piuttosto sul versante di una necessità che è, al tempo stesso, sororale ed eversiva, quindi storica e sociale; una necessità che muove una norma superiore a qualsivoglia legge, poiché in questo codice non scritto è il luogo dove individuo e società trovano il vero terreno comune.
Certamente, c’è una forte spinta emozionale, dietro tutto ciò. Ed è per questo che Antigone mi appare come una metafora non solo possibile, ma concretamente attiva, di una scrittura che sappia assestarsi come ipotesi del rifiuto. La naturalezza non è soltanto scelta immediata di infrangere una legge nella quale non ci si può riconoscere, dal momento che Antigone non sembra neppure scegliere: agisce, portata semplicemente, come la sua parola netta e precisa, da un dovere più antico. E se consideriamo questa naturalezza, appunto, non possiamo non credere che ogni scrittura netta e precisa, nel lavoro che conduce alla costruzione di uno stile, sia una scrittura partigiana, sia cioè un atto di per sé cospirativo, splendidamente inattuale. 
Voglio dire, insomma, che se un lavoro di e sulla scrittura è già, di per sé, movimento di un pensiero critico, spostamento della percettiva usuale dalla quale ci affacciamo ad osservare le cose del mondo, allora la poesia, che rappresenta ancora la sintesi, l’esito più alto di tale movimento, è in ogni sua forma un’azione rivolta ad aggiungere qualcosa al pensiero della comunità. Anche nelle sue espressioni più liriche e intimistiche, ciò che continuiamo a chiamare poesia è un’impresa che ci mette a parte di una stratificazione della verità, di una complessità comunque circoscritta dalla nostra finitudine e per questo, sempre e comunque, civile, anche laddove il movente politico può risultare secondario o addirittura assente. Ma è questo il punto: non può esserci in realtà alcun movente, non può darsi alcun indirizzo, a rischio di avventurarsi dentro un progetto destinato ad essere in parte o del tutto sconfessato.

Non posso credere dunque a un’etichetta di genere come quella di poesia civile perché ogni atto di vera poesia, nella non-società dell’immagine reificata, della coazione alla solitudine, è una scelta di posizione: è la scelta di adempiere a quel dovere antico, di rispondere a quella necessità. Ciascuna parola apre una voragine di senso e ci allontana sempre più dalla superficie del mondo e dalle sue incrostazioni, come spinge Antigone, ogni volta che parla, fuori dalle mura, all’alba.

lunedì 1 febbraio 2016

Un intervento su poesia e teatro

Posto qualche appunto di un recente intervento a Palermo su poesia e teatro, arti della trasformazione. Con qualche ossessione personale, naturalmente.

Mi vado sempre più convincendo che non esista nulla di più antico del moderno, anche di quello più tardo. Così, per dire qualcosa sulla poesia oggi, o di oggi, non ho ancora capito bene, mi accorgo che uno straordinario cortocircuito riporta la letteratura recente ad atteggiamenti percettivi e a un’ontologia che sembrano venire dal mondo classico. Anche nelle sue estenuazioni postmoderne, questa letteratura non ha cessato di cercare il dialogo con una diversa antropologia che solo approssimativamente potrebbe definirsi pre-cristiana e con più precisione nietzcheana. Di questa antropologia fa parte quel vasto territorio mitologico che, tra descensus ad inferos per interrogare se stessi e il proprio destino, ricerche di un’anteriorità perduta raggiungibile solo attraverso la lingua dei poeti e ostinati rifiuti alla contemplazione di una verità poco confortante e probabilmente poco interessante, si riafferma come uno dei luoghi privilegiati delle scritture contemporanee, siano esse di matrice lirica, narrativa o drammaturgica. Personalmente non ho mai avuto diffidenza verso l’ovvio e da antropologo della poesia non posso fare a meno di riprendere da ciò che ormai, divenuto talmente consueto da sparire alla nostra attenzione, può apparire deprivato di senso, e invece parla ancora se solo spostiamo il nostro abituale punto di vista. Pensando alla poesia di oggi e ai suoi rapporti con le altre espressioni non posso non richiamare una figura di minor rilievo rispetto alle muse, ma non per questo meno pertinente: una figura mitologica secondaria, un “dio ulteriore” come avrebbe detto Manganelli, confinato in un ristretto olimpo per eruditi eppure, nella mia prospettiva, profondamente compromessa con le dinamiche della poesia ma anche del teatro, che in origine erano una sola cosa. Parlo di una antica divinità italica, Vertumno, il dio del volgere delle stagioni, dei mutamenti, delle metamorfosi. Josif Brodskij ne traccia un deciso ritratto: «sfiorarti è sfiorare / una somma astronomica di cellule: / il suo prezzo è sempre il destino / e solo tenerezza ha in proporzione»:  La radice del suo nome rinvia a vertere, e quindi al verso. La poesia e il teatro, ad esempio, come arti della trasformazione: trasformazione del reale per via linguistica, sia essa di natura verbale o gestuale, che si concretizza nelle variazioni stesse del corpo, nel trucco e nella mimica.
La poesia di oggi parla il linguaggio della dissociazione, un linguaggio che si traveste, con la velocità di Vertumno, fino a mostrarsi come idioma, o enigma, della dissoluzione del corpo e dell’identità. Proprio nell’epoca delle immagini, quindi, classicamente, delle illusioni e dei simulacri, nonché nell’epoca in cui il nemico, il soggetto da sottoporre a un processo critico, è quanto mai subdolo e poco riconoscibile, avendo preso egli stesso virtù e difetti di Vertumno, la lingua della scena implode e la parola torna a farsi scavo semantico, approdando per vie diverse alla poesia, che ritrova, a dispetto di tutto, una sua pervasività.
All’altro lato del mio discorso sta un’altra figura classica e non può che essere Antigone. Ogni volta che le parole di Antigone mi risuonano dal passato, non posso fare a meno di legare quella pietà alla potenza di una parola, la cui eco inevitabilmente si spande oltre la volontà di una sepoltura e viene a significarmi quanto del moto affettivo ricade sul coraggio del rifiuto e sulla opportunità di sottrarsi al comando. Opportunità è un termine spesso ambiguo, che nella modernità ha assunto anche il colore oscuro del guadagno personale; è opportuno ciò che concorre alla difesa dello steccato e degli interessi individuali, nei quali quasi mai si inverano quelli della collettività. Con il suo gesto Antigone si pone piuttosto sul versante di una necessità che è, al tempo stesso, sororale ed eversiva, quindi storica e sociale; una necessità che muove una norma superiore a qualsivoglia legge, poiché in questo codice non scritto è il luogo dove individuo e società trovano il vero terreno comune.
Certamente, c’è una forte spinta emozionale, dietro tutto ciò. Ed è per questo che Antigone mi appare come una metafora non solo possibile, ma concretamente attiva, di una scrittura che sappia assestarsi come ipotesi del rifiuto. La naturalezza non è soltanto scelta immediata di infrangere una legge nella quale non ci si può riconoscere, dal momento che Antigone non sembra neppure scegliere: agisce, portata semplicemente, come la sua parola netta e precisa, da un dovere più antico. E se consideriamo questa naturalezza, appunto, non possiamo non credere che ogni scrittura netta e precisa, nel lavoro che conduce alla costruzione di uno stile, sia una scrittura partigiana, sia cioè un atto di per sé cospirativo, splendidamente inattuale.
Voglio dire, insomma, che se un lavoro di e sulla scrittura è già, di per sé, movimento di un pensiero critico, spostamento della percettiva usuale dalla quale ci affacciamo ad osservare le cose del mondo, allora la poesia, che rappresenta ancora la sintesi, l’esito più alto di tale movimento, è in ogni sua forma un’azione rivolta ad aggiungere qualcosa al pensiero della comunità. Anche nelle sue espressioni più liriche e intimistiche, ciò che continuiamo a chiamare poesia è un’impresa che ci mette a parte di una stratificazione della verità, di una complessità comunque circoscritta dalla nostra finitudine e per questo, sempre e comunque, civile, anche laddove il movente politico può risultare secondario o addirittura assente. Ma è questo il punto: non può esserci in realtà alcun movente, non può darsi alcun indirizzo, a rischio di avventurarsi dentro un progetto destinato ad essere in parte o del tutto sconfessato.
Non posso credere alle etichette di genere spesso imposte alla poesia di oggi, perché ogni atto di vera poesia, nella non-società dell’immagine reificata, della coazione alla solitudine, è una scelta di posizione: è la scelta di adempiere a quel dovere antico, di rispondere a quella necessità. Ciascuna parola apre una voragine di senso e ci allontana sempre più dalla superficie del mondo e dalle sue incrostazioni, come spinge Antigone, ogni volta che parla, fuori dalle mura, all’alba, a seppellire il corpo del fratello.

L’eccesso di metamorfismo diviene sintomo di sparizione, di dissoluzione e assenza. Le astronomiche cellule di Vertumno sono appena sufficienti a sostenere, linguisticamente, il netto rifiuto di Antigone, che in effetti si stempera in un susseguirsi di codici obliqui, di mimetismi coatti, di strategie ora manifeste ora difensive rispetto allo scenario della storia. Ma è proprio questa la vitalità del contemporaneo, la sua energia, il suo sprigionare un senso di  non finito anche nel recinto finito della rappresentazione. Credo che la poesia di oggi, per questa via, sia penetrata, traslata in un certo modo di fare teatro, nei suoi aspetti più visibili. Se è vero, come credo, che tra le arti di qua e di là dal millennio il teatro non solo goda di una evidente felicità espressiva, a dispetto delle burocrazie, ma sia l’unico luogo, come ricordava Barberio Corsetti, dove si può esprimere, anche nel silenzio, un pensiero collettivo sul mondo, ancora una volta questa mi pare un’efficacissima definizione di ciò che mi piace intendere quando parlo e quando scrivo di poesia.