martedì 12 maggio 2015

Del tradurre poesia, ovvero gabbie per nuvole

Due premesse necessarie. La prima riguarda il mio ambito di riferimento, ovvero quello della traduzione di poesia: che per me, come per tutti i cosiddetti operatori del settore, rappresenta un dominio caratterizzato da ulteriori problemi rispetto a quelli della traduzione tout court. Premetto ancora che il mio rapporto con le letterature d’oltralpe e d’oltre-oceano, anzitutto le culture anglofone e quella francese, non è di tipo tecnico o specialistico, ciò che è anche ostacolato, qualora non rispondesse a una scelta personale, da una conoscenza perlopiù letteraria di quelle lingue. Del resto più di un traduttore d’eccezione, basti ricordare lo stesso Pavese, riteneva che una conoscenza linguistica così delimitata, costringendo anche solo sul piano della verifica lessicale a un uso costante del dizionario, consente di evitare taluni clamorosi misunderstanding in cui invece può incappare il traduttore professionista, più padrone della lingua da cui traduce ed eccessivamente sicuro della propria competenza.
Non essendo dunque un traduttore di professione e non avendo mai avuto coi miei editori un rapporto in tal senso, ho potuto muovermi con quella libertà estrema che la modernità letteraria ci ha consegnato nella scelta dei nostri autori, dei nostri modelli, insomma del nostro privatissimo canone. Il mio percorso di traduttore, pertanto, è inevitabilmente in gran parte lo specchio del mio percorso di formazione. Intendo dire che misurarsi non solo con l’immaginario, con l’universo espressivo di autori lontani mi ha decisamente aiutato a forgiare il mio immaginario e il mio universo espressivo, ma che il corpo a corpo agonistico con la loro lingua è stato un elemento fondativo per la conquista della mia lingua poetica, ovvero, come direbbe Calvino, per la fondazione del mio stile.
Lawrence Venuti, nel suo testo fondamentale L’invisibilità del traduttore, riprendendo categorie già elaborate in età romantica, discute a proposito di domestication e foreignization  (che solo approssimativamente potremmo rendere con addomesticamento ed estraniamento) come dei due poli entro cui si contiene la dinamica del processo traduttivo, o, come dice Friedmar Apel, il movimento del linguaggio, lo Sprachwebegung. Insisterei sul fatto che questi due poli non sono due estremi assoluti ma due entità dialettiche, destinate talora a incrociarsi e a sovrapporsi. Nello spazio di queste intersezioni si è svolto il mio apprendistato letterario e va da sé che questo processo non si è mai concluso e mai si concluderà. Se è vero, come credo, quel che sostiene Valéry, ovvero che una traduzione è un percorso infinito, destinato a non chiudersi mai, questo vale anche per la nostra ricerca, per la nostra quest, per il nostro irrinunciabile miraggio alla piena espressività. La traduzione è uno di quei domini che costantemente ci testimoniano di come e quanto siamo sempre «in cammino verso il linguaggio» e non a caso Heidegger è tornato più volte sulla questione. Lo stesso Venuti, che viene alla storia e alla teoria della traduzione da una vasta esperienza di traduttore professionista, ricorda con Goethe e Pound che ogni estraniazione non è un semplice fenomeno di riconoscimento di differenze culturali, ma che tali differenze si stabiliscono solo all’interno della lingua d’arrivo. Posso ricorrere subito a un esempio dalla mia officina personale. Molti anni fa, traducendo una poesia di un poeta irlandese che ho molto amato e che purtroppo non ha avuto in Italia la fortuna che meriterebbe, Michael Hartnett - scomparso poco dopo il nostro incontro per una di quelle cause di cui spesso soffrono gli irlandesi – mi imbattei in un testo scritto in gaelico che inizia con una dedica: «do Mhícheál Ó Charmaic, file». La mia esperienza, in quel caso, fu condizionata dal ricorso obbligato a una media traduzione in inglese, da cui a mia volta ho pouto ricavare il testo in italiano.
Non c’è bisogno di scomodare Genette per ammettere che quella dedica è parte integrante del testo poetico e che probabilmente il riferimento, nella personale ottica biografica, rappresenta un incremento sul piano dei significati, che a noi, non conoscendo il destinatario, restano in parte preclusi. L’esempio è interessante perché attesta di un duplice estraniamento, un po’ quello che succede con certi idioletti di Auden, quando scrive “ideola”, termine del tutto privato e occasionale, incomprensibile al di fuori del contesto in cui è stato forgiato. Insomma, l’estraniamento copre due versanti linguistici, uno intrinseco (della lingua d’arrivo verso se stessa) e uno estrinseco (della lingua d’arrivo verso la lingua di partenza), ovvero la ricezione e la resa in un’altra lingua. Ciò che Venuti ammette è che l’intervento del traduttore nel riconoscere le differenze si problematizza solo nella lingua in cui si traduce. Come rendere, infatti, quel «file», posato lì tra il gaelico e lo slang antico? Un epiteto già gergale, che nell’inglese veniva reso con «cunning», non senza uno slittamento semantico inevitabile, e comunque senza un vero corrispettivo italiano che non fosse attinto, con un processo di estraniamento, a un registro anch’esso gergale? Certo, la tradizione letteraria offre una soluzione plausibile e attestata con «volpone», ma il termine risulta desueto e perde indubbiamente qualcosa della sua efficacia. L’estraniamento estrinseco agisce coerentemente in chiave gergale, con il prezzo di fuoriuscire dal registro standard per adattarsi a un termine non sempre comprensibile al di fuori del suo ristretto territorio d’uso, ovvero «lenza»: «per quella lenza di Mhícheál Ó Charmaic».
Vorrei ora richiamare un altro caso, in cui i due tipi di estraniamento provocano un curioso cortocircuito culturale. Nel corso del 1997 un piccolo stampatore della provincia toscana mi chiese di tradurre una scelta delle poesie di Stevenson per un’edizione a tiratura limitata. Non erano mancati fior di traduttori allo Stevenson poeta, a partire da Roberto Mussapi, ma l’insistenza fu tale che decisi di accettare la sfida. Compiuta la scelta, perlopiù su testi brevi e non eccessivamente complessi, considerata la destinazione editoriale, mi accorsi che all’interno dell’opera di Stevenson ero riuscito a ritagliare una piccola enclave tutto sommato coerente, sia dal punto di vista stilistico che da quello tematico. È questo che intendo quando mi accade di affermare che sono i testi a venirci incontro e a imporsi alla nostra attenzione e non il contrario; le nostre ossessioni si traducono, è il caso di dirlo, in una evidente empatia. Conservo ancora qualche copia di quel libretto, da cui traggo due brevi saggi di poesie d’amore:

Guarda, leggo nei tuoi occhi sinceri
L’auspicio che ci guiderà
Dopo lungo vagare in mari aperti
A quieti porti nel riposo di giugno.

Canti con voce da uccello di terra
Per prima udita dal lupo di mare;
e come rada sicura nel mare della vita
il tuo cuore sincero è in me.

*
Nella splendida, verde primavera,
amore e pensai di suonare la lira
e dolci baci prendere e dare
accanto al biancospino in fiore.

Ora è l’autunno rugginoso,
morte e la tomba e il triste inverno,
e qui devo meditare in disparte
mentre batte la pioggia sul tetto.

Cosa accade in queste poesie, o meglio a queste poesie? Portando Stevenson, il suo verso così prosaico, nella mia lingua, evitando le coppie di ripetizioni che spesso si affacciano, forse con un certo gusto latineggiante, nella poesia inglese (ne è pieno anche un signor poeta come Hardy, che nessuno finora si è azzardato  a tradurre per intero), mi sono accorto di aver omologato le immagini dell’inglese a un ritmo che era tutto mio. Quando Mussapi ebbe occasione di leggere le mie versioni, si congratulò del risultato, facendomi notare che avevo passato Stevenson al filtro di Baudelaire. Aveva colto nel segno. Il processo di addomesticamento, nel conflitto dialettico con quello di estraniamento, aveva prodotto sì una lingua unitaria e una catena di stilemi coerenti, ma il sapore ottocentesco, tardo-romantico, era passato sull’altra riva della Manica. C’è una motivazione, per questo, non solo di ordine personale, di imposizione della propria lingua e dei propri ritmi: quando Apel sostiene che la traduzione è una forma storica, ci dice anche e soprattutto che in essa si rende visibile storicamente il processo dell’esperienza estetica dell’opera tradotta, ciò che vale sia sul piano individuale che su quello collettivo. E se il modello di riferimento, per molta parte della poesia italana primonovecentesca, è stato quello del simbolismo e del postsimbolismo d’area franco-belga, era inevitabile che un certo sapore baudelairiano s’insinuasse nel mio lavoro, complice la memoria letteraria di chi mi aveva preceduto.
A volte i luoghi comuni, se resistono all’usura della lingua e del tempo, con buona pace di Wittgenstein,  si impongono con la loro dose di verità. Che la poesia sia intraducibile è per me un dato di fatto, e quindi preferisco parlare con Jakobson, piuttosto che di traduzione tout-court, di creative transposition, ciò che rende meglio, a mio giudizio, la dinamicità stessa del tradurre poesia, sin in senso sincronico (un traduttore che passa la vita a riscrivere le stesse versioni) sia diacronico (il rinnovarsi del problema ad ogni sensibile mutazione del modello culturale, se la traduzione è anzitutto una forma della comprensione).
L’impossibilità non implica però la rinuncia; al contrario la scommessa è sempre aperta, come i risultati. L’immagine che più mi fa pensare all’attività del traduttore di poesia, o del poeta che si mette a tradurre un altro poeta,  è quella di una persona che costruisce una gabbia per le nuvole, che cerca di chiudere in una forma plausibile ciò che la materia poetica nega, ovvero che possa sussistere una forma perfettamente analoga a quella di partenza. Riconoscendo che la traduzione è un atto dinamico che restituisce il movimento tra due sponde linguistiche, non facciamo che confermare la mia metafora: le nuvole sono di una sostanza che non può essere ingabbiata. Come le immagini del tempo, l’acqua e la sabbia, scorrono tra le dita.
La mia gabbia per nuvole più durevole è stata costruita per il poeta che più mi ha preso per mano, per un lungo periodo del mio apprendistato. Se si vuole comprendere cosa non funziona nella poesia, diceva Pound, ci si deve misurare con un minore (ma forse era Eliot, potrei confondermi); io avevo bisogno di confrontarmi con un autore che potesse offrirmi una gamma vastissima di soluzioni. Credo proprio che con Auden sono andato a colpo sicuro. Lentamente, con tutta la pazienza possibile. E soprattutto con quell’umiltà che richiede ogni accostamento a un grande. Ho scavato nel suo verso con l’insistenza di una goccia, pur cosciente che quelle misure erano in gran parte estranee a quelle della mia tradizione, anzi, la saltavano per attingere semmai a quelle della classicità. Così, scelta nella scelta, la mia attenzione è caduta sui Sonetti dalla Cina, e sulle poesie e sul lungo Commentario che fanno da contorno a quella serie. Ho iniziato nel 1989 e non ho mai finito. Ne ho pubblicato negli anni varie traduzioni, sono tornato a correggere e a limare, a volte spaventosamente arretrando al punto di partenza, con la sensazione di aver camminato in un labirinto di specchi deformanti. Per questo su Auden, sul poeta più amato, non sono mai riuscito a scrivere nulla. Il bisogno era mutato nel tempo, dovevo trovare il coraggio di affrancarmi, di abbandonarlo, di compiere la mia uccisione simbolica nei confronti di un modello divenuto così ingombrante. A dispetto di Valéry, ma con la consapevolezza che la ragione sta tutta dalla sua parte, ho messo il punto e oggi le mie versioni dei Sonnets from China rappresentano la parte più cospicua del mio approssimativo e personale manuale di scrittura poetica: non un quaderno di traduzioni e neppure di più sfumate imitazioni, ma, per l’appunto, le gabbie per le mie nuvole. Testi disposti tematicamente, in sezioni, con l’indicazione dell’autore in calce, senza l’originale a fronte. Una materia indomabile, eppure mia: il risultato, ancora una volta, di un parallelo disporsi di addomesticamento ed estraniamento. Ecco un esempio, il sonetto XV:

Si levò a sera l’oppressione del giorno.
Vennero a fuoco alte cime, era piovuto.
Si spinsero tra i prati e le aiuole
I conversari dei più alti esperti.

I giardinieri ne stimavano le scarpe;
Attendeva leggendo un autista
Che finisse lo scambio di vedute.
Pareva un quadro di vita ideale.

Lontano e al di là delle intenzioni,
Due armate atendevano un errore
Per dare pene con appositi ordigni.

Dall’esito dell’incanto dipese
Un deserto di giovani ammazzati,
Di donne in pianto e città nel terrore.

Vorrei infine rovesciare la prospettiva, essendomi accaduto di essere tradotto in più lingue da riviste anche autorevoli e in modo del tutto inatteso, perdipiù nelle due lingue che più frequento. I risultati sono molto diversi: certamente la natura romanza del francese asseconda la ritmicità e la resa fonosemantica, mentre con l’inglese le cose sembrano essersi complicate al punto da provocare un radicale mutamento nella struttura del testo. Non è casuale, temo, che entrambi i traduttori, Justin Vitiello per l’inglese americano, e Philippe Di Meo per il francese, vantino origini italiane: la diffusione della poesia contemporanea italiana è spesso affidata a questi caronte della lingua che hanno un legame storico e affettivo con le loro radici (penso anche al caso di Jonathan Galassi). Il loro lavoro, indubbiamente meritorio, ha dunque una ragione che non potremmo non considerare “politica”, di ricongiungimento con il loro modello culturale e di diffusione dei suoi contenuti.
Parto dal francese, dal testo d’avvio di una suite che fa da apertura al mio libro riepilogativo del lavoro tra l’86 e il ’96. Sono cinque versi che in italiano suonano così:

Non potrò restituirmi
la trama d’una mattina svogliata,
la grana della pioggia ottobrina.
Sei vita che non si concede
intera e sai di non mentire.

Nel testo di Di Meo il processo di addomesticamento è evidentissimo: provocato non solo da necessità grammaticali, ma perfino da reminiscenze che, ancora una volta, rinviano con una certa evidenza a Baudelaire, al punto che mi è venuto un sospetto, dopo l’esperienza con Stevenson: ovvero che Le fleurs du mal costituiscano la struttura profonda del mio orecchio poetico, del formarsi del mio stesso ritmo. Questa la versione francese:

Je ne puorrai puor moi restituer
la trame d’une matinée désoeuvrée,
l’ennui de la pluie d’octobre.
Tu es la vie qui ne se donne pas
Entière et tu sais que tu ne mens pas.

Risalta immediatamente che, pur lasciando la versificazione libera nelle sue variazioni, Di Meo stabilisce un forte legame fonico-semantico, attraverso la rima, del tutto assente nel mio testo, legando i primi due versi (restituer-désoeuvrée) e gli ultimi due con la rima identica (pas-pas). Lo slittamento del significato, che pure sembra letterale, è fortissimo, se si pensa che la «grana» della pioggia è stata tradotto con «ennui», ovvero con la noia, col tedio che sembrano per antonomasia accompagnare l’immagine stessa della pioggia, laddove, nel mio testo, il riferimento era alla grana sottile di una pioggia leggera. Ma «restituer:désoeuvrée», con «ennui», costruiscono una vera e propria isotopia negativa alla quale, in verità, non avevo pensato, o che non avevo coscientemente rappresentato. Questa negatività è rafforzata dalla rima identica finale («pas:pas»), che sembra non lasciare alcuno spazio d’azione: nel mio testo invece la corrente dei «non», a cominciare da quello d’avvio, pur lasciando presentire la negatività, la risolveva nella verità sostanziale del tempo che passa (l’acqua, scrive Brodskij, è l’immagine del tempo) e nel suo passare non mente, adorabile ovvietà della nostra finitudine. Quel «désoeuvrée», tra «restituer» ed «ennui», conferisce al testo un andamento davvero baudelairiano, ma chissà se questo ennesimo specchio deformante non sia, in realtà, una fotografia autentica di qualcosa che era anche nella mia scrittura.
Vengo infine al lavoro di Justin Vitiello. Il testo è tratto dalla mia seconda raccolta, Libro naturale, del 1999 e si intitola Facile. È una poesia d’amore, il cui titolo ancora rinvia all’ovvietà della nostra condizione umana.:

Mio amore, questo è l’ultimo treno
Fra i tanti che abbiamo visto passare:
Gli scambi riposeranno fino a domani.
E io sento altri rumori, la notte,
Il battito difforme di una corsa
Lungo binari senza ferro e travi.
È qualcuno che porta la mia vita
Sulle sue spalle, ma non mi somiglia.
Aggirerà cento semafori spenti,
Pensiline come isole deserte,
Altoparlanti di nessuna partenza
Da annunciare. Perché questo
È l’ultimo treno, amore mio,
E nessuno verrà a dirti ciò che manca
Ai nostri giorni insieme.

Vitiello la traduce così:

My love, this is the last train
of all those we’ve watched go by:
the switches rest till morning.
And I hear other noises, night,
the disparate beats of a hurtling
on tracks with no rails or ties.
It’s someone who totes my life
on the back but
bears me no resemblance.
That fatigue crosses the seasons,
I feel it but
It bears me no resemblance.
It will run one hundred burnt-out signals,
platforms like deserted islands,
intercoms without departures
to announce.
                            Because this is
the last train, my love,
and no one will come tell you what’s missing
in the transit of our days together.

Fino al sesto verso la traduzione è letterale, ma Vitiello riscrive il testo a partire dal settimo: anzi, ne inserisce tre che non sono mia scrittura. Così facendo enfatizza il tema della mancata somiglianza tra il soggetto lirico e il suo doppio, ripetendola in una terzina inserita per l’occasione ed evidenziando ancora una volta l’altro tema, quello onnipresente dello scorrere del tempo: «that fatigue crosses the seasons».
È indubbiamente un’interpretazione, un’aggiunta di note che non ha alcun intento migliorativo o peggiorativo, ma che, per l’appunto, si autoinveste di un ruolo fortemente tematico. Infatti, dopo questo inserto, con la sola eccezione di un verso “a scaletta”, Vitiello riprende a tradurre pressoché alla lettera, senza alcuna particolare invenzione. Perché quel «bears me no resemblance», un tema fra gli altri, diventa così centrale nella ricezione del traduttore italo-americano? Credo di aver già dato la risposta.

Bibliografia
F. Apel, Il movimento del linguaggio. Un ricerca sul problema del tradurre, a cura di E. Mattioli e R. Novello, Milano, Marcos y Marcos, 1997.
W.H. Auden, Collected Shorter Poems, London, Faber & Faber, 1966.
R. Deidier, Una stagione continua. 1986-1996, Ancona, peQuod, 2002.
R. Deidier, Gabbie per nuvole, Roma, Empirìa, 2011.
Ph. Di Meo,  Poésies italiennes, II, «La Nouvelle Revue Française», 584, Janvier 2008.
M. Hartnett, Seminando, Milano, Crocetti, 1995.
R.L. Stevenson, Chirurgo celeste e altre poesie, a cura di R. Deidier, Pistoia, Via del Vento, 1997.
L. Venuti, L’invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione, trad. di M. Guglielmi, Roma, Armando, 1999.

J. Vitiello, Four Poems by Roberto Deidier, «World Literature Today», 2 (71), Spring 1997.

giovedì 7 maggio 2015

AILANTO n. 17 - Su Francesco Scarabicchi




Sostiene Lawrence Venuti, uno dei maggiori teorici della traduzione letteraria, che quando a tradurre un poeta si appresta un altro poeta, le sue scelte ricadranno nell’ambito di un processo straniante, che tenga cioè in maggior conto aspetti e caratteri dell’originale rispetto a quelli della lingua d’arrivo e del suo sistema culturale. In realtà le dinamiche si fanno molto più complesse, perché ciò che accade tra autori, anche diversi nello spazio e nel tempo, risponde perlopiù a una sorta di “prestito” della lingua, di una lingua poetica che risulta costruita, codificata anche da parte di chi traduce. Certamente il divario tra scelte stranianti e scelte addomesticanti (ovvero il criterio che tiene più in conto la lingua di chi traduce) si attenua, o quanto meno oscilla, quando siamo in presenza di contatti tra sistemi linguistici vicini, derivanti dallo stesso ceppo. È quanto si verifica, ad esempio, tra lo spagnolo di Machado e di Lorca e l’italiano di Francesco Scarabicchi; contrariamente la diversità e la distanza costringono a scelte ben più difficili e radicali, specie se quello che vogliamo ottenere in italiano è un testo poetico e non una vaga fotocopia in traduttese dell’originale.
Questo è il primo punto: non si tratta semplicemente di un contatto tra due lingue prossime parlate e scritte da una parte all’altra del Mediterraneo, ma di sistemi espressivi, insomma di stili che rispondono a determinate officine poetiche. La libertà dei moderni è stata anzitutto quella di svincolarsi dai canoni e da un’idea monolitica della tradizione, scegliendo liberamente i propri autori, maestri o compagni di strada, eleggendoli in qualche modo, e in qualche caso, a vere e proprie ossessioni. È il caso di questo libro, un quaderno di traduzioni che si limita per l’appunto ai due autori spagnoli, feticci che hanno accompagnato il percorso di formazione di Scarabicchi, la sua gioventù poetica come la sua bella maturità. Il risultato è davvero di un equilibrio raro, sia per le singole scelte, sia per la totalità dell’operazione; il lettore avverte chiaramente la presenza di Machado e Lorca nel verso di Scarabicchi a fronte, sente la “cura” (nel senso latino di amore e studio insieme) con cui il poeta si rapporta con i due modelli; sente, in definitiva, che ciò che gli si pone sotto lo sguardo è un processo di simbiosi, in cui il “prestito” a cui alludevo si è svolto secondo una tensione dialettica chiara e sempre percepibile, e che nessuna scelta è stata effettuata fuoriuscendo da quell’equilibrio. Il traduttore non si è sovrapposto agli originali, gli originali non hanno sovracondizionato il traduttore.
C’è, dietro questa empatia, un percorso di accoglimento di una somiglianza o piuttosto di una diversità? Se penso a certe prove di Scarabicchi, come Il viale d’inverno, non riesco a non riconoscere una delicatezza e un’allure di malinconia che in realtà permeano tutta la scrittura di questo poeta; e allora il rapporto con Machado, soprattutto, mi sembra che si sia instaurato come attraverso l’individuazione di una voce maestra, mentre il controcanto gitano di Lorca  ha portato, in queste versioni come nel mondo poetico di Scarabicchi, quelle venature di energica freschezza che talora si lasciano cogliere pur nella dolcezza dell’elegia.

Antonio Machado, Federico García Lorca, Non domandarmi nulla, versioni di Francesco Scarabicchi, Marcos y Marcos 2015, e. 17.00.

da Lorca, Dopo il passaggio

I bambini guardano
un punto lontano.

I lumi si spengono.
Alcune ragazze cieche
domandano alla luna,
e nell’aria salgono
spirali di pianto.

Le montagne guardano
un punto lontano.