Uno
dei grandi ritratti femminili, per i quali Giovanni Boldini è rimasto
giustamente e ingiustamente famoso, raffigura Mademoiselle De Nemidoff, e
risale al 1908. Scrivo giustamente, perché questo pittore non si è limitato ai
necessari tratteggi del volto, a cogliere un’espressione intima, a raccontare
nei panneggi sontuosi tutta la sfacciata allure
di un’epoca; ha condiviso, con Rossetti e poi con Klimt, lo seduzione dello
sguardo, l’accenno di apertura delle labbra, a volte trascendendo il realismo
di un dettaglio giottesco (i denti), con la sua povertà tragica, storica, per
portarlo dentro un’altra storia, che sembra scritta nei boudoir. A sorprendere,
ancora oggi, sono gli abiti delle sue modelle d’eccezione, percorsi da vortici
e linee che disegnano, nel complesso, un movimento assoluto: l’osservatore non
saprebbe coglierne la direzione, poiché sembrano volgersi all’esterno del
quadro, come ripiegarsi improvvisamente nello spazio della sua cornice. Con
qualche anno di anticipo sulle avanguardie novecentesche, Boldini ha recepito
tutta l’irrequietezza della percettività moderna, e dietro l’apparente, statica
monumentalità delle sue figure, ci ha consegnato il segreto di quel movimento:
all’esattezza dei visi, delle acconciature, dei dettagli preziosi, ha voluto
accompagnare la dispersione dei corpi nello spazio, braccia e mani che si
perdono in pennellate ruvide, dita aperte che vorrebbero stringere altri drappi
e narrano di uno spazio ulteriore in cui fluttuano come in una danza.
Scrivo
ingiustamente, perché con la ritrattistica delle grandi dame della belle epoque Boldini ha fissato per
sempre un cliché, nel quale è stato comodamente adagiato: quando si pensa a lui,
è inevitabile, ancora oggi, legare il suo nome a quello di un ampio arco di
nobiltà o di alta borghesia, di una società eletta e chiusa in se stessa, di
cui inconsapevolmente l’artista celebrava, dietro la facile apoteosi, anche i
germi del declino. La vicenda di alcuni di quei quadri è lì a raccontare il
lato nascosto di una medaglia fin troppo lucida, lente rovine o rovesci
improvvisi. E, nella severa serenità di quelle pose, nella loro sensualità
decadente, nella spensieratezza dell’attimo, si allungano già le ombre della
Grande Guerra.
È
allora che Boldini ci appare in tutta la sua grandezza di artista: perché,
mentre intende consegnarci la mimesi di un fascino, inevitabilmente ci consegna
anche la sua finitudine. Non lo fa attraverso la fissità del momento, e non lo
fa solo modulando gli sguardi, la loro inclinazione malinconica o blasée, o il loro atteggiarsi
provocatorio; riesce invece a restituirci la sensazione precisa, quanto
sfuggevole, di una doppia prospettiva. Fasto e miseria, ostentazione e insicurezza,
vita e morte. I suoi vortici e le sue linee compongono quest’azione di
avvicinamento e allontanamento: le figure, maestose, fuoriescono dal quadro
(“bucano”, si direbbe oggi con gergo televisivo) e subito se ne lasciano
riassorbire. Portano, dietro la realtà dei volti, l’ambigua dislocazione del
mito, le sue geometrie fluttuanti, il suo appartenerci e la sua distanza. Di
queste bellezze austere, che danno solo l’illusione di essersi liberate, per un
istante, del loro sussiego, Boldini rappresenta tutto il limite della divinità:
il loro non sapersi raccontare, se non attraverso l’occhio del pittore e le
parole di chi osserva. E chi osserva, infine, intuisce ben presto che quella
narrazione ha qualcosa di tragico, assomiglia pericolosamente all’umano.
Non
è tanto l’aura del tempo, il sedimento del passato a eleggere queste donne a
icone di una femminilità solenne e sofferta, ma - proprio mentre si offrono nel
pieno della loro opulenza di tessuti e di sensi - l’idea di uno spossessamento,
di una perdita. È ancora una volta Boldini a regalarci questa illusione di
consapevolezza, poiché quelle amabili silhouettes sono solo le attrici di un
mito che vorrebbero loro, e che invece è più antico e le sovrasta. Mademoiselle
De Nemidoff sopra tutte. Il suo sguardo, frontale e sfrontato, è quello di una belle dame sans merci, di una sirena o
di una parca costretta al suo lavoro ammaliante e distruttivo, suo malgrado.
Vorrebbe quasi dirci che no, non è colpa sua. Non dipende da lei quanto sta per
incombere su un continente intero, non è una sua creazione, la fugacità. La sua
folta capigliatura è un mondo, una geografia che non addolcisce lo sguardo, ma
lo rende ancora più fiero e temibile, nonostante l’accenno di sorriso. Il suo è
un inganno di seduzione, palesato dalla disposizione delle braccia: mentre con
la mano destra afferra il drappo di una mantella, come una belva cerca di
tenere ferma la preda (ma le dita afferrano restando aperte, in Boldini, come
nel più celebre ritratto di Franca Florio), con la sinistra indica la direzione
da cui proviene, o meglio da cui è apparsa. Numinosa, come una dea infera, che
non conosce altro tempo che il futuro altrui. Ecco, sono venuta a dirti che
anche tu morirai. La sua nera eleganza ci parla solo di questo.
Vera
Nemidoff, questo il suo nome, fu un mezzosoprano che godette di una certa
celebrità negli ambienti operistici parigini, nei primi anni del secolo scorso.
Questa informazione potrebbe sminuire le suggestioni del dipinto: più nota per
la sua bellezza che per la sua voce, Vera divenne presto un modello di charme e
di raffinata mondanità, nonché di emancipata disinvoltura. È così che Boldini
la ritrasse nella sua realtà storica, in un evidente sbilanciamento della
figura: le spalle bianchissime che disegnano la traiettoria di un ampio décolleté, in forte contrasto con
l’abito, la cui densità oscura diviene improvvisa trasparenza all’altezza delle
braccia, quasi a liberarle, sprigionandone l’energia evocativa; il porsi verso
l’osservatore, in un accenno di prossimità o di invito, che sottolinea
piuttosto l’irraggiungibilità del personaggio, il suo snobismo; infine la
plasticità statuaria, il suo dinamismo. Tutto questo è ben presente a chiunque
passi davanti all’ampio ritratto (quasi due metri e mezzo di altezza),
lasciandosene invadere ed entrando giocoforza nel suo spazio; ma la cantante
paradossalmente non emette alcun suono, non parla se non attraverso i suoi
gesti. Nel mondo infero la voce è un’eccezione, perfino per il suo nume
tutelare, per Orfeo. Così il suo non è un ritratto per antonomasia, come, in
parte, è quello di Franca Florio, con la sua lunga collana di perle che avrebbe
fatto invidia anche a Margherita di Savoia. Forse, fra le ultime grandi Sibille
di Boldini, Vera Nemidoff è quella che più delle altre ha consegnato la sua
storia a un nome, per spogliarsene. E senza storia e senza nome appare sullo
sfondo dell’epoca più drammatica, perché intrisa di malinconico sentimento
dell’effimero. Da lì, ci indica l’inferno che verrà.
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