Constant, Antigone presso il corpo di Polinice |
Ogni volta che le parole di Antigone mi risuonano dal passato, non posso fare a meno di legare quella pietà alla potenza di una parola, la cui eco inevitabilmente si spande oltre la volontà di una sepoltura e viene a significarmi quanto del moto affettivo ricade sul coraggio del rifiuto e sulla opportunità di sottrarsi al comando. Opportunità è un termine spesso ambiguo, che nella modernità ha assunto anche il colore oscuro del guadagno personale; è opportuno ciò che concorre alla difesa dello steccato e degli interessi individuali, nei quali quasi mai si inverano quelli della collettività. Con il suo gesto Antigone si pone piuttosto sul versante di una necessità che è, al tempo stesso, sororale ed eversiva, quindi storica e sociale; una necessità che muove una norma superiore a qualsivoglia legge, poiché in questo codice non scritto è il luogo dove individuo e società trovano il vero terreno comune.
Certamente, c’è una forte spinta emozionale, dietro tutto ciò. Ed è per questo che Antigone mi appare come una metafora non solo possibile, ma concretamente attiva, di una scrittura che sappia assestarsi come ipotesi del rifiuto. La naturalezza non è soltanto scelta immediata di infrangere una legge nella quale non ci si può riconoscere, dal momento che Antigone non sembra neppure scegliere: agisce, portata semplicemente, come la sua parola netta e precisa, da un dovere più antico. E se consideriamo questa naturalezza, appunto, non possiamo non credere che ogni scrittura netta e precisa, nel lavoro che conduce alla costruzione di uno stile, sia una scrittura partigiana, sia cioè un atto di per sé cospirativo, splendidamente inattuale.
Voglio dire, insomma, che se un lavoro di e sulla scrittura è già, di per sé, movimento di un pensiero critico, spostamento della percettiva usuale dalla quale ci affacciamo ad osservare le cose del mondo, allora la poesia, che rappresenta ancora la sintesi, l’esito più alto di tale movimento, è in ogni sua forma un’azione rivolta ad aggiungere qualcosa al pensiero della comunità. Anche nelle sue espressioni più liriche e intimistiche, ciò che continuiamo a chiamare poesia è un’impresa che ci mette a parte di una stratificazione della verità, di una complessità comunque circoscritta dalla nostra finitudine e per questo, sempre e comunque, civile, anche laddove il movente politico può risultare secondario o addirittura assente. Ma è questo il punto: non può esserci in realtà alcun movente, non può darsi alcun indirizzo, a rischio di avventurarsi dentro un progetto destinato ad essere in parte o del tutto sconfessato.
Non posso credere dunque a un’etichetta di genere come quella di poesia civile perché ogni atto di vera poesia, nella non-società dell’immagine reificata, della coazione alla solitudine, è una scelta di posizione: è la scelta di adempiere a quel dovere antico, di rispondere a quella necessità. Ciascuna parola apre una voragine di senso e ci allontana sempre più dalla superficie del mondo e dalle sue incrostazioni, come spinge Antigone, ogni volta che parla, fuori dalle mura, all’alba.
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