sabato 20 maggio 2017

Giovanni Boldini, doppio movimento




Uno dei grandi ritratti femminili, per i quali Giovanni Boldini è rimasto giustamente e ingiustamente famoso, raffigura Mademoiselle De Nemidoff, e risale al 1908. Scrivo giustamente, perché questo pittore non si è limitato ai necessari tratteggi del volto, a cogliere un’espressione intima, a raccontare nei panneggi sontuosi tutta la sfacciata allure di un’epoca; ha condiviso, con Rossetti e poi con Klimt, lo seduzione dello sguardo, l’accenno di apertura delle labbra, a volte trascendendo il realismo di un dettaglio giottesco (i denti), con la sua povertà tragica, storica, per portarlo dentro un’altra storia, che sembra scritta nei boudoir. A sorprendere, ancora oggi, sono gli abiti delle sue modelle d’eccezione, percorsi da vortici e linee che disegnano, nel complesso, un movimento assoluto: l’osservatore non saprebbe coglierne la direzione, poiché sembrano volgersi all’esterno del quadro, come ripiegarsi improvvisamente nello spazio della sua cornice. Con qualche anno di anticipo sulle avanguardie novecentesche, Boldini ha recepito tutta l’irrequietezza della percettività moderna, e dietro l’apparente, statica monumentalità delle sue figure, ci ha consegnato il segreto di quel movimento: all’esattezza dei visi, delle acconciature, dei dettagli preziosi, ha voluto accompagnare la dispersione dei corpi nello spazio, braccia e mani che si perdono in pennellate ruvide, dita aperte che vorrebbero stringere altri drappi e narrano di uno spazio ulteriore in cui fluttuano come in una danza.
Scrivo ingiustamente, perché con la ritrattistica delle grandi dame della belle epoque Boldini ha fissato per sempre un cliché, nel quale è stato comodamente adagiato: quando si pensa a lui, è inevitabile, ancora oggi, legare il suo nome a quello di un ampio arco di nobiltà o di alta borghesia, di una società eletta e chiusa in se stessa, di cui inconsapevolmente l’artista celebrava, dietro la facile apoteosi, anche i germi del declino. La vicenda di alcuni di quei quadri è lì a raccontare il lato nascosto di una medaglia fin troppo lucida, lente rovine o rovesci improvvisi. E, nella severa serenità di quelle pose, nella loro sensualità decadente, nella spensieratezza dell’attimo, si allungano già le ombre della Grande Guerra.
È allora che Boldini ci appare in tutta la sua grandezza di artista: perché, mentre intende consegnarci la mimesi di un fascino, inevitabilmente ci consegna anche la sua finitudine. Non lo fa attraverso la fissità del momento, e non lo fa solo modulando gli sguardi, la loro inclinazione malinconica o blasée, o il loro atteggiarsi provocatorio; riesce invece a restituirci la sensazione precisa, quanto sfuggevole, di una doppia prospettiva. Fasto e miseria, ostentazione e insicurezza, vita e morte. I suoi vortici e le sue linee compongono quest’azione di avvicinamento e allontanamento: le figure, maestose, fuoriescono dal quadro (“bucano”, si direbbe oggi con gergo televisivo) e subito se ne lasciano riassorbire. Portano, dietro la realtà dei volti, l’ambigua dislocazione del mito, le sue geometrie fluttuanti, il suo appartenerci e la sua distanza. Di queste bellezze austere, che danno solo l’illusione di essersi liberate, per un istante, del loro sussiego, Boldini rappresenta tutto il limite della divinità: il loro non sapersi raccontare, se non attraverso l’occhio del pittore e le parole di chi osserva. E chi osserva, infine, intuisce ben presto che quella narrazione ha qualcosa di tragico, assomiglia pericolosamente all’umano.
Non è tanto l’aura del tempo, il sedimento del passato a eleggere queste donne a icone di una femminilità solenne e sofferta, ma - proprio mentre si offrono nel pieno della loro opulenza di tessuti e di sensi - l’idea di uno spossessamento, di una perdita. È ancora una volta Boldini a regalarci questa illusione di consapevolezza, poiché quelle amabili silhouettes sono solo le attrici di un mito che vorrebbero loro, e che invece è più antico e le sovrasta. Mademoiselle De Nemidoff sopra tutte. Il suo sguardo, frontale e sfrontato, è quello di una belle dame sans merci, di una sirena o di una parca costretta al suo lavoro ammaliante e distruttivo, suo malgrado. Vorrebbe quasi dirci che no, non è colpa sua. Non dipende da lei quanto sta per incombere su un continente intero, non è una sua creazione, la fugacità. La sua folta capigliatura è un mondo, una geografia che non addolcisce lo sguardo, ma lo rende ancora più fiero e temibile, nonostante l’accenno di sorriso. Il suo è un inganno di seduzione, palesato dalla disposizione delle braccia: mentre con la mano destra afferra il drappo di una mantella, come una belva cerca di tenere ferma la preda (ma le dita afferrano restando aperte, in Boldini, come nel più celebre ritratto di Franca Florio), con la sinistra indica la direzione da cui proviene, o meglio da cui è apparsa. Numinosa, come una dea infera, che non conosce altro tempo che il futuro altrui. Ecco, sono venuta a dirti che anche tu morirai. La sua nera eleganza ci parla solo di questo.

Vera Nemidoff, questo il suo nome, fu un mezzosoprano che godette di una certa celebrità negli ambienti operistici parigini, nei primi anni del secolo scorso. Questa informazione potrebbe sminuire le suggestioni del dipinto: più nota per la sua bellezza che per la sua voce, Vera divenne presto un modello di charme e di raffinata mondanità, nonché di emancipata disinvoltura. È così che Boldini la ritrasse nella sua realtà storica, in un evidente sbilanciamento della figura: le spalle bianchissime che disegnano la traiettoria di un ampio décolleté, in forte contrasto con l’abito, la cui densità oscura diviene improvvisa trasparenza all’altezza delle braccia, quasi a liberarle, sprigionandone l’energia evocativa; il porsi verso l’osservatore, in un accenno di prossimità o di invito, che sottolinea piuttosto l’irraggiungibilità del personaggio, il suo snobismo; infine la plasticità statuaria, il suo dinamismo. Tutto questo è ben presente a chiunque passi davanti all’ampio ritratto (quasi due metri e mezzo di altezza), lasciandosene invadere ed entrando giocoforza nel suo spazio; ma la cantante paradossalmente non emette alcun suono, non parla se non attraverso i suoi gesti. Nel mondo infero la voce è un’eccezione, perfino per il suo nume tutelare, per Orfeo. Così il suo non è un ritratto per antonomasia, come, in parte, è quello di Franca Florio, con la sua lunga collana di perle che avrebbe fatto invidia anche a Margherita di Savoia. Forse, fra le ultime grandi Sibille di Boldini, Vera Nemidoff è quella che più delle altre ha consegnato la sua storia a un nome, per spogliarsene. E senza storia e senza nome appare sullo sfondo dell’epoca più drammatica, perché intrisa di malinconico sentimento dell’effimero. Da lì, ci indica l’inferno che verrà.